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LAVORI PUBBLICI: QUANDO LE IMPRESE HANNO IL COLTELLO DALLA PARTE DEL MANICO


Il caso A19 e le distorsioni sistemiche dei lavori pubblici italiani

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Il 2 giugno scorso, durante la festività della Repubblica, l’autostrada A19 “Palermo-Catania” è stata teatro di un vero e proprio “inferno” viario. Nel tratto compreso tra Altavilla Milicia e Bagheria, gli automobilisti hanno affrontato code chilometriche, con tempi di percorrenza superiori a un’ora e mezza per pochi chilometri, a causa dei cantieri in corso e dei conseguenti restringimenti di carreggiata.

L’episodio del 2 giugno ci offre l’occasione di riflettere su un settore, quello dei lavori pubblici, che troppo spesso ci propone situazioni analoghe: cantieri di durata infinita, carreggiate ridotte all’osso, automobilisti abbandonati sotto il sole e un sistema che sembra incapace di proteggere l’interesse pubblico.

Le imprese dettano le regole

Diciamo subito una verità che pochi sono disposti ad ammettere, e di cui più avanti esamineremo le cause: le imprese che vincono gli appalti si trovano spesso a lavorare su progetti lacunosi o inadeguati.

Un progetto carente non è necessariamente un problema per l’impresa esecutrice, anzi, si trasforma facilmente in un’opportunità: consente sollevare eccezioni, chiedere varianti, presentare riserve economiche. E le imprese possono farlo in maniera del tutto legittima, secondo un sistema che non prevede responsabilità diffuse, ma penalizza sempre lo stesso soggetto: il committente pubblico.

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Quando il confronto diventa contenzioso, il vantaggio si allarga: le aziende possono permettersi studi legali di alto livello, capaci di sfruttare ogni margine procedurale. Dall’altra parte, i funzionari pubblici – spesso soli – devono rispondere con risorse limitate e, peggio, con uffici legali interni poco strutturati e impreparati a reggere lo scontro.

E’ così che, per “quieto vivere” si lascia spesso l’iniziativa alle imprese, la cui priorità è fare utili. Sarebbe strano, ad esempio, pretendere che intervenissero “motu proprio” spostando le recinzioni di un cantiere e consentire, almeno momentaneamente, di incrementare lo spazio a disposizione degli utenti. Magari in una autostrada, in occasione di una festività…

Funzionari pubblici isolati e sotto pressione

Il vero paradosso è che i funzionari che dovrebbero tutelare l’interesse collettivo operano in un clima di crescente paura. La possibilità di essere chiamati a rispondere davanti alla Corte dei conti per presunti danni erariali induce un atteggiamento difensivo, se non di vero e proprio immobilismo. Il rischio personale supera spesso l’interesse pubblico.

A questo si aggiunge una condizione lavorativa al limite del sostenibile: stipendi bassi, carichi elevatissimi, carenza di personale tecnico, strumenti obsoleti. In queste condizioni, pretendere una vigilanza efficace sui cantieri è illusorio. La pubblica amministrazione non ha i mezzi, né la forza, per farlo.

Il falso mito dei lavori notturni

Dopo l’emergenza del 2 giugno, si è chiesto – come accade sempre – di spostare i lavori nelle ore notturne. Una soluzione apparentemente sensata, ma che si scontra con la realtà. I lavori notturni comportano un aumento dei costi mediamente del 30%, tra maggiorazioni salariali, logistica e sicurezza. La pubblica amministrazione, già in sofferenza di bilancio, non ha quasi mai le risorse per sostenerli.

Inoltre, lavorare di notte richiede anche una macchina organizzativa in grado di garantire controlli, verifiche, coordinamento. Tutto questo è spesso impossibile da assicurare, soprattutto nei piccoli enti.

Progettisti sotto pressione e la necessità di una formazione specialistica

A proposito dei progetti, non si può imputare la loro cattiva qualità soltanto all’incompetenza dei progettisti. Spesso i problemi nascono dalla fretta, da scadenze ravvicinate imposte da bandi, finanziamenti a tempo o urgenze amministrative. Ne derivano progetti incompleti o approssimativi, che diventano un punto debole in fase esecutiva.

Servirebbe come il pane una scuola di specializzazione permanente: sia per i progettisti, che devono confrontarsi con opere sempre più complesse, sia per i funzionari pubblici che li valutano, approvano e controllano.

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Un modello ispiratore potrebbe essere l’École des Ponts et Chaussées, in Francia, fondata nel 1747, che ha formato intere generazioni di ingegneri civili, amministratori e tecnici pubblici.

Il nodo irrisolto della riforma della PA

C’è poi un tema troppo spesso ignorato dal dibattito politico: la riforma della pubblica amministrazione. Una riforma che non può ridursi a una semplificazione procedurale, ma deve essere riempita di contenuti: più personale, meglio formato, pagato in modo dignitoso e dotato di strumenti adeguati.

Le piante organiche sono quasi ovunque disattese. Mancano ingegneri, tecnici, amministrativi. I concorsi sono rari e tardivi. Anche quando ci sono, non attirano professionisti di qualità, scoraggiati da retribuzioni poco competitive e da carriere stagnanti.

La formazione, poi, langue. Eppure in un settore tecnico come quello dei lavori pubblici, non aggiornare continuamente chi lavora negli uffici significa condannare il sistema all’obsolescenza.

Una questione di interesse pubblico

L’episodio del 2 giugno non è un caso isolato. È il sintomo di un sistema debole, in cui la PA si presenta disarmata di fronte a soggetti più strutturati e capaci di sfruttarne ogni fragilità. E dove a pagare il prezzo, in termini di tempo, sicurezza e qualità delle opere, sono sempre i cittadini.

Serve un cambio di passo. Rafforzare la PA, proteggerla, formarla, dotarla di risorse e competenze. Restituire dignità al servizio pubblico, ma anche capacità contrattuale, è un’esigenza non più rinviabile.

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