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Af(fondo) sul mattone – Economy Magazine


Nel bel mezzo di un 2025 attraversato da guerre, instabilità monetarie e cicli economici asimmetrici, i fondi immobiliari emergono nel firmamento degli investimenti globali come una costellazione minore, ma in costante espansione. Il Rapporto sui Fondi immobiliari 2025 di Scenari Immobiliari, pubblicato a metà giugno, conferma quanto già si percepiva da tempo sui mercati: il mattone gestito professionalmente è una colonna portante delle strategie patrimoniali globali. E l’Italia, in questo schema, ha conquistato una posizione più centrale del previsto.

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«Il patrimonio dei fondi immobiliari italiani ha superato nel 2025 quota 130 miliardi di euro», spiega Francesca Zirnstein, direttrice generale di Scenari Immobiliari, «per dare un ordine di grandezza: è quasi il doppio di quanto detenuto da fondi pensione, dalle assicurazioni e dalle banche messe insieme. In termini relativi, rappresenta quasi la metà del valore stimato del patrimonio pubblico disponibile (quello effettivamente “monetizzabile”, esclusi i beni storici e inalienabili), stimato oltre i 350 miliardi». Ma non è solo una crescita quantitativa.

I fondi, pur con tutti i loro limiti, sono diventati il veicolo principale per operare nel mercato immobiliare italiano, lo strumento prediletto da investitori istituzionali, fondi sovrani e operatori internazionali. «I fondi rappresentano oggi una modalità maggioritaria, se non esclusiva, per operare nel real estate italiano» conferma Zirnstein.

L’Italia, pur restando una piazza più piccola rispetto ai capofila Francia e Germania, si inserisce in un quadro europeo ancora più ampio. Il patrimonio dei fondi immobiliari europei ha raggiunto i 950 miliardi di euro, quintuplicando in due decenni, con l’obiettivo di arrivare a quota 1.000 miliardi entro il 2026.

La dinamica è chiara: in un mondo dove i tassi d’interesse sono tornati a scendere (la Bce ha proseguito con i tagli sui tassi nel secondo trimestre di quest’anno, come da tabella di marcia) e la volatilità dei mercati azionari resta elevata, l’immobiliare gestito appare come un porto sufficientemente sicuro.

A questo si aggiunge il rallentamento della locomotiva statunitense, dove i Reits (Real estate investment trust, società di investimento immobiliare equiparabili alle Siiq italiane) che ancora rappresentano il 70% del mercato globale) hanno perso parte dello smalto degli anni precedenti. «Il successo degli strumenti Usa si sta attenuando – si legge nel rapporto – aprendo spazi di interesse per i fondi europei, considerati meno esposti e più equilibrati». L’Europa si avvantaggia anche di una minore esposizione alle dinamiche speculative e di un focus sulle tematiche Esg.

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Inoltre, l’integrazione fra fondi immobiliari e strumenti finanziari alternativi – come i fondi di private equity immobiliari, i club deal, il crowdfunding – sta ridisegnando la geografia degli investimenti, rendendola più fluida e multi-veicolo. I fondi diventano così parte di ecosistemi ibridi, capaci di attrarre anche family office e investitori non istituzionali.

Nel frattempo, l’area Asia-Pacifico fatica a mantenere il ritmo. Le difficoltà strutturali di economie chiave come quella del Giappone e della Cina, stanno frenando gli investimenti. Giappone e Hong Kong hanno visto contrazioni significative nei valori immobiliari. L’unico aumento dei tassi deciso nel 2024 – quello della Bank of Japan – non ha prodotto stimoli reali. La domanda resta depressa. La deflazione giapponese si conferma un macigno.

Anche la Cina, alle prese con il rallentamento della crescita e l’instabilità del settore immobiliare interno (vedi il caso del maxi gruppo Evergrande, quotato sulla Borsa di Hong Kong che, accumulando debiti per oltre 300 miliardi di dollari, ha sollevato preoccupazioni per un rischio contagio nel settore immobiliare cinese e di rimbalzo nell’economia globale), ha ridotto drasticamente l’esposizione estera. Questo ha aperto spazi per l’Europa, percepita oggi come area di maggiore stabilità politica e giuridica, almeno nel medio termine.

«Oggi», fa il punto Luigi Massimilla, fund director di Coima Sgr, «i grandi investitori globali allocano tra il 15% e il 20% del proprio portafoglio in real estate, rispetto al 5-7% di inizio secolo. Una trasformazione strutturale. Non è più un “bene rifugio”, ma una componente strategica del portafoglio, spesso usata per garantire redditività costante e diversificazione geografica e settoriale».

E qui entra in gioco l’Italia, che – pur con limiti strutturali noti e stranoti – offre opportunità concrete in settori come logistica, uffici, student housing e hotellerie. Nel nostro Paese, Milano resta la capitale del real estate, ma non basta: nel 2024 sono state realizzate 2.509 nuove abitazioni, a fronte di una domanda stimata in 10.000 unità. Il 90% dei progetti è pre-venduto ben prima del completamento. «La scarsità di offerta», osserva Massimilla,«spinge i canoni e sostiene il valore degli asset: +30% rispetto al pre-Covid». Ma il fenomeno non può restare concentrato in una sola città.

«L’Italia ha bisogno di costruire storie credibili anche nelle città secondarie, per attrarre capitali stranieri», sottolinea Alberto Meloni, direttore dell’asset management di DeA Capital Sgr, «oggi, la media patrimoniale di un fondo immobiliare italiano è di appena 180 milioni, con quasi 700 fondi attivi: troppo piccoli e troppo numerosi: serve una razionalizzazione, se vogliamo giocare alla pari con i grandi player europei».

E i capitali esteri, va detto, ci sarebbero anche. Ma chiedono progetti scalabili, governance chiara e ritorni prevedibili. La tipica frammentazione del panorama italiano rischia di essere più un freno che un’opportunità.

Poi c’è il comparto logistico, nel quale l’Italia ha un tasso di vacancy del solo 3%, il più basso in Europa, e canoni medi intorno ai 69 euro al mq l’anno. L’e-commerce – che in Italia ha ancora una penetrazione inferiore alla media Ue – rappresenta un motore potenziale enorme.

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Altro settore in fermento è lo student housing: a fronte di una media Ue del 15% di offerta di studentati per gli universitari non residenti, l’Italia arriva al 24%, con ampie possibilità di espansione. Gli investitori guardano con interesse al mercato, anche alla luce delle nuove politiche Usa che mantengono alta l’attrattività delle università europee per gli studenti internazionali.

Nel settore ricettivo, invece, l’Italia è e resta un fanalino di coda in Europa per la presenza di catene internazionali: solo il 5% delle strutture è gestito da brand globali. Più dinamico il comparto degli edifici a destinazione direzionale. A Milano, i canoni di locazione degli uffici sono cresciuti del 30% dal 2019, e si prevede un’ulteriore espansione del 13% entro il 2028.

La scarsità di offerta – soprattutto di spazi nuovi e sostenibili in base metriche internazionali come le certificazioni Breem, Leed e Well – e l’alta domanda (sostenuta da un’Italia meno impattata dallo smart working rispetto ad altri Paesi Ue) stanno sostenendo valori e investimenti. E in molte città secondarie, come Bologna, Padova, Firenze e Bari, stanno nascendo nuovi poli direzionali di qualità, con rendimenti netti superiori anche di due punti percentuali rispetto a Milano. Un segnale interessante per chi cerca margini di crescita.

Quanto a Esg e rigenerazione urbana: è ancora un mantra? Il post-Covid ha spinto gli investitori a rivedere i propri criteri: profitto sì, ma integrato con impatti ambientali e sociali positivi. La rigenerazione urbana è diventata un punto cardine che richiede nuovi strumenti, nuovi modelli ma, soprattutto, capitali pazienti. E anche se, in fatto di modelli sostenibili, gli Stati Uniti di Trump ce la stanno mettendo tutta per cambiare rotta, lasciando l’Unione europea isolata in questa battaglia, nel 2024 oltre il 70% dei nuovi fondi lanciati in Italia ha incorporato criteri Esg fino dalla fase di strutturazione.

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Un’onda lunga di pensionamenti sta investendo i vertici delle società immobiliari internazionali, conseguenza di un top management con un media d’età che nel settore tocca i 48,9 anni: la più alta tra tutti i comparti dei servizi finanziari. Ne sta derivando una vera e propria “crisi di successione” di dimensioni globali, aggravata da una carenza strutturali di figure pronte a raccogliere il testimone.

Molti “quadri” emergenti hanno infatti sviluppato competenze settoriali troppo focalizzate su aspetti molto specifici dell’industria immobiliare (mercato dei capitali, sviluppo o asset management), senza avere una visione d’insieme per guidare aziende certamente più complesse e globalizzate che in passato.

A rivelarlo è l’ultimo report di Russell Reynolds Associates,“How human capital is shaping the global real estate outlook for 2025”, che mette sotto la lente i cambiamenti in atto nel settore, non solo dal punto di vista economico e operativo, ma soprattutto dal punto di vista del capitale umano.

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Commenta Davide Albertini Petroni, presidente di Confindustria Assoimmobiliare: «Lo studio Russell Reynolds Associates evidenzia una criticità principale: il numero di nuovi leader pronto a raccogliere il testimone è limitato. Molti dei professionisti oggi in ascesa si sono formati in comparti specifici (come capital markets o asset management), acquisendo una visione parziale del ciclo di investimento. Questo restringe il campo di potenziali Ceo in grado di gestire l’intera filiera con consapevolezza».

«Siamo quindi davanti a un ‘retirement cliff’– aggiunge Albertini Petroni – ad una soglia oltre la quale un’intera generazione di Ceo e top manager si appresta a lasciare il campo e anche in Italia è giusto ragionare sul ricambio generazionale: diverse imprese devono iniziare a pianificare un avvicendamento al vertice in una realtà in continua trasformazione».

Il ruolo del Ceo – si legge nella ricerca – richiede oggi una miscela di abilità: capacità di navigare mercati volatili, sensibilità Esg, comprensione dell’impatto del lavoro ibrido sugli spazi, e competenze digitali avanzate, compreso l’uso dell’IA per la gestione dei dati. La pressione di investitori, comunità e regolatori rende il ruolo più esposto e instabile.

Anche i consigli di amministrazione stanno vivendo un cambio di paradigma. Dopo anni di aperture a profili generalisti da settori diversi, il vento è cambiato: si cerca di nuovo esperienza immobiliare diretta. In parallelo, cresce la domanda di figure con competenze in raccolta di capitale, in particolare nei Raits, dove si passa da modelli basati sul bilancio a soluzioni off-balance, come fondi e conti segregati.

E con l’espansione internazionale — specie in Europa da parte di operatori Usa in logistica e data center — si intensifica anche la ricerca di talenti cross-border, capaci di coniugare visione globale e conoscenza locale.

Come la rivoluzione del capitale umano si riflette su tutte le funzioni aziendali:

• Cfo (chief financial officer): in transizione da “contabile” a stratega d’impresa, sempre più coinvolto in M&A, capital markets e integrazioni post-fusione. L’elevato turnover è anche sintomo del loro ruolo crusciale nella linea di successione al Ceo.

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• Chro (chief human resources officer): il comparto delle risorse umane guadagnano peso, ampliando il raggio d’azione verso trasformazione organizzativa, M&A e sviluppo leadership. Le aziende cercano ora profili con esperienza in settori più evoluti, come quello bancario.

• General counsel e compliance: di fronte a un quadro normativo instabile e globale, i responsabili legali devono saper coniugare rigore e flessibilità. Cresce la valorizzazione di percorsi interni, premiando l’efficacia su progetti complessi.

• Cto e Cio (chief information officer e chief technology officer): la spinta alla digitalizzazione — e la diffusione rapida dell’intelligenza artificiale generativa — impongono ai responsabili della parte tecnologica una visione strategica, oltre che capacità di presidiare nuovi rischi e opportunità.



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