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Cosa c’è davvero in gioco a Gaza per Israele  


Negli ultimi diciotto mesi, il ritmo e la natura degli eventi legati alla conflittualità diffusa in Medio Oriente hanno fatto sì che l’attenzione generale si sia focalizzata sull’immediatezza di quanto sta accadendo a discapito di un approfondimento di quelli che potrebbero essere gli effetti a lungo termine di tale situazione. Un’analisi che vada oltre i titoli dei giornali è invece essenziale per mostrare ai diversi attori coinvolti nei conflitti in corso che tipo di futuro potrebbero contribuire a plasmare. Fino a quando non scoppierà una guerra tra Israele, Stati Uniti e Iran – se mai questo dovesse accadere – gli eventi di Gaza rappresentano l’epicentro delle attuali dinamiche conflittuali in Medio Oriente. Quanto sta accadendo sta infatti ridefinendo il ruolo di Israele e degli Stati Uniti nel mondo e può rimodellare gli equilibri geopolitici dell’area, nel bene o nel male. Si esamineranno qui i possibili effetti a lungo termine della situazione a Gaza a livello operativo, strategico e globale. 

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Effetti operativi a lungo termine: verso un’affermazione della legge del più forte 

È ormai evidente che il governo israeliano è impegnato in una campagna di distruzione e trasferimento forzato della popolazione che potrebbe culminare nella pulizia etnica dei palestinesi di Gaza e nel suo parziale o totale ripopolamento da parte di ebrei israeliani. Israele utilizza tattiche che vanno dalla fame, alla forza militare massiccia contro i civili, sino a una retorica disumanizzante e a metodi da “terra bruciata” per raggiungere questo obiettivo. Nei confronti di tutto ciò, l’assenza di un dibattito politico significativo, di diserzioni e di proteste in Israele suggerisce il fatto che l’establishment politico, le forze armate e gran parte della popolazione tollerano, sostengono o mettono in atto questi metodi. Va infatti ricordato che le proteste contro la gestione degli ostaggi da parte del governo israeliano sono in gran parte scollegate dalla sofferenza dei palestinesi a Gaza. Il criterio decisivo per il successo della campagna israeliana di trasferimento forzato della popolazione gazawi non è tanto il sostegno americano a un piano distopico come quello della “Riviera di Gaza”, ma fino a che punto altri paesi siano disposti a diventare complici delle pratiche israeliane accettando rifugiati palestinesi, e fino a dove Israele abbia intenzione di spingersi per costringere i palestinesi ad andarsene. La recente violazione della tregua con Hamas e il massacro che ne è seguito indicano che il governo israeliano ha in programma di andare oltre quanto molti avevano sperato o ipotizzato. Nel frattempo, gran parte della comunità internazionale o sostiene Israele o resta a guardare, protestando debolmente contro il massacro di innumerevoli innocenti, compresa la recente esecuzione a bruciapelo di alcuni paramedici della Mezzaluna Rossa. 

Uno degli effetti operativi a lungo termine più probabili della distruzione di Gaza compiuta con tale impunità è quindi il rafforzamento di narrazioni incentrate sull’identità, sul potere della maggioranza e sulla legge del più forte, propagandate da paesi come Russia, Cina, India e Stati Uniti, ma anche da Ungheria e Turchia. Un’altra conseguenza sul lungo periodo è che la distruzione e la pulizia etnica di Gaza – se portate a termine – rappresenteranno una tappa verso il completamento del progetto di costruzione dello Stato di Israele, dato che, è importante ricordare, è stato Israele a creare la Striscia di Gaza nella sua forma attuale. Per questo motivo, la resistenza di Gaza, secondo le parole di Mahmoud Darwish, “è un tesoro morale ed etico inestimabile per tutti gli arabi”. Presto potrebbe non esserlo più. Infine, dato che ci si sarebbe potuti aspettare maggiori sforzi per fermare Israele da parte di Egitto, Giordania e degli Stati arabi del Golfo Persico – per motivazioni legate alla solidarietà con i palestinesi in quanto fratelli arabi, musulmani oltre che esseri umani – la legittimità stessa di questi governi arabi potrebbe risentirne, mentre nella regione potrebbero aumentare radicalizzazione ed estremismo. 

Effetti strategici a lungo termine: Israele domina la regione, ma si indebolisce internamente 

Gaza potrebbe diventare un modello per avviare la pulizia etnica della Cisgiordania, che è la parte più importante della Palestina in quanto più popolosa e più autonoma, e forse anche di Gerusalemme Est. Dopo decenni di violenza da parte dei coloni e annessioni sotto la protezione delle forze di sicurezza israeliane, le sanzioni dell’Unione europea e del Regno Unito contro alcuni coloni e le loro associazioni rappresentano finora l’unica opposizione al “piano decisivo” di Bezalel Smotrich del 2017. Nel frattempo, il governo israeliano continua ad aumentare il numero di insediamenti e coloni, riducendo gli abitanti palestinesi della Cisgiordania a una miseria e una sottomissione ancora maggiori. Si può persino scorgere un’evoluzione del progetto del ministro Smotrich nella recente presenza israeliana nel sud del Libano e nel sud-ovest della Siria: ad esempio, in Siria, Israele ha creato una piattaforma per un coinvolgimento militare permanente che gli consentirà di mantenere il paese debole e diviso. Il presunto ruolo israeliano da protettore dei drusi siriani riprende in sostanza la strategia che era di Bashar al Assad di porsi come difensore di una minoranza. I motivi addotti da Israele per giustificare la sua presenza in Siria sono tanto pretestuosi quanto il diritto all’autodifesa e quanto l’equiparazione dei civili palestinesi ai militanti di Hamas, tutti elementi utilizzati per giustificare la carneficina a Gaza. Il movimento islamista siriano Hayat Tahrir Al-Sham (HTS) non ha rappresentato né rappresenta una minaccia per Israele, e i drusi non sono, almeno per ora, una minoranza a rischio da parte del nuovo governo siriano. Inoltre, i drusi stanno rinegoziando il rapporto con Damasco dopo aver in gran parte accettato il dominio di Assad prima e durante la guerra civile, e in definitiva, sono riusciti a sopravvivere relativamente bene sia sotto Assad che sotto HTS, anche durante gli scontri settari dell’inizio di maggio 2025. 

Di tutto ciò un possibile effetto strategico a lungo termine potrebbe essere lo sviluppo da parte del governo israeliano di una politica dedicata e multidimensionale volta a mantenere Libano e Siria come degli Stati deboli, conservando al contempo, grazie alla pressione americana, i trattati di pace con Giordania ed Egitto, ed eliminando qualsiasi prospettiva di uno Stato palestinese. Questo significa che Israele si circonderebbe di zone di conflitto a bassa intensità in Libano, Siria, forse nella Striscia di Gaza e probabilmente anche in Giordania, vista l’attività dei coloni in Cisgiordania. 

Una conseguenza strategica correlata a tutto ciò potrebbe essere l’aumento dell’incertezza sulla sostenibilità dell’espansione israeliana, che dipende fortemente dal permanente sostegno degli Stati Uniti. Tuttavia, la traiettoria americana attuale – delineata dall’idea della “Fortezza America” del presidente Trump che prevede un paese più ricco e più isolato, capace di esercitare pressioni o colpire a distanza per perseguire i propri interessi – non è chiaro se sia compatibile con un sostegno a lungo termine a Israele. Per esempio, l’inizio dei negoziati nucleari tra Stati Uniti e Iran indica già una divergenza di priorità e obiettivi tra Washington e Gerusalemme Ovest; e se l’appoggio americano a Israele sarà mantenuto nel lungo periodo, non è certo che tale partnership potrà resistere alle forze contrarie che essa stessa genererà. Ed è qui che risiede la rilevanza strategica per Israele di una guerra con l’Iran, che avrebbe il potenziale di eliminare l’attore più determinato a contrastarne i progetti regionali nel breve periodo. Anche la Turchia potrebbe rappresentare una sfida per Israele negli anni a venire, anche se attualmente è frenata dai suoi rapporti con gli Stati Uniti e dalla sua appartenenza alla NATO. 

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Infine, un ultimo effetto strategico degli eventi di Gaza è l’aumento delle frizioni e dell’autoritarismo all’interno di Israele. Sebbene il primo ministro Netanyahu sia, in un certo senso, il prodotto del progetto di uno state-building israeliano fondato sulla violenza, sull’espulsione e sull’annessione, è anche colui che ha portato il paese verso un conflitto interno, bloccando l’accordo sugli ostaggi, favorendo l’ascesa dei coloni più fanatici, rifiutandosi di rinegoziare il ruolo della crescente comunità ultra-ortodossa all’interno del contratto sociale israeliano, e smantellando i pochi meccanismi di equilibrio istituzionale: tutto ciò soprattutto per restare al potere ed evitare di assumersi responsabilità per il 7 ottobre 2023. È possibile quindi che questi sviluppi portino, nel medio termine, allo sfaldamento della società israeliana così come la conosciamo e questo a causa di un mix di arroganza, populismo sfrenato e fanatismo. 

Effetti globali a lungo termine: un modello per la gestione di popolazioni scomode 

A livello globale, l’assalto di Israele a Gaza dimostra sia il suo disprezzo nei confronti del diritto internazionale – come evidenziato dal rifiuto di rispettare i pareri consultivi, le misure temporanee  della Corte internazionale di giustizia e i mandati d’arresto della Corte penale internazionale – sia nei confronti delle Nazioni Unite, come dimostrato dall’uccisione del personale ONU, dalla messa al bando dell’UNRWA e dal divieto d’ingresso al Segretario Generale, Antonio Guterres. Il governo israeliano ha infatti espressamente dichiarato di voler ritagliarsi un posto nel mondo in linea con i propri progetti, e di non voler far parte della società globale basata su norme condivise. Pertanto dal punto di vista degli effetti globali a lungo termine, ciò potrebbe rendere l’offensiva di Israele a Gaza un modello per come gli Stati possano trattare con impunità popolazioni che hanno prima privato dei loro diritti, poi represso e infine disumanizzato. Ad esempio, tale approccio israeliano potrebbe trovare emuli in paesi come Etiopia, Turchia, Russia o India, ovvero in quelle regioni dove le risorse sono scarse o lo diventeranno a causa degli effetti negativi del cambiamento climatico, oppure laddove la competizione tra blocchi geopolitici crescerà.  

Sebbene il futuro sia fondamentalmente imprevedibile, esso in definitiva “dipende da ciò che si fa oggi”. Quindi riflettere su ciò che potrebbe accadere passa dall’attenta considerazione di ciò che viene detto e fatto ora, nell’attualità. In poche parole, il messaggio è già scritto sul muro



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