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Iran attacca il Qatar, la mossa di Donald Trump e la Carta Italiana


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Il negoziato è una speranza per uscire dalla guerra e c’è una carta italiana da giocare. Gli iraniani ci stimano perché nel loro Paese abbiamo sempre portato sviluppo, pace e cultura. Quando si entra nella sede della compagnia petrolifera statale c’è un’enorme gigantografia di Mattei, il fondatore dell’Eni, protagonista nei libri di storia anche con la repubblica islamica. E durante la guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein le aziende italiane hanno contribuito a tenere in piedi il Paese. Mai hanno chiuso, così come le nostra ambasciata è sempre rimasta aperta per i canali della diplomazia: è vero, l’Italia qualche buona carta per la mediazione con Teheran può giocarsela. In oltre 40 anni di viaggi in Iran e in Medio Oriente posso dire con una certa sicurezza che l’Italia non ha mai rinunciato al suo ruolo diplomatico anche nei momenti peggiori e più difficili

Il negoziato è una speranza ma può essere anche un’illusione. Se guardiamo a quanto accaduto in questi mesi non c’è molto da essere ottimisti. Trump ha avviato negoziati, che si sono svolti anche a Roma, per un periodo di 60 giorni: di cosa si discuteva? In sostanza gli Stati Uniti chiedevano all’Iran di sospendere i programmi di arricchimento dell’uranio, come del resto voleva Netanyahu che ha usato Trump il suo inviato Witkoff come dei postini.

Khamenei, la Guida Suprema ha i giorni contati? Il piano interno per rimuoverlo dal potere. E Trump menziona un «cambio di regime»

Gli iraniani avevano mostrato l’intenzione di negoziare ma facevano anche agli americani la domanda più ovvia: voi cosa ci date in cambio? E la risposta degli Stati Uniti è stata quanto mai vaga. Gli iraniani chiedevano la cancellazione o quanto meno l’alleggerimento delle sanzioni bancarie e finanziarie degli Usa, in poche parole la possibilità di esportare petrolio in Europa e di potere lavorare con l’Occidente. Sono state le sanzioni che hanno gettato Teheran nelle braccia di Pechino e di Mosca: prima l’Iran era un partner molto interessante per gli europei e anche per le aziende italiane. Lo sappiamo tutti.

Il presidente riformista Rohani dopo l’accordo sul nucleare con Obama nel 2015 era venuto a Roma ed era stato firmato un memorandum da 30 miliardi di euro. Una delegazione di 400 imprese italiane era stata ricevuta a Teheran. Poco tempo dopo venne aperta dalle nostre istituzioni una linea di credito da 5 miliardi che però non è mai partita: gli americani minacciavano di mettere sanzioni alle banche e alle imprese italiane, in poche parole di bloccare le loro attività in America e le operazioni in dollari. Così non solo abbiamo rinunciato agli affari ma anche a sostenere un governo iraniano moderato: lo stesso errore compiuto dagli occidentali ai tempi di Khatami, un altro presidente riformista.

Trump, che già nel suo primo mandato aveva cancellato l’accordo del 2015, non ha mostrato la stessa pazienza nostra. Netanyahu ha attaccato l’Iran tre giorni prima che le delegazioni americana e iraniana si dovessero incontrare per trattare sul nucleare in Oman. Il presidente americano, per sua stessa ammissione, ha dato maggiore credito ai servizi israeliani che a quelli americani diretti da Tulsi Gabbard, secondo i quali agli iraniani mancavano almeno tre anni per arrivare a un’atomica. Ha scatenato i suoi caccia bombardieri domenica all’alba sugli impianti nucleari iraniani poche ore dopo l’incontro a Ginevra tra Francia, Germania, Gran Bretagna con il ministro degli Esteri iraniano Araghchi. E naturalmente non ha fatto neppure una telefonata di avvertimento agli europei, tranne che al britannico Starmer. Abbastanza umiliante.

Questi sono i fatti. Poi ci sono le speranze. Vedremo cosa emergerà dall’incontro tra Putin e il ministro iraniano. Putin ha un vantaggio parla con Trump e anche con Netanyahu, con il quale ha molti punti in comune. Ha espresso la sua contrarietà a un cambio di regime. Ma quante carte ha in mano per fermare la guerra contro un alleato che gli ha fornito migliaia di droni? Non molte. E’ impantanato in un altro conflitto in Ucraina e lo stesso Trump quante garanzie può dare di contenere la guerra? L’impressione è che segua l’agenda di Netanyahu più che la sua. La Cina può fare sentire la sua voce soprattutto frenando il piano iraniano di bloccare lo Stretto Hormuz dove passano anche le sue forniture di petrolio. Questo sarebbe un segnale importante.

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A decidere saranno gli obiettivi che si sono posti i belligeranti: se Trump e Netanyahu concordano anche per attuare un cambio di regime la guerra continua. Gli iraniani oggettivamente hanno un sola scelta: la sopravvivenza del regime. Ma pensare che si arrivi a una tregua proponendo una resa senza condizioni, come ha ventilato Trump, appare abbastanza improbabile: sarebbe comunque la fine degli ayatollah. È una scommessa in ogni caso rischiosa anche per gli Usa e per un presidente che aveva promesso agli americani di non fare più guerre inutili. Lo spiraglio per un cessate il fuoco è questo.





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