L’accelerazione della crisi climatica certificata, secondo i dati dello scorso anno, ha portato per la prima volta a una temperatura superiore a 1,5°C, varcando così il primo fondamentale limite dell’Accordo di Parigi: arrestare l’aumento medio della temperatura terrestre entro i 2°C, facendo il possibile per restare entro 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali. Ma questo non sembra aver effetto tra i tavoli negoziali. L’appuntamento di Bonn, incontro preparatorio in vista della Cop 30 di novembre a Belém (Brasile), che si è concluso il 26 giugno, non ha infatti prodotto grossi risultati: molte discussioni restano aperte e troppe decisioni sono rimandate al futuro.
È il caso del Global stocktake, lo strumento che prevede ogni cinque anni una nuova attività reportistica sullo stato delle emissioni con l’obiettivo di incentivare la lotta alla crisi climatica valutando i progressi collettivi compiuti sull’Accordo di Parigi. Riguardo al tema, non c’è stata convergenza sul ruolo che deve svolgere l’Ipcc all’interno delle Cop. Inoltre, per il dialogo degli Emirati Arabi Uniti – Uae dialogue -, in riferimento al processo che deve dare un seguito credibile all’approvazione del primo Global stocktake che si è tenuto a Dubai nel 2023 con la Cop 28, i Paesi hanno rinviato ogni decisione alla Cop 30. Per quanto riguarda l’aspetto parallelo degli NDCs, gli impegni di riduzione delle emissioni climalteranti che tutti i Paesi sono chiamati ad aggiornare entro il 2025, il summit ha evidenziato che occorre alzare l’ambizione garantendo alcuni aspetti cruciali, come quelli legati alla giusta transizione e all’inclusività, tenendo conto degli interessi delle popolazioni indigene.
Discorso simile per il Mitigation work programme. Nel corso degli 11 giorni del summit, i colloqui riguardo al programma sulla mitigazione si sono pian piano arenati. La proposta avanzata dai Paesi in via di sviluppo di creare una piattaforma in grado di favorire il raggiungimento degli obiettivi climatici derivanti dall’attività di mitigazione, attraverso per esempio lo scambio di buone pratiche, è stata rifiutata dai Paesi ricchi e dalle piccole isole. Per quest’ultimi l’azione deve passare più dai messaggi lanciati da governi e politici che dalla creazione di un nuovo strumento in seno alla Cop.
Per quanto riguarda l’adattamento, il confronto si è focalizzato sul Global goal on adaptation. L’obiettivo è sviluppare indicatori comuni per monitorarne l’attuazione, in base a quanto stabilito durante la Cop 28. Qui lo scontro è stato sull’inclusione della finanza climatica tra gli indicatori, elemento che trova il disaccordo dei Paesi in via di sviluppo, e il livello di controllo politico da esercitare sul gruppo di esperti incaricato di definirli. Alla fine le Parti si sono limitate ad adottare una bozza di decisione, per non bloccare i lavori negoziali in vista della Cop 30.
Sul fronte dei Piani nazionali di adattamento (Naps), strumenti chiave per pianificare e attuare misure di adattamento, solo 63 Paesi li hanno formalmente presentati. I Paesi in via di sviluppo hanno poi ribadito la necessità di disporre di maggiori misure legate al trasferimento tecnologico e all’attività di formazione. Senza successo, la richiesta di triplicare i finanziamenti pubblici per l’adattamento entro il 2030.
In generale, tutto il tema della finanza climatica resta aperto e potenzialmente esplosivo in vista di Belém. I Paesi in via di sviluppo si sono detti fortemente insoddisfatti per i progressi sull’Ncqg (New collective quantified goal), cioè il nuovo obiettivo quantitativo di finanza climatica post 2025. Nella Cop 29 dello scorso anno di Baku si era deciso di estendere l’obiettivo dei 100 miliardi di dollari all’anno – stabiliti a Copenaghen nel 2009 – a 300 miliardi di dollari all’anno da raggiungere entro il 2035. Una cifra però molto lontana dai 1300 miliardi richiesti: soglia minima individuata dalla parte più vulnerabile del Pianeta per mettersi al riparo dal riscaldamento globale con l’attività di adattamento, e per svilupparsi con le fonti rinnovabili. Nello specifico, a Bonn, è stata l’India ad assumere un ruolo centrale nel guidare le coalizioni di Paesi – come G77+China, Lmdc, Aosis, Ldcs e Agn – unite nella richiesta di maggiori garanzie di trasparenza e di impegni vincolanti sul finanziamento climatico. Per questi “blocchi negoziali” servono regole chiare su monitoraggio, rendicontazione e accesso equo ai fondi. In sostanza, alla Cop 30 si discuterà parecchio dei temi sollevati dall’articolo 9.1 dell’Accordo di Parigi: i Paesi sviluppati devono fornire risorse finanziarie per assistere i Paesi in via di sviluppo sia per quanto riguarda la mitigazione sia l’adattamento, in continuazione dei loro obblighi esistenti derivanti dalla Convenzione Onu)
Tra i pochi risultati concreti figura l’accordo per aumentare il bilancio di base dell’Unfccc (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici): i governi hanno convenuto di portarlo a 81,5 milioni di euro per il biennio 2026-2027, con un incremento di circa il 10% rispetto al periodo precedente. Gli Stati Uniti, che dopo l’elezione di Trump si sono per la seconda volta ritirati dall’Accordo di Parigi, erano il principale contributore con il 22%: una quota che Bloomberg philanthropies si è impegnata a coprire per intero in modo da garantire la continuità operativa dell’Unfccc. La Cina, seconda economia mondiale, aumenterà la propria quota dal 15% al 20%, in linea con la sua crescita economica. Nessun passo avanti significativo, infine, su politiche di genere e diritti umani. Resta ancora da stabilire, tra Turchia e Australia, la sede della Cop 31 del 2026.
Fonte: UN Climate Change – Lara Murillo
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