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IA e imprese: rischi e opportunità tra ottimismo e distopia


Agostino Ghiglia

C’è chi la osserva con lo sguardo febbrile di chi intravede un nuovo Eldorado e chi, invece, la teme come l’ennesimo Golem pronto a sfuggire di mano al suo creatore. L’intelligenza artificiale per le imprese è questo: una promessa e una minaccia, una frontiera e un abisso. È l’aurora e il tramonto della stessa giornata.

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Da un lato, le opportunità sembrano sterminate. L’IA spalanca porte che l’uomo da solo non avrebbe mai potuto forzare: analisi predittive che leggono il mercato prima che il mercato stesso si accorga di muoversi; chatbot che non dormono mai e che parlano tutte le lingue del mondo, offrendo assistenza continua; sistemi di raccomandazione che sanno ciò che desideriamo prima ancora che il nostro desiderio prenda forma. La produttività viene spinta verso orizzonti impensabili, i costi si riducono, l’efficienza diventa un mantra ripetuto da algoritmi senza stanchezza. Le imprese che sanno domare questa nuova forza sembrano cavalcare un’onda perfetta, sospinte da un vento che soffia incessante dalla parte dell’innovazione.

Ma ogni promessa, si sa, porta con sé il suo lato d’ombra. L’IA non è neutra, non è un oracolo infallibile né una forza divina immune dai vizi umani. È un riflesso delle nostre intenzioni, dei nostri dati, dei nostri errori.

I sistemi di IA si nutrono di ciò che gli diamo, e se l’alimento è inquinato da pregiudizi, storture, diseguaglianze, essi li amplificano con la freddezza della macchina. Si pensi alla selezione automatizzata dei curricula che scarta i profili “non conformi” perché così ha imparato a fare leggendo i modelli del passato; o agli algoritmi di pricing dinamico che discriminano i clienti senza che nessuno riesca davvero a spiegare il perché. La black box dell’IA rischia di trasformare l’impresa da soggetto etico a macchina cinica di ottimizzazione del profitto.E poi c’è il rischio, sottilissimo ma letale, della dipendenza. Le imprese che affidano alle macchine il cuore delle decisioni strategiche, che dismettono il pensiero critico in favore del “ha detto l’algoritmo”, rischiano di perdere sé stesse. La delega assoluta è una forma di auto-annientamento. L’IA può suggerire, orientare, illuminare zone buie, ma non può sostituirsi all’umano nella responsabilità ultima del decidere. Le imprese che dimenticano questa verità rischiano di diventare marionette mosse da fili invisibili, burattini di una tecnologia che non si fa mai carico delle conseguenze etiche delle proprie previsioni.Eppure, tra questi poli estremi – l’ottimismo acritico e la distopia paralizzante – c’è un sentiero più sottile, quello della consapevolezza. Le imprese che sapranno abitare questa soglia con spirito critico e visione etica potranno trasformare l’IA in un’alleata straordinaria. Potranno immaginare modelli di business che coniughino efficienza e giustizia, automazione e centralità della persona, innovazione e memoria. Potranno riscrivere il senso stesso di “valore”, ponendo al centro non solo l’utile economico, ma anche l’impatto sociale, ambientale e culturale delle loro scelte. Per farlo, però, servirà un nuovo umanesimo d’impresa. Un umanesimo che non tema la tecnologia, ma la abiti con quella sana inquietudine che spinge a domandarsi non solo “cosa possiamo fare”, ma soprattutto “cosa dovremmo fare”. Un umanesimo che torni a considerare la tecnica non come fine, ma come mezzo per custodire e promuovere la dignità umana. L’IA è già qui, nelle stanze dei bottoni, nei magazzini automatici, nei call center invisibili. La sfida non è fermarla, ma orientarla. Perché – come ammoniva Italo Calvino – “l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne: accettarlo fino al punto di non vederlo più, o cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Quale strada sceglieranno le imprese?



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