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La retromarcia italiana sul Green Deal


La posizione del governo italiano sul Green Deal europeo non va interpretata come semplice reazione alle posizioni di Donald Trump. La linea politica era già chiara e definita

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Un’analisi del think tank Ecco, ripresa da diversi media, ha individuato nella proposta fatta da  Trump lo scorso aprile  – garantire all’Ue una tregua tariffaria con l’acquisto di 350 miliardi di dollari in energia statunitense, soprattutto gas naturale liquefatto (GNL) – non solo l’obiettivo di  “far comprare il gas per ridurre lo sbilancio commerciale”, ma di imporne l’acquisto nel lungo periodo, impedendo così all’Europa di realizzare il Green Deal.

Immersi in un eterno presente, diversi miei interlocutori hanno interpretato i successivi attacchi della premier Meloni al Green Deal europeo come tempestivi adeguamenti alla linea politica dettata dal presidente americano. Probabilmente a impressionarli è stata l’immediata, polemica replica a una domanda sui dazi di Trump (esistono dazi anche nell’Ue, prodotti da “Green Deal e regolamentazione UE”), ma in particolare, per la sua rilevanza, l’intervento del 28 maggio 2025 all’assemblea di Confindustria, con l’icastico “Green Deal? Risultati disastrosi”.

Una posizione anticipata pochi giorni prima dalla dichiarazione fatta in parlamento durante il Question time del 14 maggio 2025. “Colleghi, conoscete la posizione del governo in materia di Green Deal, perché anche io ho più volte denunciato in quest’aula quanto una visione eccessivamente ideologica della transizione verde si sia rivelata drammatica per la competitività europea”.

Alcune vicende pregresse ci rivelano invece una realtà drasticamente diversa. 

Già il 27 ottobre 2024, cioè ben prima dell’intervento trumpiano sui dazi, quando all’assemblea di Confindustria il neoeletto presidente Orsini fornisce alla Meloni un prezioso assist (“Il Green Deal è impregnato di troppi errori, la decarbonizzazione inseguita al prezzo della deindustrializzazione è una debacle”), la premier è pronta a fare gol. ”Lo ringrazio per essere stato chiaro sui risultati disastrosi frutto di un approccio ideologico, siamo impegnati per correggere queste scelte”, che stanno mettendo in crisi grandi settori industriali: “Nel deserto economico non cresce il verde”. 

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D’altronde, quale sarebbe stato l’orientamento del suo governo sulla transizione ecologica è emerso subito con chiarezza, quando tra le prime decisioni assunte è stata inserita la modifica delle denominazioni di due ministeri, volute non da un ambientalista, bensì da Draghi quando era premier, per dare ai cittadini e alle imprese un messaggio chiaro sul ruolo centrale della transizione ecologica nella politica dell’esecutivo.

In uno dei due casi non si trattò di un cambiamento soltanto formale, perché nel ministero della Transizione ecologica insieme alle competenze del precedente ministero dell’Ambiente confluirono anche alcune Direzioni dell’allora ministero dello Sviluppo economico, inerenti al settore dell’energia. Nel secondo caso, il ministero dei Trasporti cambiò soltanto denominazione, diventando quello delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili.

Sostituire, come decise immediatamente il governo attuale, “transizione ecologica” con “ambiente e sicurezza energetica” e cancellare l’aggettivo “sostenibile” dalla denominazione del ministero dei Trasporti, ha dunque comunicato a cittadini e imprese che la transizione ecologica è tornata a non essere centrale nella politica dell’esecutivo, come hanno confermato diversi provvedimenti successivi: sul fotovoltaico in agricoltura, sulla scelta delle aree idonee delegata alle regioni,  sugli insufficienti incentivi all’elettrificazione del trasporto privato.                                                                     

Queste scelte hanno trovato riscontro in un Pniec che, secondo la Commissione europea, non raggiunge gli obiettivi di riduzione delle emissioni previsti dalla normativa comunitaria soprattutto nel settore dei trasporti, dove mancano adeguate misure per incentivare la mobilità elettrica, mentre si prevede un aumento di sei volte nell’uso di biocarburanti entro il 2030, che è difficilmente compatibile con il mix limitato attualmente a basse quote di biocarburanti. Inoltre, sempre secondo la Commissione, il Piano fa ancora riferimento agli incentivi per i veicoli e le navi alimentati da combustibili fossili (Gnc, Gnl e Gpl). 

 Sarebbe stato pertanto ragionevole attendersi che almeno le opposizioni cogliessero l’opportunità offerta dalle critiche europee al Pniec italiano per mettere al centro del dibattito politico la scelta del governo Meloni di non voler contrastare con misure adeguate la crisi climatica. 

Malgrado abbondassero le argomentazioni a sostegno di questo obiettivo, se le opposizioni non le hanno colte al volo probabilmente dipende da un dato di fatto. Solo una volta, nel 1987, il timore per i possibili effetti delle ricadute radioattive provocate dal disastroso incidente nella centrale di Chernobyl ha influenzato i risultati delle elezioni politiche (con i Verdi entrati per la prima volta in Parlamento). Ma proprio la mancata sensibilizzazione dei cittadini sui rischi derivanti da un inadeguato contrasto alla crisi climatica contribuisce ad alimentare un voto che nelle sue scelte non tiene conto delle politiche per la transizione energetica, mentre proprio il continuo martellamento su questo tema potrebbe altresì motivare una maggiore affluenza alle urne e indurre la premier a rivedere la propria posizione sul Green Deal. 



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