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il Green deal contro la cultura della guerra


Quando rombano i tamburi di guerra e non si ha un ruolo diretto, se non quello di sostenere chi lotta per la pace e la libertà, resta fondamentale continuare a fare ciò che è giusto e necessario. Come racconta la famosa favola del colibrì che, con poche gocce d’acqua nel becco, cerca comunque di spegnere l’incendio: piccolo, ma determinato, perché “fa la sua parte”.

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Anche oggi, nonostante lo scoraggiamento che talvolta ci assale e il fatto che molti parlino d’altro, relegando la transizione ecologica a tema secondario, dobbiamo continuare, con umiltà ma con fermezza, a difendere il Green deal e a riportare al centro del dibattito pubblico quelle soluzioni che creano sviluppo, lavoro e resilienza. Esattamente l’opposto della cultura della guerra.

Tra queste soluzioni, una in particolare continua — chissà perché — a essere sottovalutata: la drastica e possibile riduzione del fabbisogno energetico. È una leva potente, decisiva anche per contrastare una narrativa ideologica sempre più diffusa: quella della cosiddetta “neutralità tecnologica”. Un concetto che, nella pratica, diventa spesso una scusa per sostenere indistintamente tutte le tecnologie di produzione energetica, dal gas più o meno verde, o tecnologie costose, immaginarie e lontane come il nucleare “pulito” o la cattura del carbonio. Questo approccio ha un effetto preciso: allontana l’urgenza di tagliare subito le emissioni, drena risorse e priorità alle rinnovabili e all’efficienza energetica, e ci condanna a una transizione infinita, continuando intanto a dipendere allegramente dal gas.

È una logica perversa, che tiene in particolare il Governo italiano – e purtroppo anche una parte del mondo industriale – indietro sulle rinnovabili, disinteressato all’efficienza energetica e fin troppo loquace sul nucleare.

Eppure, i dati parlano chiaro. Senza le misure di efficienza già in vigore, oggi il consumo energetico dell’Ue sarebbe più alto del 27%, l’equivalente del consumo combinato di Francia, Germania e Finlandia. E se realizzassimo pienamente gli obiettivi fissati, potremmo risparmiare 33 miliardi di euro all’anno in importazioni energetiche entro il 2030, che salirebbero a oltre 70 miliardi entro il 2040.

Ogni punto percentuale di miglioramento dell’efficienza energetica equivale a un taglio del 2,6% nelle importazioni di gas. E, elemento cruciale dopo eventi come il blackout in Spagna, gestire in modo più flessibile il consumo elettrico, evitando i picchi, potrebbe ridurre del 35% gli investimenti necessari nelle reti. Non è poco.

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È proprio per rimettere al centro questo tema spesso trascurato, che il 12 e 13 giugno scorsi l’Agenzia internazionale dell’energia ha organizzato – insieme alla Commissione Ue e a un gruppo di multinazionali riunite nell’EE Movement – la decima edizione della Conferenza globale sull’efficienza energetica; si tratta di un appuntamento annuale di alto livello che ha riunito quest’anno oltre 700 partecipanti da un centinaio di Paesi. Assente, purtroppo, l’Italia, dopo il forfait della viceministra Gava.

Il focus dell’edizione 2025 è stato la preparazione della Cop30 di Belém e la traduzione in azioni concrete degli impegni presi a Dubai durante la Cop28: l’avvio dell’uscita dai combustibili fossili, il raddoppio del tasso annuo di miglioramento dell’efficienza energetica (dal 2% al 4%) e la triplicazione della capacità installata di energie rinnovabili entro il 2030.

In un momento in cui il Green deal europeo viene messo sotto pressione e la Commissione è tentata di riaprire – col pretesto della semplificazione – normative già approvate, la scelta di tenere la conferenza proprio a Bruxelles ha assunto un valore politico rilevante. Ha consentito di riportare sotto i riflettori un tema fondamentale, spesso sacrificato in favore di discussioni più ‘glamour’, come quelle su gas o nucleare, e di condividere soluzioni già disponibili che, in molti casi, attendono solo di essere applicate su larga scala.

L’evento ha anche mostrato come, a livello globale, un numero importante di governi, imprese e attori sociali stia spingendo con forza verso la riduzione dei consumi energetici, riconoscendola come una componente cruciale della transizione, garanzia di indipendenza energetica e di sicurezza. Incontri riservati fra amministratori delegati e ministri, sessioni di lavoro organizzate da organismi tecnici come l’Eceee, e confronti strategici sul ruolo dei parchi industriali e delle reti elettriche intelligenti hanno arricchito il dibattito, culminato in un impegno ufficiale di 47 Paesi a considerare l’efficienza energetica una priorità politica in tutti i settori.

Per quanto riguarda l’Unione europea, il commissario Dan Jørgensen ha colto l’occasione per lanciare un piano d’azione in dieci punti per “dare nuovo impeto” all’efficienza energetica. Tra le misure annunciate figurano un maggiore supporto agli Stati membri nell’attuazione delle direttive su efficienza, ecodesign e prestazioni energetiche degli edifici, l’inserimento di disposizioni specifiche sull’efficienza nel nuovo pacchetto legislativo su reti ed elettrificazione, strumenti per facilitare investimenti nei settori dei trasporti, dell’edilizia e dei processi industriali, nonché l’introduzione di schemi di garanzia per le piccole e medie imprese. Particolarmente significativa, infine, la promessa di presentare entro l’inizio del 2026 un pacchetto legislativo dedicato all’efficienza energetica dei data center.

Tuttavia, accanto all’entusiasmo manifestato dal commissario Jørgensen – da sempre personalmente impegnato sul tema – permangono forti elementi di preoccupazione sull’azione della Ue. Secondo il rapporto pubblicato di recente sullo stato di attuazione dei Piani nazionali energia e clima, gli impegni presi dai governi indicano che l’Unione è sulla buona strada per quanto riguarda rinnovabili e riduzione delle emissioni, ma l’efficienza energetica resta drammaticamente indietro: a fronte di un obiettivo europeo di riduzione dei consumi finali dell’11,7% entro il 2030 rispetto allo scenario base, le misure oggi previste dai piani nazionali porterebbero a un miglioramento di appena l’8%.

Ricordiamo che l’obiettivo dell’11,7%, definito nella direttiva europea sull’efficienza del 2023, corrisponde a un consumo energetico finale di 763 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (Mtep) e a un consumo primario di 992,5 Mtep, con una riduzione rispetto ai livelli precedenti equivalente, in pratica, al consumo energetico annuale di un Paese come la Spagna.

Nonostante questi numeri innegabili, permane la riluttanza di molti Stati membri a destinare risorse adeguate, soprattutto nei settori dell’edilizia e dei trasporti. Anche le utilities sono tutt’altro che entusiaste dei nuovi obblighi di riduzione della domanda contenuti nella direttiva sull’efficienza. E, ancora, l’Esecutivo Ue non ha accantonato l’idea di semplificare – cioè, indebolire – alcune normative del pacchetto Fit for 55. Solo l’azione congiunta di imprese e Ong ha finora impedito la riapertura delle direttive su efficienza energetica e prestazioni energetiche degli edifici. Ma la pressione da parte del mondo industriale più conservatore e delle forze politiche contrarie alla transizione non accenna a diminuire.

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Infine, nelle delicate discussioni in corso da mesi sulla revisione della legge sul Clima, finalizzate a definire i nuovi obiettivi intermedi al 2040, è la Commissione europea stessa a non volere proporre alcun target specifico per l’efficienza energetica, cosa che rischierebbe di rendere meno cogente anche il target al 2030. Una scelta che lascia interdetti, e giustificata da alcuni con l’argomentazione, tanto diffusa quanto infondata, che ridurre il fabbisogno energetico equivarrebbe a frenare la crescita economica. Eppure, i dati dimostrano esattamente il contrario: mentre, dal 1990, le emissioni dell’Unione sono diminuite del 37%, nello stesso periodo il Pil è cresciuto del 68%. Un segnale evidente che ridurre i consumi energetici non solo è compatibile con lo sviluppo, ma può anzi rappresentarne uno dei motori principali, attivando filiere tecnologiche, generando occupazione e aumentando la competitività. Insomma, ridurre il fabbisogno energetico nelle case, nell’industria, nei trasporti significa oggi spingere l’attività economica e non deprimerla.

In questo contesto, l’evento organizzato dalla Iea ha offerto un segnale incoraggiante: le voci più chiare e risolute sono arrivate proprio dalle imprese. In particolare, Anne-Laure de Chammard, vicepresidente esecutiva di Siemens, ha riassunto con forza un messaggio che condividiamo pienamente: le imprese hanno la responsabilità diretta di spingere per l’applicazione coerente delle normative già approvate, senza riaprire né smantellare quanto faticosamente costruito; e serve che proprio le imprese portino esempi più espliciti, mettendo in luce i vantaggi concreti dell’efficienza energetica: competitività, innovazione, resilienza. Più che riaprire o smantellare, serve oggi una forte azione di sensibilizzazione, per rendere visibili all’opinione pubblica e ai governi i risultati concreti, tangibili e accessibili che l’efficienza energetica può offrire: un messaggio positivo, chiaro e, per certi versi, inusuale. Soprattutto per chi, come molti di noi in Italia, è abituato/a a sentire solo lamenti e richieste di ridimensionare il Green deal dai rappresentanti istituzionali di molta parte dell’impresa.





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