In tema di inerenza dei costi d’impresa, l’orientamento più recente della giurisprudenza della Corte di Cassazione si presta a una duplice valutazione. Da un lato, appare condivisibile, laddove assume che l’inerenza non implichi la sussistenza di un rapporto causale fra costo e ricavo, bensì esprima la mera riferibilità (anche in via indiretta o in proiezione futura) del costo all’attività d’impresa nel suo complesso: dovendo vagliare unicamente il potenziale “qualitativo” di ogni costo, la spesa “antieconomica”, “sproporzionata” o “incongrua” può – al massimo – costituire un indizio, non tanto del difetto di inerenza, quanto dell’inesistenza stessa del costo. Dall’altro lato, appare criticabile la posizione della Cassazione laddove, nonostante il nuovo standard probatorio introdotto dall’
art. 7, comma 5-bis,
D.Lgs. n. 546/1992, continua pervicacemente a ritenere gravato dall’onere di provare l’inerenza dei costi il contribuente, considerato il più “vicino alla fonte di prova”. Sul contribuente, invece, non dovrebbe gravare alcun onere…
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In tema di inerenza dei costi d’impresa, l’orientamento più recente della giurisprudenza di legittimità appare piuttosto consolidato (e condivisibile) in merito a quale contenuto ascrivere a tale principio; criticabile risulta, invece, l’approccio che la Corte di Cassazione continua a prospettare circa il riparto dell’onere della prova nei relativi giudizi.
In particolare, dall’esame delle pronunce della Cassazione del mese di aprile (
Cass. ordinanze 2 aprile 2025, n. 8700 e n. 8704; ordinanza 3 aprile 2025, n. 8801; ordinanza 4 aprile 2025, n. 8922;
ordinanze 7 aprile 2025, n. 9132, n. 9159 e n. 9160;
ordinanze 12 aprile 2025, n. 9568 e n. 9569), emerge come l’
inerenza, essendo strettamente
correlata alla nozione di “
reddito d’impresa”, debba essere intesa come
riferibilità (anche indiretta, potenziale o in proiezione futura) del
costo sostenuto, non ai ricavi, bensì all’
attività d’impresa complessivamente considerata, escludendo (solamente) quei costi che si collocano in una sfera estranea all’esercizio d’impresa.
Ne consegue che è
da archiviare l’
orientamento di prassi che qualifica un costo inerente solo se si riferisce a un’attività da cui derivano ricavi o altri proventi positivi di reddito, essendo tale regola di correlazione fra costi deducibili e ricavi tassabili codificata dall’
art. 109, comma 5, del
TUIR, ai fini della diversa (e logicamente successiva) questione dell’imputazione temporale dei costi inerenti.
Ai fini del giudizio sulla riferibilità del costo all’attività d’impresa, non deve essere riscontrato un rapporto in termini di causa-effetto fra il costo e l’attività. Poiché il concetto aziendalistico e quello civilistico di “spesa” non sono necessariamente legati all’idea di “utilità” o di “vantaggio”, devono considerarsi inerenti anche quei costi che non risultano “profittevoli” all’impresa, in quanto – ad esempio – non comportano un aumento del fatturato, un ampliamento del settore di mercato, un incremento della clientela o l’introduzione di nuovi beni strumentali.
Tale principio risulta, tuttavia,
irrazionalmente applicato dalla Cassazione alle
sole imprese che operano come
single entity. Infatti, in materia di costi infragruppo, laddove la società capofila decida di fornire servizi o curare direttamente le attività di interesse comune delle società del gruppo, ripartendone i costi tra di esse, la Corte di legittimità continua a subordinare la deducibilità alla prova dell’inerenza della spesa non solo in ordine all’attività d’impresa esercitata dalla società figlia, ma anche al “reale vantaggio” che ne sia derivato a quest’ultima (
Cass., ordinanza n. 9132/2025 cit.).
Il sindacato dell’Amministrazione finanziaria non dovrebbe, invece, mai spingersi sino alla verifica sulla necessità o sull’opportunità di sostenere alcuni costi, poiché altrimenti si consentirebbe di entrare nel merito delle strategie aziendali (anche di gruppo), che sono di stretta competenza dell’imprenditore, esercitando un potere svincolato dai presupposti sostanziali e procedurali degli accertamenti in tema di abuso del diritto.
Nessuna norma, del resto, autorizza l’Amministrazione finanziaria a soppesare l’incidenza del costo nella determinazione quantitativa del ricavo. Anzi, poiché l’art. 85, comma 1, lett. a) – e), del TUIR, per definire il “ricavo” opera un chiaro riferimento a ciò che costituisce “corrispettivo”, la tassazione del reddito d’impresa dovrebbe restare ancorata alla tassazione del prezzo effettivamente pattuito fra le parti, ancorché di ammontare sproporzionato, perché fuori mercato o (apparentemente) antieconomico.
Poiché ai fini dell’inerenza occorre vagliare unicamente il potenziale “qualitativo” di ogni spesa, i costi non possono essere riconosciuti deducibili o detraibili solo in parte.
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L’
antieconomicità di un
costo, se non esclude la sua inerenza rispetto all’attività d’impresa, può, invero,
integrare un indice rilevatore dell’“inesistenza di passività dichiarate”, da accertare, anche in via presuntiva, ai sensi dell’
art. 39, comma 1, lett. d), del
D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. L’antieconomicità
può rappresentare, cioè, un
indizio non tanto del difetto di inerenza, quanto della
patologia del costo stesso, che l’
Amministrazione finanziaria ha il potere di
contestare qualora ricorrano (
altri)
indizi gravi, precisi e concordanti di inesistenza delle operazioni sottostanti.
Al di fuori di questi casi, se a essere contestata non è l’effettività del costo, il difetto di inerenza dovrebbe essere sempre oggetto della prova che l’Amministrazione finanziaria è chiamata a fornire, prima di tutti a sè stessa. Infatti, l’
art. 42 del
D.P.R. n. 600/1973 cit. richiede espressamente che l’avviso di accertamento sia “motivato” anche in relazione alle “ragioni del mancato riconoscimento di deduzioni e detrazioni”.
Diversamente, la Cassazione è ancor oggi irremovibile nel ritenere che l’onere della prova dell’inerenza gravi sul contribuente, ossia sul soggetto considerato più “vicino alla prova” e nelle condizioni migliori per assolverla, avendo la “disponibilità del mezzo di prova”. Incomberebbe, cioè, sul soggetto passivo l’onere di allegazione della documentazione di supporto da cui ricavare l’importo dei costi sostenuti, nonché la ragione e la coerenza economica della spesa, al fine della prova dell’inerenza.
Assecondando tale approccio, si finisce però con lo
sgravare (
di fatto)
l’
Amministrazione finanziaria dal compito di
giustificare la sua
ripresa a tassazione e di “prova[re] in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato” (
art. 7, comma 5-bis,
D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546). Una
prova che, per andare a segno, deve essere
effettiva, coerente (non contraddittoria) e sufficientemente
circostanziata e puntuale.
A parere di chi scrive, l’
art. 7, comma 5-bis,
D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nell’esplicitare come il
fondamento della
pretesa fiscale debba essere
provato “comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale”,
autorizza a continuare a
dare applicazione alle
presunzioni legali che – come eccezione –
invertono l’ordinaria regola di
riparto dell’
onere probatorio, addossandolo sul contribuente, e che – in quanto tali – indirettamente corroborano il principio secondo cui l’onere di prova grava di regola in capo all’Amministrazione finanziaria che intende contestare la deducibilità dei costi.
Sul
contribuente, invece,
non dovrebbe
gravare alcun onere, neppure nei casi in cui, per contestare il difetto di inerenza, l’Amministrazione finanziaria ricorra a delle presunzioni semplici, ossia a delle argomentazioni logiche per indurre l’esistenza o il modo di essere di un fatto ignoto. In tali casi, la difesa del destinatario dell’atto accertativo può, infatti, validamente appuntarsi sull’inattendibilità, illogicità o implausibilità del ragionamento inferenziale fatto proprio dall’Amministrazione finanziaria, senza la necessità di fornire la prova dell’inerenza dei costi dedotti. E se il ragionamento inferenziale non risulta applicato in modo sufficiente “a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, […] le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni” (
art. 7, comma 5-bis,
D.Lgs. n. 546/1992), il
giudice dovrebbe ritenere la
contestazione del Fisco sfornita di
fondamento,
a prescindere dall’eventuale
contro-prova offerta dal contribuente.
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