In un recente intervento sul tema della competitività dell’industria europea, il Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta ha posto l’accento sul ritardo accumulato dal nostro paese nelle attività di ricerca e sviluppo (R&S). Queste attività sono convenzionalmente suddivise in tre ambiti: la ricerca di base, la ricerca applicata e lo sviluppo sperimentale. La prima mira ad accrescere la nostra conoscenza del mondo naturale e della società anche in assenza di uno specifico obiettivo applicativo.
La seconda si serve dei risultati ottenuti nella ricerca di base per produrre conoscenza tecnologica finalizzata a specifici ambiti applicativi. La terza traduce questa conoscenza in nuovi prodotti e servizi. Come è facile immaginare, gran parte della ricerca di base e della ricerca applicata è finanziata con fondi pubblici poiché i risultati non sono scontati e le applicazioni potrebbero richiedere tempi lunghi. Gli investimenti delle imprese si concentrano soprattutto nell’ultima fase, quella dello sviluppo sperimentale, che è quella più vicina alla generazione di innovazioni, cioè di novità che hanno probabilità di successo sul mercato. L’indicatore principale utilizzato per misurare l’impegno dei paesi in questo ambito è il rapporto fra la spesa, pubblica e privata, in R&S e il PIL.
Il grido d’allarme del Governatore Panetta fa proprio riferimento a questo indicatore, poiché i valori osservati nel nostro paese, da anni intorno all’1,4%, sono inferiori alla media europea e decisamente più bassi di quelli osservati in Germania (3,1%) o in Francia (2,2%). Ancor peggio se si allarga il confronto ai paesi extra-europei, con USA e Giappone ben oltre il 3% e la Corea del Sud che ha superato il 5%. In un contesto nel quale la capacità innovativa è diventata uno dei principali fattori di competitività delle imprese, il basso livello di spesa in R&S è una delle principali spiegazioni della bassa produttività e della perdita di competitività delle nostre produzioni. E’ evidente, infatti, che le nostre imprese non possono competere sui costi ma debbono puntare sulla qualità dei prodotti e dei processi utilizzati per ottenerli.
Nel nostro paese è diffusa la convinzione che la qualità dei prodotti e dei processi può essere ottenuta anche in assenza di investimenti in ricerca e sviluppo, affidandosi all’accumulazione e alla trasmissione di conoscenza che si ottiene attraverso il learning by doing (cioè l’apprendere facendo). Come è avvenuto per secoli nelle botteghe artigiane. Nessuno nega l’importanza di questi processi ma nell’attuale contesto di sviluppo tecnologico anche le produzioni più tradizionali sono investite dalla necessità di introdurre innovazioni radicali, di prodotto e di processo, sulla spinta della digitalizzazione e della sostenibilità.
Per questo tipo di innovazioni il learning by doing non è più sufficiente: occorrono investimenti sistematici nella generazione e nell’applicazione di nuova conoscenza: dalla ricerca di base fino agli sviluppi applicativi. Il grido d’allarme del Governatore Panetta non è una novità. Il ritardo dell’Italia nell’attività di ricerca e sviluppo era evidente già alla fine del secolo scorso.
Nell’ambito della strategia di Lisbona il nostro paese si era impegnato a raggiungere l’1,5% del PIL nel 2010 in vista del traguardo fissato dalla UE del 3% nel 2020. Abbiamo fallito il traguardo intermedio e continuiamo ad essere molto lontani da quello finale. Nel 2022 (ultimo dato disponibile) la spesa in R&S si è attestata a 1,37% del PIL. Nel frattempo l’Europa sta pensando di fissare il target di spesa in R&S sul PIL al 4% nel 2030.
Non è pensabile che l’Italia riesca ad avvicinarsi a questo target, ma è assolutamente necessario mettere in atto azioni che ci consentono di iniziare un percorso di miglioramento dell’indicatore, fermo intorno all’1,4% da più di un ventennio. Sembra mancare la consapevolezza della rilevanza strategica degli investimenti in ricerca e sviluppo per lo sviluppo del paese. Per questo lo stimolo del Governatore è utile a ricordare che non possiamo più permetterci di mancare gli obiettivi in questo ambito; e ciò vale sia per l’investimento pubblico sia per quello delle imprese.
* Docente di Economia Applicata all’Università Politecnica delle Marche
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