CAPITALE UMANO. Laura Deitinger, presidente di Assoknowledge, spiega perché «le imprese vincenti sono quelle capaci di una “deep dive” nell’identità dei candidati. Nuovo concetto: da ciò che sanno fare a ciò che sono davvero»
Immagina di indossare la muta, sistemare la maschera, controllare la bombola d’ossigeno e lasciarti andare giù, metro dopo metro, verso il silenzio profondo del mare. Non è un’immersione qualunque: è una discesa dentro te stesso. Un’esplorazione interiore, lenta e difficile, che ti obbliga a fare i conti con chi sei davvero. Questo è il «deep dive» di cui oggi si parla sempre più spesso nelle imprese più evolute, nelle aziende leader. Fino a ieri si cercavano giovani con competenze, oggi si cercano giovani con consapevolezza. Le aziende non valutano più solo il saper fare: cercano chi ha avuto il coraggio di immergersi, di conoscersi, di interrogarsi. E in questa capacità di «andare a fondo», come un sub che affronta la pressione delle profondità, si cela la vera svolta: il passaggio dalle competenze tecniche a quelle identitarie. Non basta più saper programmare un software, gestire un progetto o parlare una lingua: bisogna sapere chi si è, quali valori si portano, quanto si è capaci di aprirsi, relazionarsi, ascoltare. È questa la sfida che ogni giovane della Generazione Z deve affrontare se vuole essere attrattivo per le grandi Imprese.
Laura Deitinger, presidente di Assoknowledge (l’Associazione italiana dell’Education e del Knowledge di Confindustria Servizi Innovativi e Tecnologici), parte da qui per raccontare un cambio di paradigma radicale che è contenuto nel Rapporto 2025 dell’associazione dal titolo «Dal Fare all’Essere: la rivoluzione dell’Education nelle Imprese italiane». Si passa dalle competenze tecniche a quelle identitarie. Perché la vera sfida, oggi, è sapere chi si ha davanti e decidere se vale la pena investire su di lui.
Serve il saper essere
«Noi assistiamo oggi a un cambiamento profondo – spiega Deitinger –: le aziende sono chiamate non solo a colmare il gap formativo che esiste tra ciò che le scuole insegnano e ciò che il mercato richiede, ma anche a diventare attori attivi nella costruzione delle competenze. Questo ha cambiato radicalmente il nostro modo di selezionare: dobbiamo chiederci non solo cosa sa fare un giovane, ma chi è. Perché se poi dobbiamo essere noi a formarlo, dobbiamo essere certi che ne valga la pena». L’impresa non può più affidarsi a un curriculum. Il sistema scolastico non fornisce le competenze che servono, e allora i grandi gruppi si attrezzano in casa: le Corporate Academy – cioè quelle gestite dalle aziende – sono passati dalle 25 del 2010 alle 232 nel 2024.
L’importanza delle power skill
«Potremmo dire che le power skill sono il risultato professionale di una “deep dive” interiore – dice Deitinger –. Se hai avuto il coraggio di immergerti dentro te stesso, come un sub che si prepara con attenzione per andare in profondità, allora quelle competenze relazionali e identitarie emergono con forza. Il problema è che molti giovani non sono mai stati guidati a farlo: vivono in superficie, immersi in una cultura social dell’emulazione e del riconoscimento esterno, e spesso non sanno davvero cosa li appassioni o chi siano». Le cosiddette power skill – continua Deitinger – «non sono semplicemente soft skill aggiornate. Sono la manifestazione tangibile di un buon essere. Un giovane che ha coscienza di sé, che si è posto domande di senso, che ha affrontato un percorso interiore, avrà comportamenti profondamente diversi da chi non ha mai fatto questo lavoro». È da qui che nasce il cambio di passo: la selezione non si fa più solo con prove tecniche, ma con domande personali. Chi organizza viaggi con gli amici, chi prepara una festa, chi ha avuto esperienze reali di gestione: tutto è già competenza, se sai leggerla. «Vogliamo sapere chi abbiamo davanti. Non cosa ha studiato, ma cosa ha capito di sé».
L’impresa e l’alleanza educativa
«Ci troviamo in un momento storico in cui scuola, università e impresa devono smettere di correre su binari paralleli – afferma la presidente –. Bisogna lavorare insieme. Il sistema pubblico si sta muovendo, ma questi cambiamenti purtroppo richiedono tempi lunghi. Le imprese, soprattutto quelle più strutturate, hanno deciso di non aspettare e di farsi carico direttamente della formazione». Assoknowledge collabora stabilmente con il Ministero dell’Istruzione e con il Mimit: «Stiamo lavorando perché la componente ontologica assuma un ruolo più importante nei programmi scolastici. Perché se un docente inizia a chiedere “chi sei?”, comincia a seminare una nuova consapevolezza. E le scuole possono diventare luoghi in cui si cresce non solo per quello che si sa, ma per quello che si è». Un’esperienza diretta: «Stiamo partecipando a un progetto finanziato dalla Presidenza del Consiglio per portare questi temi nelle scuole. E quello che abbiamo trovato sono ragazzi con una domanda enorme di senso. Ma a fronte di una domanda così forte, hanno ricevuto pochissime risposte. Ecco perché anche le imprese devono contribuire a far trovare ai ragazzi queste risposte».
Formare non significa perdere
«Ci viene spesso detto: ma se investo sulla formazione poi se ne vanno. Ma è esattamente l’opposto. Se non investi, se non li aiuta a crescere, allora sì che se ne vanno. Non possiamo più avere paura di formare le persone. Il vero rischio è perderle perché non le abbiamo valorizzate, non perché sono diventate migliori». E aggiunge: «Se prima usavamo lo strumento del feedback per trattenere i talenti, oggi li usiamo per valorizzarli. Chiediamo: Cosa ti piacerebbe fare? Cosa sai fare davvero? Non ci interessa più solo la produttività, ma la valorizzazione complessiva della persona».
La leadership credibile
«Quello che funziona oggi è un nuovo tipo di leadership, che tiene insieme testa e cuore. Un leader, per essere credibile per un giovane, deve essere lui quello che si sarebbe scelto, deve incarnare dei valori e deve essere coerente tra ciò che dice, ciò che pensa e ciò che fa. La leadership non si esercita con l’autorità, ma con la presenza. Con la capacità di ascoltare, accompagnare, di essere punto di riferimento». La Gen Z, dice Deitinger, ha bisogno di adulti coerenti e aperti. «Non cercano capi simpatici, ma persone autentiche. E la coerenza è il nuovo fattore attrattivo. Non basta dire: bisogna essere».
Il digitale come cultura
«Parlare di digitale oggi non significa solo introdurre strumenti, ma rivedere il modello culturale aziendale. L’impatto della digitalizzazione è enorme: cambia il modo in cui lavoriamo, comunichiamo, apprendiamo. Le resistenze nelle Pmi sono ancora forti, soprattutto di tipo culturale. Ma non è possibile attrarre i giovani senza compiere questa trasformazione. E non è un fatto tecnico, è un fatto valoriale». Secondo Deitinger, la Generazione Z è cresciuta in simbiosi con la tecnologia: «È il loro rapporto con la tecnologia che con l’esperienza dovranno rivedere. Non sono loro a usare la tecnologia, è la tecnologia che ha usato loro. Questo ha creato individui spesso più superficiali, con meno profondità interiore. Ecco perché il lavoro sull’essere è ancora più urgente».
Superare le fratture culturali
«Il vero problema tra imprese e giovani? Il linguaggio. I giovani parlano un’altra lingua, una lingua fatta di senso, equilibrio, benessere. Le imprese, specialmente le Pmi, devono acquisire questo nuovo linguaggio, altrimenti rischiano di perdere queste relazioni. Serve un nuovo patto tra generazioni, serve per alcuni di giudicare meno e di ascoltare di più. I problemi relazionali spesso nono sono dovuti ai giovani che cambiano spesso, ma alle piccole imprese che incontrano maggiori difficoltà nell’affrontare il cambiamento ».
La sfida dell’ascolto quotidiano
«Attenzione, però, e l’appello è rivolto alle imprese meno sensibili: non basta creare una strategia annuale o lanciare qualche iniziativa spot per dire che si ascoltano i giovani. Il vero ascolto è quotidiano, è nel modo in cui li accogli al primo colloquio, nel modo in cui dai feedback, nel tempo che dedichi alla loro crescita. Serve presenza. Serve coerenza. Serve empatia». Deitinger è netta: «Se vogliamo costruire un ponte tra il mondo delle imprese in particolare le Pmi, che sono l’ossatura del nostro sistema industriale, e la Gen Z, dobbiamo iniziare da piccoli gesti quotidiani. Perché sono quelli che fanno la differenza: non i proclami, ma le relazioni».
«Se vogliamo costruire un ponte tra il mondo delle imprese in particolare le Pmi, che sono l’ossatura del nostro sistema industriale, e la Gen Z, dobbiamo iniziare da piccoli gesti quotidiani. Perché sono quelli che fanno la differenza: non i proclami, ma le relazioni»
Centralità del riconoscimento
«Un giovane oggi non cerca solo uno stipendio o un contratto stabile. Cerca di essere visto. Riconosciuto. Compreso. Questo significa che ogni impresa deve costruire spazi in cui i ragazzi possano raccontarsi, dove possano portare idee, dubbi. Se non lo fanno, non è per apatia: è perché nessuno ha mai chiesto loro di farlo». Deitinger sottolinea quanto il senso di riconoscimento sia alla base dell’engagement: «Noi chiediamo spesso: “Hai mai sentito che la tua opinione conti?”. La risposta, troppo spesso, è no. E da lì si capisce perché poi alcuni mollano tutto». C’è un’unica strada possibile, se le imprese vogliono davvero interfacciarsi con la Gen Z ed è quella di accettare di mettersi in discussione. «Se vogliamo davvero attrarre i talenti, dobbiamo essere disposti a cambiare. Non a livello di slogan, ma nella cultura profonda dell’organizzazione. Questa è la grande sfida dei prossimi anni. E se la Gen Z ci chiede di essere migliori, forse dovremmo ascoltarla. Perché quello che ci chiede non è più tempo libero, ma più senso. Non è meno lavoro, ma lavoro vero».
Per approfondire il tema del rapporto tra AZIENDE e GENERAZIONE Z collegarsi al sito dell’Osservatorio Delta Index
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