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Il lato economico della sostenibilità! La ricerca di Isustainability e le idee di Nino Tronchetti Provera


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La sostenibilità industriale non è più un tema valoriale o normativo, ma una leva concreta di trasformazione per l’economia produttiva. Spinta anche dalla digitalizzazione: dall’IoT all’intelligenza artificiale, dalla blockchain al product-as-a-service, le tecnologie permettono oggi di ripensare cicli produttivi, ridurre consumi e tracciare impatti, superando la sostenibilità come adempimento e riportandola dentro la progettazione industriale. Ma quali sono i nodi strategici della transizione? Integrazione nei modelli di business, utilizzo dei dati, evoluzione normativa e impatti lungo le filiere.

«La sostenibilità è una questione di numeri, non di etica – spiega Nino Tronchetti Provera, fondatore di Ambienta Sgr l’80% dell’economia è già oggi interessata da trend ambientali, e chi non adatta il proprio modello produttivo è destinato a uscire dal mercato». Le sue parole si fondano su esperienze concrete in settori come caldaie elettriche industriali, biostimolanti agricoli, riciclo avanzato della plastica e coloranti naturali per l’industria alimentare. Tronchetti Provera ha tracciato i confini di una rivoluzione strutturale. Un tema condiviso anche da Alessandra Prampolini, Direttore Generale di Wwf Italia «Il problema non è l’esistenza delle regole, ma il modo in cui vengono raccontate e recepite, specie dalle Pmi». Prampolini sottolinea l’effettiva trasformazione in corso tra le imprese italiane, anche se ostacolata da un impianto normativo complesso e da una comunicazione istituzionale inadeguata.

Ma cosa ne pensano le aziende manifatturiere della sostenibilità? Può essere davvero una leva di business? A queste domande ha provato a dare una risposta la ricerca “La terza via della sostenibilità” 2025, condotta da iSustainability, la nuova società del gruppo Digital360. La survey, condotta su un campione di imprese di diversi settori – dal manifatturiero al food & beverage – mostra che quasi il 90% riconosce la sostenibilità come parte integrante del modello di business, mentre due aziende su tre sono consapevoli che la mancata integrazione ambientale porterà a una perdita di competitività nei prossimi cinque anni. Il gap principale riguarda la capacità operativa: pianificazione, gestione dell’impatto e coinvolgimento dei partner restano le aree più critiche, soprattutto tra le aziende di piccola e media dimensione. In sintesi, la sostenibilità non è più un ambito accessorio, ma una nuova architettura della competitività industriale. A condizione, però, che le imprese riescano a trasformare la consapevolezza in azione e a dotarsi degli strumenti – tecnologici, informativi e culturali – per governarne la complessità.

Nino Tronchetti Provera (Ambienta): la sostenibilità come rivoluzione economica. Modelli industriali, numeri e consapevolezza

Nino Tronchetti Provera, Founder e Managing Partner di Ambienta Sgr.

Per Nino Tronchetti Provera, Founder e Managing Partner di Ambienta Sgr, la sostenibilità non è un fatto etico né una leva di comunicazione: è la più grande rivoluzione nella storia dell’economia. «Non si tratta di opinioni. Si tratta di numeri», chiarisce fin da subito. «Nel 1968 il mondo contava 3,6 miliardi di persone e un’economia da 2 trilioni di dollari. Oggi siamo oltre 8 miliardi e l’economia ha superato i 100 trilioni. Questo salto, per dimensioni e velocità, è insostenibile su un pianeta con risorse finite e capacità di assorbimento ambientale limitate». Ambienta è da oltre 18 anni impegnata nell’investimento in tecnologie e imprese che operano lungo i principali trend ambientali, con oltre 80 acquisizioni realizzate solo nel comparto private equity. Secondo Tronchetti Provera, la rivoluzione ambientale attraversa ormai l’intero sistema economico. «Quando abbiamo iniziato, i trend ambientali toccavano forse il 10-12% dell’economia. Oggi incidono sull’80%. E tra cinque anni, qualsiasi imprenditore dovrà porsi alcune domande fondamentali: qual è il problema ambientale del mio settore? Qual è la risorsa naturale chiave? Qual è il mio livello di esposizione?». Tutti i comparti sono interessati, spesso in modo asimmetrico. «Nel tessile, per esempio, si producono ogni anno 160 milioni di tonnellate di beni e 90 milioni di tonnellate di rifiuti. Un terzo delle microplastiche presenti negli oceani proviene da questo settore, che incide anche per il 25% sull’inquinamento idrico globale. Ha senso un’industria con questo tipo di rapporto input/scarti?». Eppure, la riconversione è ancora lenta. «Oggi si parla molto di green fashion, ma poco cambia nella sostanza. E intanto il tessile ha un impatto ambientale maggiore del trasporto aereo e marittimo messi insieme».

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Lo stesso vale per settori ancora percepiti come marginali. «Se fai packaging e non stai già ripensando la plastica, sei fuori mercato». Secondo il fondatore di Ambienta, l’evoluzione industriale guidata dai trend ambientali è in larga parte autonoma rispetto alla regolamentazione o al dibattito pubblico. Centrale, in questo contesto, è la qualità dell’informazione. «Abbiamo creato 15 anni fa la Fondazione Ambienta, che ha sviluppato il più grande progetto privato di educazione ambientale nelle scuole elementari italiane. Abbiamo raggiunto circa un milione di studenti dagli 8 ai 23 anni. L’educazione è fondamentale, perché metà di quello che si dice sui temi ambientali è semplicemente sbagliato. Non per malafede, ma per disinformazione». Il problema, aggiunge, è che molte soluzioni apparentemente sostenibili si rivelano dannose. «Penso al biofuel da olio di palma, che ha contribuito alla distruzione della terza foresta pluviale del mondo, o all’etanolo da mais negli Usa». In definitiva, la competitività non dipende solo da fattori microeconomici, ma anche dalla capacità di leggere correttamente il contesto. «Serve consapevolezza, capacità di analisi e visione a lungo termine. La rivoluzione ambientale non è una tendenza settoriale: è la nuova struttura dell’economia. E non c’è comparto che ne sia escluso».

Le imprese hanno ormai posto la sostenibilità fra le priorità strategiche. È considerata fattore dicrescita per i benefici che comporta in termini sia di relazione con i propri clienti e gli stakeholdersia di efficienza operativa e risparmio sui costi, non solo un principio di conformità normativa. Èfondamentale, per questo, aiutare le aziende nella transizione da compiere e ancora di più acostruire la propria catena del valore in modo che sia sostenibile nel breve e nel lungo periodo. Fonte Isustainability.

Dati, intelligenza artificiale e blockchain al servizio della sostenibilità industriale

La sostenibilità digitale rappresenta oggi un ambito chiave nella transizione ecologica delle imprese. Il digitale non è solo una fonte di consumo energetico – oggi responsabile del 3,7% delle emissioni globali, più dell’intero settore dell’aviazione civile – ma soprattutto uno strumento abilitante per strategie ambientali più efficaci. Al tema dell’impatto ambientale il digitale può contribuire efficientando i modelli produttivi e di business. Come? Con due macrofunzioni essenziali: raccolta e analisi dei dati, e connessione tra attori della filiera.

 

Raccolta e analisi: le basi per la precision economy

La prima funzione consiste nella capacità di acquisire e interpretare dati tramite tecnologie come Internet of Things (IoT), analytics e intelligenza artificiale. Questi strumenti abilitano politiche di precisione, come il precision farming, che riducono il consumo di risorse come acqua o energia. Un esempio concreto è l’uso della Generative AI da parte di General Motors: Nella progettazione di componenti come la staffa dei sedili, l’AI genera migliaia di combinazioni progettuali che un tecnico umano non potrebbe esplorare. Il risultato? Componenti più leggeri, che richiedono meno materiale e migliorano le prestazioni operative. Altro esempio è il modello Product as a Service adottato da Michelin: tramite sensori e IoT integrati nei pneumatici, l’azienda monitora in tempo reale lo stato d’uso e anticipa la sostituzione prima del limite critico. Questo permette di rigenerare il pneumatico usando metà delle materie prime, garantendo il 90% delle prestazioni originarie. A ciò si aggiunge un miglioramento in termini di sicurezza. Michelin ha poi capitalizzato i dati raccolti, creando un servizio a valore aggiunto per la guida sostenibile, generando così anche nuove fonti di ricavo.

Il 93% delle aziende intervistate riconosce che esiste una connessione forte o comunque significativa tra impatto e
sostenibilità. Al contrario, solo il 7% delle aziende ha espresso una percezione più debole del collegamento, indicando risposte come “Mediamente” o “Poco”. Fonte Isustainability.

Connessione e tracciabilità: dai marketplace alla blockchain

La seconda funzione è quella di connettere attori complessi in catene del valore articolate. Oltre ai marketplace per prodotti sostenibili, entrano in gioco modelli più sofisticati come la blockchain, utile a tracciare e orchestrare transazioni tra più attori in filiere complesse. Ad esempio Mitsubishi Industrial usa la blockchain per certificare lo scambio tra chi cattura CO₂ e chi la riutilizza in ambito industriale. Un’altra applicazione significativa è nel riciclo della plastica. La startup canadese Plastic Bank ha sviluppato un sistema basato su blockchain per tracciare l’intera filiera: dalla plastica raccolta negli oceani fino al suo riutilizzo da parte di aziende come Henkel, con certificazione dell’origine e trasparenza del processo.

 

Dal prodotto al mercato: ripensare modelli di business

Le tecnologie digitali rappresentano oggi una leva concreta per ripensare la produttività delle risorse, ma anche per ridefinire modelli e mercati. Si va dall’ottimizzazione di singoli processi (es. design di componenti) alla trasformazione dei modelli commerciali (es. leasing di pneumatici), fino alla creazione di mercati del tutto nuovi (es. tracciabilità dei rifiuti e crediti di carbonio). La digitalizzazione, se integrata in modo strategico, non è solo un supporto alla sostenibilità. È un moltiplicatore di efficienza, trasparenza e innovazione.

L’89% delle aziende intervistate riconosce che esiste una connessione forte o comunque significativa tra modello di business e strategie di sostenibilità, sommando le risposte che indicano un legame percepito come “Molto” o “Abbastanza”. Fonte Isustainability.

Wwf: «Sostenibilità e imprese, la trasformazione è reale ma frenata da burocrazia e narrazione debole»

Alessandra Prampolini, Direttore Generale di Wwf Italia.

Per Alessandra Prampolini, Direttore Generale di Wwf Italia, i segnali di cambiamento da parte delle imprese italiane ci sono, anche in settori apparentemente tradizionali. «Quando un’azienda rivede il proprio utilizzo dell’acqua – una risorsa così centrale e delicata – e lo ottimizza, non si può dire che il modello di business sia rimasto invariato. Anche se la struttura resta simile, si tratta comunque di una trasformazione culturale, spinta dalle necessità ma non per questo meno significativa». Dal punto di vista generale, Prampolini riconosce che il mondo imprenditoriale italiano ha mostrato un buon grado di consapevolezza, anche se con differenze marcate tra grandi gruppi e Pmi. «Le piccole e medie imprese riconoscono chiaramente il valore della sostenibilità, ma faticano ad affrontare il peso della rendicontazione e degli adeguamenti normativi. Le difficoltà aumentano man mano che ci si allontana dalle strutture più solide e dotate di risorse interne dedicate».

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Secondo Prampolini, negli ultimi anni si è verificata una sovrapposizione di due dinamiche opposte. «Da un lato, la spinta positiva del Green Deal e di una parte significativa del mondo produttivo che ha creduto realmente nella transizione. Dall’altro, l’emergere di una normativa percepita come eccessivamente pesante, e soprattutto comunicata male. La regolazione europea in sé non è sbagliata, ma è stata presentata in modo tecnocratico, senza tenere conto delle implicazioni sociali e culturali». Il vero limite, sottolinea, non è stato tanto nella qualità delle policy, quanto nella narrazione. «In un contesto dominato da messaggi brevi e semplificati, la complessità del Green Deal è stata facilmente attaccata da chi propone risposte più immediate, anche se spesso sbagliate. Si è sottovalutata l’importanza della comunicazione, della formazione e dell’accompagnamento culturale alla transizione». Il risultato è un clima di incertezza e di reazione difensiva, che ostacola il completamento dei percorsi già avviati. «Il cambiamento richiede strumenti e visione, ma anche una narrazione efficace e una governance coerente. Oggi, su questo fronte, si sconta ancora un ritardo strutturale».

La terza via della sostenibilità” 2025: la ricerca di iSustainability

Al centro della ricerca sulla “Terza Via” un sondaggio condotto su un campione di oltre 100 aziende, rappresentativo di imprese italiane di piccole, medie e grandi dimensioni in 10 settori di interesse dell’economia del nostro Paese, dal manifatturiero ai servizi, dalla tecnologia alle utility, per citarne alcuni, oltre a eccellenze tipiche del Made in Italy quali il food & beverage e i beni di lusso. «In un contesto globale segnato da un’incertezza legata da un lato alla ripresa post-pandemia,dall’altro alla situazione geopolitica e alla conseguente instabilità internazionale, si aggiungonooggi elementi quali il ritorno di istanze di negazionismo ambientale a livello internazionale e unacrescente incertezza sul quadro normativo europeo legata al pacchetto Omnibus per il reporting di sostenibilità – afferma Riccardo Giovannini, co-fondatore e Amministratore Delegato di iSustainability – In questo scenario si inserisce il lavoro fatto daiSustainability, che intende analizzare se esista, come suggerisce il titolo della nostra ricerca, una«terza via» della sostenibilità che, ponendosi fra i due estremi, possa consistere nell’evoluzione deimodelli di business in modo che le aziende possano attuare una trasformazione sostenibile delleproprie attività e accrescere conseguentemente la loro competitività». Articolato su 20 domande che hanno toccato temi quali l’integrazione della sostenibilità nelle strategie di business, gli aspetti normativi e di compliance, il ruolo della digitalizzazione nel sostenere le pratiche di sostenibilità, i necessari cambiamenti nella cultura aziendale, la gestione della filiera e, non ultimi, gli aspetti geopolitici e di sostenibilità economica, il sondaggio ha mostrato una chiara consapevolezza da parte delle aziende italiane dell’importanza delle politiche di sostenibilità come fattore di competitività sul mercato. Ha, inoltre, evidenziato una certa discrepanza tra questa consapevolezza e la capacità di agire con efficacia sulle diverse aree di impatto ambientale.

Il 53% delle aziende ha riconosciuto un utilizzo equilibrato tra le due funzioni. Il 20% vede il reporting soprattutto come strumento strategico, mentre il 19% lo considera ancora prevalentemente. Fonte Isustainability.

Nel dettaglio, la quasi totalità delle aziende (94%) riconosce una connessione tra impatto ambientale e sostenibilità, evidenziando comunque un gap di capacità di azione. In ogni caso, l’89% delle aziende conferma che vi è una connessione importante tra modello di business e strategie di sostenibilità, rafforzando l’ipotesi di una terza via tra l’inazione e l’eccesso normativo, centrata sull’integrazione strategica della sostenibilità. Rimane del lavoro da fare sugli aspetti ambientali della digitalizzazione, con un 54% del campione che si dichiara poco o per nulla consapevole degli impatti ambientali delle piattaforme digitali, facendo emergere l’urgenza di colmare questo divario. Di contro, una netta maggioranza (66%) è consapevole del fatto che la mancata integrazione della sostenibilità nei propri modelli business comporterà un calo di competitività nei prossimi cinque anni. A dimostrazione di ciò, l’86% delle aziende riconosce che un cambiamento nella propria cultura è un fattore chiave per l’integrazione della sostenibilità nel business. Per quanto riguarda le prospettive future, la ricerca evidenzia diversi spazi di miglioramento: il 45% delle aziende, infatti, indica la necessità di coinvolgere maggiormente partner e stakeholder in pratiche più sostenibili. Seguono l’esigenza di allineare il modello di business (24%) e quella di lavorare più attivamente sull’impatto (16%). Solo il 15% ritiene di stare già facendo abbastanza. Emerge comunque una buona lucidità sulle priorità di azione identificate dalle aziende italiane. In particolare, il settore Food & Beverage punta sul ripensamento del modello di business, il settore Luxury sull’impatto ambientale e sociale mentre le Pmi guardano alla necessità di attivare i propri partner e stakeholder in ottica sostenibile in modo da creare una massa critica di attori in grado di lavorare in maniera concertata sulla mitigazione dell’impatto ambientale.



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