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Crediti di carbonio: guida per aziende sostenibili


Eventi climatici estremi sempre più frequenti, foreste che scompaiono a ritmi allarmanti, oceani che diventano sempre più acidi e un ecosistema che perde ogni giorno nuove specie. La Terra non sta semplicemente cambiando: sta gridando. Ed è un grido che riguarda tutti, anche — e soprattutto — chi fa impresa.

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La transizione ecologica come leva strategica aziendale

La transizione ecologica non è più una scelta “green” da raccontare nei report di sostenibilità: è una leva strategica per restare rilevanti nel mercato. Le persone vogliono trasparenza, gli investitori guardano alle metriche ESG, le banche premiano chi si impegna davvero. In questo contesto, ignorare l’ambiente significa esporsi a rischi reputazionali, economici e normativi.

Quindi, cosa può fare concretamente un’azienda per essere parte della soluzione? Da una parte è fondamentale puntare alla riduzione totale delle emissioni di CO2, attraverso l’efficienza energetica e l’uso di energie rinnovabili; dall’altra, poiché in alcuni settori una quota di emissioni è inevitabile, è essenziale compensare ciò che non si può eliminare.

Un’opzione concreta è quella dei crediti di carbonio: strumenti certificati che permettono alle imprese di compensare le proprie emissioni investendo in progetti che rimuovono o riducono CO₂ dall’atmosfera. Ma attenzione: non sono una scorciatoia, bensì una scelta strategica che deve poggiare su rigore, trasparenza e qualità.

Per molte imprese, questa è una delle prime tappe di un percorso più ampio verso un impatto ambientale realmente positivo. Perché oggi, più che mai, fare impresa significa anche prendersi cura del pianeta su cui operiamo.

L’evoluzione storica dei crediti di carbonio dal protocollo di Kyoto

L’idea di compensare le emissioni attraverso i crediti di carbonio nasce con il Protocollo di Kyoto e comincia a prendere forma concreta solo nel 2005. In quel momento, il concetto era ancora in fase embrionale: si muovevano i primi passi, si sperimentava, spesso con buone intenzioni ma senza strumenti maturi. I pionieri del settore cercavano di quantificare gli assorbimenti e le emissioni evitate, trasformando numeri e intenzioni in crediti da scambiare. Un processo inevitabilmente imperfetto.

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Col passare del tempo, però, la narrazione è cambiata: l’immaturità iniziale ha lasciato spazio a veri e propri abusi. Il mercato dei crediti è diventato terreno fertile per operazioni poco trasparenti, attratte dalla crescente attenzione verso il cambiamento climatico. Il danno peggiore? Non solo le frodi, ma la perdita di tempo prezioso per intervenire davvero sul clima.

Una svolta arriva con l’Accordo di Parigi del 2015. Da quel momento, il concetto di “credito di qualità” inizia a strutturarsi, anche grazie al lavoro di enti come ICROA, IETA e ICVCM che oggi lavorano per definire e tutelare l’integrità dei crediti di carbonio. Nascono standard e principi per dare solidità al sistema. Tra questi, i Carbon Core Principles, dieci criteri fondamentali per valutare la credibilità di un progetto di compensazione: qualità del calcolo, trasparenza della rendicontazione, impatti ambientali secondari: tutto va messo sotto la lente. Ma il cammino è tutt’altro che semplice e il settore è ancora in piena evoluzione.

Criteri per riconoscere crediti di carbonio di qualità

La risposta parte da un principio semplice: prossimità e trasparenza. Un’azienda italiana che vuole compensare deve investire in progetti locali, tracciabili, certificati da enti accreditati sul territorio. Questo permette verifiche più rigorose e riduce il rischio di greenwashing, oggi sanzionabile anche a livello normativo europeo se i crediti non rispettano standard elevati.

La qualità parte dalla scienza

Non basta un algoritmo qualsiasi: servono basi solide, peer review, enti terzi riconosciuti. Nel nostro caso, per esempio, i calcoli sono basati su una prassi di riferimento, la UNI PDR 156/2024, sviluppata dal Politecnico di Milano in collaborazione con RINA. Il valore del progetto dipende anche dal capitale umano coinvolto: servono team competenti e preparati.

Criteri etici e ambientali non sono opzionali

Serve un ente con esperienza nel contesto locale, certificato e in grado di certificare secondo norme riconosciute come la ISO 14064-2. In Italia, esistono ancora certificazioni rilasciate da organismi non autorizzati: una distorsione che mina l’intero sistema.

Il prezzo come indicatore di sostenibilità dei crediti

Il prezzo è il termometro dell’integrità. Un credito da 10 euro non è sostenibile se vuole rispettare ogni passaggio virtuoso del grande lavoro che sta dietro ogni tonnellata di CO₂ rimossa: gestione sostenibile delle foreste, remunerazione degli agricoltori, monitoraggi. Il nostro modello stima un costo di 70 €/tonnellata, ma anche 30 o 50 potrebbero essere sostenibili. Sottovalutare il prezzo significa sottovalutare l’ambiente, perdere soldi e credibilità.

La nuova normativa europea e il futuro dei crediti

Con il regolamento CRCF, approvato a fine 2024, l’Europa ha fatto una scelta netta: i crediti legati alla semplice “avoidance” o “reduction”di emissioni non sono più ammessi. L’unica direzione utile è quella della rimozione diretta di CO₂ dall’atmosfera. Non basta più compensare “sulla carta”: servono risultati concreti, misurabili e duraturi.

Le soluzioni esistono già: riforestazione, carbon farming, biochar, tecnologie di cattura diretta come DACCS (Direct Air Capture) o BECCS (Bioenergy with Carbon Capture and Storage). Sono approcci esistenti, scalabili, misurabili che vanno oltre la teoria e producono effetti reali.

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Il tempo delle scelte facili è finito. Chi vuole contribuire seriamente alla lotta contro il cambiamento climatico deve puntare su progetti di rimozione certificati, trasparenti e ad alto impatto. La tecnologia c’è, le linee guida pure. Ora serve volontà. La strada è tracciata e chi sceglie di percorrerla non fa solo business: costruisce il futuro. Sta a noi percorrerla.



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