La distruzione delle garanzie del lavoro è soltanto un aspetto di un più generale morbo, quello socio-economico che colpisce da decenni il mercato del lavoro italiano. Ne è un aspetto tuttavia centrale, che punta alla suddivisione fra più persone di un monte lavoro e di un monte salari nazionale che cresce quasi nulla, e che sancisce l’accettazione di un declino di ricchezza, eguaglianza, qualità e innovazione.
L’Italia è agganciata, in un sistema UE che generalmente tende a questo stesso esito, al paese il cui modello di sviluppo più nettamente sospinge in questa direzione: la Germania. Si tratta di un’economia trainante, e le sue specializzazioni produttive si intrecciano in gran parte con le nostre. Ma tale centralità si abbina ad un macroscopico sottoinvestimento sociale, salariale, infrastrutturale ed anche (come dimostra la mastodontica crisi del settore automobilistico) innovativo-strategico. Ergo: la competitività tedesca di cui l’interazione con il sistema italiano è parte, non si è basata su una corrispondenza fra qualità sociale e produttiva, bensì su un mix fra competitività qualitativa e crescenti aree di sfruttamento.
Se si nasconde il sottoinvestimento sociale, salariale e infrastrutturale
È emerso da tempo infatti (D. Seikel, Activation into In-work poverty, qui il link) che il lavoro stabilmente povero è in Germania superiore alla media UE, con l’Italia che supera la Germania nel gruppo di economie che più lo utilizzano. Diciamolo subito: l’argomentazione della “globalizzazione che costringe a salari bassi” è quasi solo una scusa visti gli enormi surplus commerciali e di bilancio dei due paesi (e della UE in genere). Ciò significa che è semplicemente assurdo credere che una UE che paga meglio i propri lavoratori, e che quindi usa la propria capacità competitiva per diffondere benessere, importando un poco di più dall’esterno, nuoccia alla globalizzazione. È (sarebbe) con tutta evidenza esattamente il contrario.
Tutto quindi avviene in modo sempre più palesemente miope sul piano della sostenibilità democratico-sociale, oltre che del reale sviluppo produttivo, europeo e globale. La truffa del Diesel, in cui la Volkswagen anziché innovare in motori puliti o elettrici, si inventa un dispositivo che inganna i controlli anti-inquinamento Usa, è sintomatica della squilibrata mania di esportare ad ogni costo verso i mercati americani drogati a debito, un doping senza cui questa globalizzazione (la globalizzazione neoliberale, negativo esempio di interdipendenza) non sarebbe mai esistita. Da tempo i presidenti USA avevano dichiarato insostenibile questo motore globale. Peraltro, i 35 miliardi di multa che Volkswagen dovrà pagare per la sua truffa comporteranno una lentissima ripresa degli investimenti innovativi, forse a lungo addirittura nulla.
La selvaggia frammentazione delle garanzie del lavoro
In questo schema, ogni misura che pretende di produrre competitività mediante una flessibilità punitiva dei lavoratori, più regolata in Germania o più selvaggia da noi, conduce soltanto elevate/crescenti quote di lavoratori ad una alternanza fra disoccupazione, lavoro povero, lavoro parziale, discontinuo eccetera. Non c’è alcuna altra prospettiva finché si rimane in questo rigido quadro economico ed ideologico. Da noi per giunta con una maggiore quota di informalità e sfruttamento.
L’attuale situazione di frammentazione selvaggia delle garanzie, cui il referendum intende porre fine, può essere detta (discutibilmente) scelta competitiva solo nel senso di forzare il lavoro italiano ad accettare condizioni necessariamente in regresso, e prive di alcuna strategia. È vero, la quota di lavoro informale e sfruttamento non era stata eliminata nemmeno quando, per tutti gli anni Ottanta e fino al 1990, le garanzie salivano, i sistemi contrattuali e negoziali coprivano quasi tutti e, soprattutto, il sistema delle imprese pubbliche si occupava di investire in innovazione nel lungo periodo, attendendo poi un “profitto differito”.
Tutto questo è stato smontato e, come segnala bene la migliore ricerca (L. Tronti, La questione salariale italiana, SINAPPSI! Anno XIII n. 2/2023) vi si aggiunge anche la demolizione del sistema di contrattazione a due livelli: quello nazionale che garantiva la costanza del salario reale mediante inflazione programmata, obiettivo comune di Governo, sindacati e imprese ecc., e quello di secondo livello che “poteva accrescere il potere d’acquisto delle retribuzioni” puntando ad obbiettivi aziendali concordati.
Salari compressi in alto, non regolati in basso
Dal 2009, tuttavia, la determinazione degli obiettivi nazionali concordati non esiste più, i governi affidano tutto ad una determinazione tecnica “terza” su quella che si ritiene l’atteso aumento dei costi, depurato peraltro dall’impatto energetico (cioè il maggiore!). Da aggiungere che fin dal 1969 Rumor pretese di escludere lo Statuto dei lavoratori dalle aziende sotto i 15 dipendenti, in cui la negoziazione di secondo livello è infatti incerta o impossibile, e che vi è una massa enorme di imprese che esistono solo grazie alla loro ampia informalità (equivalente a circa 2,6 milioni di lavoratrici e lavoratori).
Ecco quindi la situazione: i salari sono costretti entro un tetto molto rigido massimale (per la insufficienza della contrattazione e programmazione nazionale di cui si è detto) mentre non esiste pavimento salariale. L’attrazione “gravitazionale” delle retribuzioni verso il basso è inevitabile. Anche perché come ricorda Tronti: vi è un esercito di “esclusi dalla contrattazione decentrata e, in taluni casi (contratti a chiamata, voucher ecc.) anche da quella nazionale”.
È essenziale partire dal contesto strutturale storico-economico per comprendere bene il senso della frammentazione giuslavorista che il referendum deve abolire. Essa non è mai stata un progetto di “mobilità virtuosa”, che cioè incentiva imprese e dipendenti a costruire e poi cogliere opportunità in ascesa. Bensì la sanzione e diffusione di situazioni lavorative soggette allo sfruttamento, tenuto conto anche del fatto che i contratti delle amministrazioni pubbliche, più tutelati, sono anche essi sotto media (5,6% di addetti pubblici, contro medie ben più elevate in tutti i paesi UE occidentali).
Il rapido aumento delle disuguaglianze
Una triste conferma proviene anche dall’evoluzione del nostro indice di Gini (cioè dell’indicatore dell’uguaglianza): esso è passato da 0,28 (1985) a 0,32 (2019) allo 0,34 attuale. Questo rapido e ingente aumento delle disuguaglianze, economicamente irrazionale e politicamente nocivo anche laddove si determina in un contesto di crescita maggiore, nel caso italiano di crescita nulla nel lungo periodo può unicamente essere frutto di regole e prassi volte ad assicurare livelli di profitto elevati in un contesto stagnante.
Del resto anche le nostre regioni più sviluppate, come Emilia-Romagna e Lombardia lo confermano: come PIL pro capite sono declinate rispettivamente dal 45esimo al dal 72esimo posto e dal 28esimo al 52esimo posto in Europa (G. Anzolin, S. Gasperin, 30+1 cifre che raccontano l’Italia, 2023, pp. 79-82). La quota di reddito complessivo che va ai salari, in questo quadro, viene suddivisa fra sempre più persone, il che è appunto uno dei fini ed effetti della precarizzazione in corso, cioè di quella flessibilità senza alcun progetto che obbliga ad alternare disoccupazione e precariato. Si tratta di un vero e proprio sistema: esso coinvolge troppe imprese italiane, se ne servono (nelle lavorazioni in conto terzi) anche quelle ufficialmente più “virtuose” (aspetto di cui si occupa specificamente il quesito 4).
I referendum, che raggiungano il quorum come è possibile oppure che sollevino il problema per milioni di persone, pongono limiti alla possibilità di licenziare troppo facilmente le lavoratrici e i lavoratori, sia quelli a tempo indeterminato (quesito 1) la cui posizione è però troppo indebolita dalle possibilità attuali di indennizzo, sia soprattutto gli altri (quesito 2 e 3), cioè la massa immensa di quelle assunzioni in cui come abbiamo visto non vi è di regola alcuna intenzione di stabilizzare la posizione nel tempo. Ciò vale anche per il lavoro senza cittadinanza che in quanto tale deve sottostare ad ogni ricatto (quesito 5).
Lottare per questi referendum può invertire la tendenza
Vincere o anche solo lottare per questi referendum apre ad una svolta per un percorso inverso: una produttività ottenuta esattamente grazie alla forza del salario e del lavoro, cioè dei singoli lavoratori e lavoratrici e, per effetto di ciò, dei loro sindacati maggiori. Sulla scorta di Sylos Labini, e altri grandi economisti (Sylos Labini P. (2004), Torniamo ai classici. Produttività del lavoro, progresso tecnico e sviluppo economico; Sylos Labini P. (1984), Le Forze dello Sviluppo e del Declino; Verdoorn P.J. (1949), Fattori che regolano lo sviluppo della produttività del lavoro; Kaldor N. (1966), Causes of the Slow Rate of Economic Growth in the United Kingdom).
Ma anche basandosi sulla esperienza storica di successo del socialismo democratico. Sono tre gli effetti positivi che il lavoro forte e ben rappresentato può ottenere. Il primo è l’effetto-Ricardo: quando l’aumento dei salari avvicina il loro costo a quello di investimenti in innovazione tecnica, che viene così intrapresa. Il secondo è l’effetto sul rapporto fra costo assoluto del lavoro e costo unitario del prodotto, che spinge le imprese ad organizzare la produttività per non perdere competitività.
Ovviamente la scelta delle imprese può anche essere quella di reagire licenziando manodopera (perdendo però quote di mercato) oppure aumentando i prezzi (ciò però le espone alla perdita di competitività). Ma il rimedio, per evitare questi rischi, è il ritorno alla contrattazione, con lo scopo di trovare il giusto ritmo degli aumenti salariali, cosa che oggi come abbiamo visto non avviene, da cui la crescita deludente della produttività, quella nulla sul lungo periodo della ricchezza nazionale, e quella negativa dei salari.
Se la domanda viene spinta dall’aumento dei salari
Ma ad evitare quei rischi c’è anche il terzo fattore di crescita virtuosa: l’effetto di allargamento dei mercati causato appunto dal potere d’acquisto dei salari. La globalizzazione neoliberale mostra che i suoi motori di crescita (mero abbattimento delle barriere commerciali e/o domanda soprattutto americana drogata dal debito) sono insostenibili e anche nocivi per la UE.
Viceversa, il terzo fattore di crescita che qui si propone è un’attesa di crescita per l’allargamento del mercato prodotto da una domanda sospinta da salari/welfare, a loro volta intrecciati virtuosamente alla produttività, come abbiamo appena visto. Questo tipo di attesa nel suo complesso sospinge all’innovazione e, assieme alla trattativa paritaria delle parti e delle classi coinvolte, limita invece le possibili reazioni alla pressione salariale che invece tendono al ridimensionamento produttivo/di personale.
A questo punto la mobilità del lavoro sarebbe più accettabile socialmente.
Verso una mobilità ascendente
Essa sarebbe infatti non più come oggi finalizzata e liberarsi a costo zero dagli addetti, o a tenerli sempre sotto ricatto, né ad abbattere il pavimento salariale, né ad acquisire all’esterno prodotti o servizi a costo ancora più tragicamente basso, da cui tante morti sul lavoro. Bensì servirebbe davvero a sospingere gli addetti verso nuove mansioni: una mobilità ascendente, l’unica dinamica sociale razionale nell’unico modello economico razionale. Viceversa la flessibilità del tipo che il referendum contribuisce ad eliminare non ha condotto a risultati apprezzabili (Diego Daruich, Sabrina Di Addario and Raffaele Saggio, The effects of partial employment protection reforms: evidence from Italy, Banca d’Italia-Eurosistema; Domenico Depalo and Salvatore Lattanzio, The increase in earnings inequality and volatility in Italy: the role and persistence of atypical contracts, Banca d’Italia-Eurosistema).
Chi ripete soltanto, con scarsa originalità o utilità dialettica: “se la produttività non cresce i salari non possono crescere” non fa che rappresentare una visuale di classe, ovvia nella storia, ma che un movimento di sinistra popolare deve combattere, nell’interesse di una democrazia che offre vere alternative. Oppure difende una “globalizzazione”, nonché un modello di integrazione europeo, che da lustri ha oltrepassato i limiti di sostenibilità e razionalità.
Chi poi crede che opporsi al referendum significhi essere sinistra moderna, ignora semplicemente la propria storia, nonché gli strumenti politico-intellettuali che la rendono determinante per una democrazia davvero inclusiva e funzionante.
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