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La sfida del capitale umano e una nuova idea di sviluppo


Lavoro e capitale sono i pilastri che reggono un sistema economico. La combinazione tra questi due fattori determina la produttività delle imprese e il potenziale competitivo del sistema. Tuttavia, l’alchimia funziona solo se, dato un certo livello di capitale finanziario e industriale, il capitale umano viene valorizzato e aggiornato con costanza e responsabilità condivisa. In questo processo, il sistema formativo gioca un ruolo essenziale, al pari dei datori di lavoro e delle famiglie.

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Purtroppo, si osservano a Nord Est segnali di allarme che rendono urgente un intervento strutturato. Il primo attiene alla dimensione demografica. La popolazione in età lavorativa è in costante calo e le proiezioni demografiche non offrono spiragli confortanti. L’inversione della tendenza appare fuori portata nel breve periodo, se non attraverso due strategie: da un lato, politiche migratorie efficaci che stabilizzino la piramide demografica; dall’altro, con l’incremento incentivato della partecipazione al lavoro da parte di donne e giovani inattivi.

Un secondo nodo riguarda la formazione universitaria. La quota di popolazione che consegue titoli accademici resta ancora troppo bassa, anche per la percezione diffusa di un ritorno debole sull’investimento in istruzione. Il valore sociale dello studio sembra sbiadito. A questo si aggiunge la sotto-rappresentazione accademica delle discipline Stem, a causa di una tradizione umanistica ancora dominante. Nel contesto del Nord Est, si evidenziano criticità ulteriori.

Molti laureati triennali decidono di proseguire gli studi in altre regioni o all’estero. Altri, una volta conseguita la laurea magistrale, preferiscono inseguire opportunità fuori dal contesto locale. La mobilità in uscita è elevata, e l’effetto è un impoverimento del capitale umano sul territorio. Questo sta generando una crescente difficoltà per le imprese nel reclutare collaboratori con competenze adeguate, in termini quantitativi e qualitativi.

C’è molto da fare. Innanzitutto, serve orientare i giovani verso le imprese locali, aiutandoli a conoscerne le opportunità di carriera. Gli stipendi proposti, poi, sono un altro nodo critico. Dopo la pandemia, la dinamica retributiva è rimasta indietro rispetto all’inflazione. I giovani più qualificati e ambiziosi scelgono, comprensibilmente, di andarsene là dove le retribuzioni sono più competitive e stabili. Dal canto loro, Stato e Regioni stanno facendo la loro parte, con significative misure di decontribuzione e riduzione del cuneo fiscale. E proprio alla luce di ciò, non è più accettabile che gli incentivi producano impatti irrilevanti sul netto in busta.

Anche la qualità contrattuale fa la differenza. Laddove l’offerta si limita a tirocini o apprendistati, è evidente che il confronto con contratti a tempo indeterminato e stipendi più alti altrove spinga molti a lasciare le nostre Regioni. Lo vediamo ogni semestre nei dipartimenti universitari: i migliori studenti ricevono proposte serie e allettanti prima ancora della laurea, spesso da datori di lavoro extra-regionali.

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Un altro fronte critico riguarda la formazione continua in azienda. Molti imprenditori considerano ancora il capitale umano come un bene pubblico, la cui formazione è responsabilità dello Stato e degli stessi lavoratori. Ma oggi è evidente che la competitività passa anche dalla capacità delle imprese di qualificare costantemente i propri dipendenti, con investimenti mirati.

Eppure, pur con queste premesse, non mancano opportunità e segnali positivi. Ad esempio, ci sono ancora bacini di lavoro inutilizzati o sottoutilizzati. L’occupazione femminile resta bassa, così come l’inclusione dei lavoratori senior nei percorsi di aggiornamento. Valorizzare questi segmenti potrebbe offrire nuove risorse al mercato del lavoro regionale.

Inoltre, l’offerta formativa universitaria e post-universitaria si sta rapidamente evolvendo sempre più verso modelli interdisciplinari. Le discipline umanistiche e sociali si stanno contaminando con contenuti tecnico-scientifici, soprattutto nell’ambito dell’intelligenza artificiale. Sta nascendo una convergenza virtuosa tra profili umanistici e tecnologici, capace di generare nuove figure professionali ibride. Un altro segnale positivo arriva dalla crescente attrattività del Nord Est verso gli studenti internazionali. Sebbene i numeri siano ancora troppo contenuti, si intravedono spazi per politiche di retention e inclusione dei talenti globali.

La ricerca di soluzioni alle sfide del capitale umano passa per una sfida culturale e strategica: far partire un circolo virtuoso in cui l’innovazione generi competitività, la competitività alimenti la produttività e questa consenta salari più alti e lavoro di maggiore qualità.

L’Italia, sinora, ha scelto la via del contenimento salariale per salvare la produttività. Ma questo modello è ormai inefficace. Bisogna ripensare la nostra struttura produttiva, interrogandosi con coraggio su quale manifattura vogliamo sostenere e se davvero il turismo e la ristorazione possano compensare il declino di altri settori. La sfida del capitale umano è, in ultima analisi, la sfida di una nuova idea di sviluppo. Una sfida da vincere.

*Dean, MIB Trieste School of Management



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