Vuoi acquistare in asta

Consulenza gratuita

 

Il caporalato dietro le borse di Valentino: possiamo scegliere di non vedere o votare i referendum


Che cosa ci dice la storia di Guoyu, operaio di 53 anni nato in Cina, che lavorava in una delle sette aziende in subappalto che a Opera, alle porte di Milano, producevano le borse per la Valentino Bags Lab, società legata alla casa madre Valentino SpA? La vicenda, raccontata su Repubblica del 16 maggio, è purtroppo tipica del settore della moda, dei grandi marchi del lusso. La casa madre affida alla Valentino Bags Lab, una delle 34 Corporate Companies del gruppo industriale Valentino SpA, la produzione di borse di alta moda, che saranno vendute nei negozi ad un costo tra i 1.900 e i 2.300 euro. Ma la Valentino Bags Lab non ha capacità produttiva e, quindi, esternalizza completamente la produzione ad una serie di piccole imprese che impiegano mano d’opera pagata in nero, irregolare e clandestina.

Opportunità uniche acquisto in asta

 ribassi fino al 70%

 

Questo meccanismo permette di abbattere drasticamente i costi di produzione che oscillano fra i 35 e i 70 euro. La catena di sub-appalti consente alla casa madre di vendere le borse di marca al consumatore finale a circa 60 volte il costo di produzione. La società Valentino Bags Lab è stata posta in amministrazione giudiziaria e indagata per omesso controllo sullo sfruttamento del lavoro (caporalato) da parte delle ditte cinesi cui la lavorazione era stata subappaltata.

In questa catena, in verità non troppo lunga perché si svolge sotto i nostri occhi, nel nostro cortile di casa non in una qualche remota provincia della Cina interna, ci sono diversi attori. Ai suoi estremi ci sono da un lato i perdenti assoluti (Guoyu e i suoi colleghi) che ora non hanno più neppure il lavoro pericoloso e da fame con cui tentavano di sopravvivere. Dall’altro lato i vincenti assoluti, la casa madre che incassa molto senza produrre e senza rischiare.

L’ispezione dei carabinieri in un laboratorio.

Questo spiega perché a questo estremo vincente della catena di valore si guarda ai referendum sul lavoro dell’8 e 9 giugno prossimi come al male assoluto. Per questo hanno impegnato i loro referenti politici, oggi al governo del paese, per far fallire i referendum, invitando i cittadini a disertare le urne.

Poi ci siamo noi, i consumatori, che pure da qualche parte e in qualche modo incrociamo, magari senza accorgercene, catene di fornitura di questo tipo. Quando acquistiamo questi beni sopravvalutati enormemente nel loro valore di mercato o anche quando riconosciamo o desideriamo questi beni come veri e propri status symbol. Sicuramente svolgiamo un ruolo rispetto a questo sistema quando pretendiamo di non vederlo, volgendo il nostro sguardo altrove. Oppure quando ci facciamo qualche domanda o quando andremo a votare per i referendum sul lavoro che, per l’appunto, trattano anche di questo sistema.

Abbiamo, dunque, una responsabilità. Che grava su quella borsa e sulla nostra impronta in questa Terra. Avvolta completamente dall’unica vera ideologia globale, dopo che quelle politiche del Novecento si sono consumate. Nell’apparente caos che oggi ci disorienta ma che in realtà accomuna i protagonisti del nuovo disordine mondiale (da Trump a Putin, da Modi a Xi Jinping, da Musk a Bezos, da Zuckerberg a Arnault… notate bene, tutti uomini…), è una ideologia che ci dice, ci coopta, ci convince che tu vali soltanto in misura direttamente proporzionale a quanto possiedi. Naturalmente a scapito di quanti non possiedono niente altro che la loro forza-lavoro, costretti a venderla al prezzo più basso per produrre merci per ricchi e per arricchire sempre di più i pochi già ricchi.

Assistenza e consulenza

per acquisto in asta

 

“Ognuno è responsabile di tutto”

Non si tratta tanto di considerazioni morali. Certo l’attuale livello delle diseguaglianze (economiche, di diritti, di possibilità) implica una problematica di carattere etico-morale. Ma qui stiamo parlando di giustizia, di equità, di modello di economia e di società. Di responsabilità, anche personale, di ciascuno di noi, persone consumatrici, risparmiatrici, cittadine e cittadini, quando siamo silenziosi ingranaggi di un enorme meccanismo globale che genera disuguaglianze, povertà, umiliazioni, dolore.

Le nostre decisioni quotidiane, anche quelle apparentemente più neutre e innocue, sono condizionate da questa ideologia. E proprio per questo abbiamo una responsabilità. Che possiamo agire aderendo convinti a questa ideologia, ignorandola, oppure compiendo scelte diverse. Viviamo in tempi in cui le grandi utopie di uguaglianza, libertà, sorellanza e fratellanza sembrano aver perso quella forza che nei secoli che abbiamo alle spalle hanno pure generato grandi movimenti di popoli, rivoluzioni, progetti alternativi globali. L’ultimo, forse, è stato quello per una diversa globalizzazione, quella dei diritti e della giustizia, che ha infiammato le piazze di tutto il mondo, da Seattle (1999) a Firenze (2002) e che nei Social Forum aveva osato proporre un diverso e nuovo ordine all’uscita di quello bipolare del Novecento.

Ma resta una grande eredità di quella stagione che vive nella consapevolezza diffusa (ben più di quanto immaginiamo o di quanto venga narrato) che ciascuno di noi, avendo una responsabilità in questo gigantesco ingranaggio, ha anche un potere che può decidere di agire o meno nelle proprie comunità di riferimento. È il tema della responsabilità personale che così tanta parte ha avuto nel pensiero e nell’opera di don Lorenzo Milani. “Ognuno deve sentirsi responsabile di tutto” diceva ai suoi ragazzi a Barbiana. “Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra disuguali”, ripeteva per spiegare il suo I care: prendersi cura di ogni parte di umanità sofferente, vuol dire anche metterci in crisi, accettare i dilemmi etici che questo mondo iniquo impone a ciascuno di noi, porre domande e non accettare risposte semplici, consolatorie o assolutorie.

Porre domande. E’, ad esempio, quello che fanno gli azionisti critici quando, titolari di poche azioni, assumono i diritti e i doveri di ogni altro azionista di grandi imprese. Cioè di proprietari, in quota parte, di aziende che hanno successo non solo quando staccano a fine anno dividendi abbondanti, ma soprattutto quando producono beni utili per una società più equa e per un pianeta le cui risorse ambientali limitate non vengano consumate a discapito delle future generazioni. E quando offrono lavoro di qualità, sicuro e dignitosamente retribuito per molte persone.

Il settore della moda è uno di quelli a cui gli azionisti critici, come Fondazione Finanza Etica o gli attivisti della Campagna Abiti Puliti, prestano particolare attenzione, proprio perché si basano su catene di valore e di fornitura spesso lunghe e comunque inique, all’interno delle quali i lavoratori della filiera si trovano molto lontani dalla società titolare del marchio, sottratti a procedure di controllo delle condizioni di sicurezza, senza garanzie sindacali e giudiziarie, senza capacità o possibilità di far valere i propri fondamentali diritti umani pure iscritti nelle Carte dei diritti che hanno ridisegnato il perimetro della comunità mondiale dopo il disastro morale della Seconda Guerra Mondiale, ma anche nei codici del diritto internazionale e dei suoi strumenti (come la Corte Penale Internazionale, di cui anche le potenze democratiche oggi si fanno beffa o strame). Un sistema produttivo che ha come finalità quella di valorizzare fino all’estremo il marchio, massimizzando gli utili, investendo nella promozione/comunicazione dei prodotti e riducendo al massimo i costi di produzione.

Per anni noi azionisti critici abbiamo cercato di convincere H&M, società del fast fashion quotata con sede in Svezia, di assegnare un po’ meno dividendi agli azionisti e costituire un fondo per retribuire più equamente e garantire maggiore sicurezza per i lavoratori delle società di subappalto che, nel sud-est asiatico soprattutto, lavorano per la società svedese e, in ultima analisi, per produrre i nostri abiti. Una scelta che avrebbe garantito migliore reputazione ad una società nota in tutto il mondo e maggiore stabilità economica, con minore esposizione a rischi di incidenti e contenziosi costosi. Abbiamo trovato poco ascolto, con la motivazione che essere “generosi” con quei lavoratori li avrebbe messi fuori mercato, dato che non tutti i grandi marchi per cui essi lavorano sarebbero stati altrettanto “generosi”. Strano, in questo caso il libero mercato, la competizione fra le aziende non vale, o almeno vale al contrario; una sorta di race to the bottom, una corsa al ribasso dove sono i lavoratori soltanto a rimetterci.

Il crollo del Rana-Plaza nel 2013

Dall’altro lato le risposte sulla sicurezza si rifacevano ad analisi di due diligence (dovuta diligenza), il cui obiettivo sarebbe raccogliere e analizzare tutte le informazioni rilevanti sull’azienda target per identificare eventuali rischi e porvi preventivamente rimedio. Analisi svolte da aziende, spesso europee (anche italiane) pagate dal committente, non certo terze. Ma anche l’incidente del Rana Plaza, fabbrica del Bangladesh nel cui crollo nel 2013 morirono centinaia di persone chiuse dentro a lavorare in condizioni di semi-schiavitù, avveniva dopo analisi rassicuranti di tal guisa. A seguito di quell’incidente l’Europa si è dotata di una normativa più stringente sulla due diligence. Che non ha fatto in tempo ad essere applicata che già la stessa Unione Europea si accinge a modificarla per “semplificarla”, cioè depotenziarla. Infatti, il cd. Pacchetto Omnibus della Commissione Europea, attualmente in discussione e in procinto di essere approvato, introduce modifiche alla Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD) per “semplificare” gli obblighi di due diligence in materia di sostenibilità, riducendo gli oneri per le aziende, in particolare per le PMI. La ratio è chiara: la vita umana vale meno dei costi per la sicurezza delle persone e per l’ambiente in capo alle aziende.

La necessità di farsi delle domande

Gli azionisti critici e gli attivisti si assumono le loro responsabilità. Nessuno di noi, credo, pensa che dalla propria azione, piccola ma costante, caparbia e puntuale, argomentata e radicale, possa ad un certo punto precipitare una rivoluzione globale che rimetta questo mondo sulla traiettoria della giustizia e dell’equità. Non ci illudiamo che arrivi un evento catartico che tutto cambi per il meglio, improvvisamente. Ma ciascuno di noi pensa che se qualcosa può essere fatto, allora deve anche essere fatto. Pensiamo che dobbiamo essere consapevoli del potere che ciascuno ha e che è nostra responsabilità agirlo. Che si possono produrre cambiamenti, magari circoscritti, ma che facciano un po’ di giustizia, migliorino le vite delle persone più deboli e sfruttate.

Cessione crediti fiscali

procedure celeri

 

Tutto parte da delle domande, dei dilemmi: che effetto hanno i miei soldi che uso per acquistare una borsa di marca? Come vengono utilizzati i miei soldi dalla banca dove li deposito? Cosa finanziano? Armi o pannelli fotovoltaici, per esempio? Chi sono e come vivono coloro che producono i beni che io acquisto e consumo?
Porre e porsi domande come queste serve a rendere visibili i meccanismi intrinseci di questo sistema e far riflettere sulla catena di responsabilità, che in qualche modo tocca anche noi. E chiama in causa il nostro potere: quello di compiere scelte responsabili.

Sentirsi responsabili di tutto non è un modo per colpevolizzarsi o autoflagellarsi moralmente. Per don Milani e per ciascuno di noi è l’essenza della cittadinanza. Per la quale non basta un foglio che ci dichiari italiani o tedeschi o ghanesi. Anzi, talvolta si possono avere quei documenti ed essere avulsi dalla città vivendo egoisticamente nel piccolo borgo della propria sicurezza economica. E, al contrario, si può non avere documenti che attestino la cittadinanza, ma esserlo nella realtà perché ci adoperiamo per una accoglienza dignitosa di migranti nella nostra comunità, perché consumiamo pensando alle generazioni giovani o non presenti, perché non facciamo caso al colore della pelle del nostro vicino di casa, perché siamo imprenditori che garantiscono ai propri lavoratori diritti e eque retribuzioni anche per il bene della nostra azienda oltre che per senso di giustizia. C’è un potere enorme in capo alla responsabilità di ciascuno di noi. Che, se agito nel nostro quotidiano, ad un certo punto possiamo essere chiamati ad impegnare collettivamente. Come appunto sono i cinque referendum di giugno, sul lavoro e sulla cittadinanza. Così, il cerchio si chiude e la lontana e “piccola” vicenda di Guoyu entra a far parte di un problema grande di cui ciascuna persona è chiamata a diventare responsabile, comprendendola e agendo individualmente per offrire una risposta collettiva.



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link

Investi nel futuro

scopri le aste immobiliari