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La locomotiva non sbuffa più: aspettando una nuova Tav per l’economia regionale e bolognese


Il rapporto annuale 2024 della Banca d’Italia sui dati dell’Emilia-Romagna ha individuato la frenata complessiva anche rispetto a quelli nazionali. La cosiddetta regione di riferimento pare aver segnato il passo lo scorso anno e anche nel primo semestre 2025 non si vedono cambiamenti. Ma siamo sicuri che si stia facendo quello che serve per invertire questo trend? Intanto Confindustria segnala l’incubo del peso crescente della bolletta energetica

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di Maurizio Morini, Innovation manager


Il risultato che il Rapporto Annuale della Banca d’Italia sull’economia dell’Emilia-Romagna evidenzia per il 2024 non coglie impreparato chi già da tempo sta dicendo che le preoccupazioni strutturali relative al modello economico emiliano-romagnolo erano percepibili e significative.

Il rapporto della Banca d’Italia evidenzia come il calo dell’export sia legato al ruolo significativo e determinante che ha il settore della meccanica nell’ambito della struttura produttiva ed economica della regione e della provincia di Bologna. 

A livello regionale la meccanica da sola produce un valore complessivo superiore al 50% del valore economico totale prodotto annualmente dalla regione. È dunque evidente che problematiche connesse a quel settore si riverberino in maniera estremamente significativa su tutto l’andamento economico del territorio.

Già tra la fine del 2024 (qui)  e i primi giorni del 2025 (qui) ebbi l’occasione di mettere in evidenza come le filiere produttive del settore della meccanica, e in misura di minor impatto globale – ma sul singolo caso anche più rilevante – di altri settori economici, fossero a rischio strutturale per alcuni aspetti che l’analista attento non doveva farsi sfuggire:

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  • tensione competitiva internazionale che induce le imprese capo Filiera a mantenere invariati i prezzi di acquisto lungo la filiera a fronte di aumenti molteplici dei costi produttivi per le imprese sub-fornitrici
  • difficoltà di reperimento di manodopera qualificata con tempi di ingresso spesso differiti rispetto alle effettive necessità
  • andamento irregolare e difficilmente prevedibile del mercato dell’energia a fronte di tipologia di imprese fortemente energivora
  • Imprese facenti parte della filiera prive dell’adeguato ricambio generazionale e quindi a rischio di chiusura dell’attività o in alternativa di mantenimento della stessa in capo a una forza lavoro particolarmente avanzata ad età e del tutto non propensa all’adozione delle tecnologie avanzate dell’industria 4.0 e 5.0.

Voglio citare in questa fase il fatto che – nonostante alcuni percorsi avanzati di coinvolgimento degli imprenditori delle piccole medie imprese di filiera verso un percorso di maggiore consapevolezza della complessità e dell’incertezza dei mercati a venire – nella stragrande maggioranza dei casi, rispetto ai temi cruciali sopra citati, gli stessi siano stati sottovalutati oppure si sia preferito confidare che il problema si risolvesse autonomamente, senza avere la capacità di guidare le imprese minori stesse verso una nuova dimensione strategica e operativa.

Le stesse associazioni di impresa, in particolare quelle delle piccole e medie imprese, si mostrano purtroppo e nei fatti non disponibili – o forse attrezzate – per affrontare la sfida di una conversione significativa del contesto economico in cui operano. Non basta fare convegni e incontri: bisogna agire, creare nuova cultura costruendo percorsi concreti.

Per esempio, di fronte alle difficoltà strutturali, di rapporti internazionali e probabilmente ineludibili di settori come l’automotive su quattro ruote, il packaging (messo in discussione dalle scelte sulla sostenibilità), la ceramica (che per bocca di suoi importanti esponenti contrasta la nuova vena del Green deal ritenendosi troppo vessata a riguardo), non si sia intrapreso un percorso di indicazione alle Pmi di subfornitura di settori alternativi di sbocco, con evidenza dell’utilizzo alternativo delle tecnologie esistenti.

La preoccupazione è oggi forte: anche la presidente di Confindustria Emilia, Sonia Bonfiglioli, in una recente intervista apparsa sul “Corriere Bologna”, evidenzia come vi siano attualmente già imprese che hanno avviato procedure concordatarie al Tribunale in quanto non riescono a sopportare il peso crescente della bolletta energetica che rappresenta – insieme alla retribuzione dei lavoratori – il vero fulcro del costo di produzione di quel tipo d’azienda. La preoccupazione di Bonfiglioli è tale da arrivare ad affermare che come conseguenza di ciò «si possono rompere le fondamenta della catena economica regionale».

Bene fa la presidente a chiedere interventi anche regionali e locali sul tema delle alternative energetiche, anche se sappiamo che i tempi comunque non saranno brevissimi.

Nel frattempo è necessario pensare a delle alternative che possano indurre le imprese “attive” a valutare nuovi mercati di sbocco come il medicale e la robotica connessa, l’aerospaziale, le infrastrutture per gli interventi di urbanizzazione evolute, i componenti per le soluzioni tecnologiche legate a settori come la stampa 3D; e bisogna indirizzare le nuove imprese e le nuove attività verso temi a vero valore aggiunto sociale, come la prevenzione integrata, connessa all’alimentazione e alle tecniche di benessere, la tutela del territorio e delle acque, l’agricoltura verticale gestita dall’intelligenza artificiale, e in generale le attività imprenditoriali basate sulla scienza. Anche il turismo, tanto discusso a Bologna soprattutto, ne potrà avere benefici. E pure i bilanci pubblici: se in Gran Bretagna una sterlina investita in attività di prevenzione e benessere porta a otto sterline di risparmio per la sanità pubblica, perché non dovrebbe essere altrettanto qui?

Appare del resto abbastanza “razionale” il fatto che potendo disporre in Emilia-Romagna e a Bologna di una potenza di calcolo tra le maggiori al mondo ci si debba orientare verso soluzioni applicative per l’economia che siano stimolate dai dati e che possano favorire il benessere complessivo delle persone e della società in genere.

Importante, come ho già avuto modo di scrivere, è che anche le piccole e medie imprese siano fatte parte di questo percorso, e che la creazione di nuova economia non sia solamente basata su presunzioni di efficienza utilizzando la curva sigmoide della statistica. Cito un esempio: raccoglie milioni e milioni di euro una start-up ideata con l’intento di ridurre in maniera molto significativa i costi di gestione del personale delle imprese, ma come sistema io voglio considerare che il suo eventuale successo significherà molto probabilmente mettere in discussione decine di migliaia di posti di lavoro, di cui migliaia e migliaia sul nostro territorio, senza averne molto probabilmente un riscontro sociale di alcun tipo. 

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La creazione di “nuova economia” dev’essere indirizzata, anche da parte degli incubatori e citate associazioni economiche e imprenditoriali, verso soluzioni che davvero possono procurare un impatto positivo su tutto il nostro sistema socioeconomico.

Facciamolo, prima di rammaricarci per non averlo fatto e che il prossimo treno dello sviluppo equilibrato e sostenibile sia passato… ma il nostro vagone non era agganciato!




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