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DOLLARO PIÙ DEBOLE CON LA GUERRA IN IRAN, MINACCIA PER IL MADE IN ITALY


La guerra all’Iran potrebbe acquisire la debolezza del dollaro statunitense che negli ultimi mesi ha mostrato una sorta di debolezza dollaro “laterale”, condizionata dall’incertezza sulle politiche fiscali e commerciali dell’amministrazione americana. A risentirne è stata e sarà la fiducia globale verso il biglietto verde, che continua a perdere quota pur restando in un range controllato. In controtendenza l’euro, che beneficia della prospettiva di un ciclo di tagli Bce più breve rispetto alla Fed: il cambio EUR/USD è atteso risalire fino a 1,17-1,20 entro un anno. Tutto ciò potrebbe gioco-forza impattare negativamente sull’export del made in Italy verso gli Usa, mentre potrebbero aprirsi condizioni migliorative verso i mercati asiatici. In questo senso, è rilevante il rafforzamento anche per lo yen, spinto dalla possibile prosecuzione della stretta monetaria della BoJ e dal restringimento dei differenziali di rendimento con gli Stati Uniti: la proiezione per il cambio USD/JPY è verso 138 entro i prossimi 12 mesi. Più incerta, invece, la traiettoria della sterlina, che nel breve dovrebbe indebolirsi per via dei tagli attesi dalla BoE, ma potrebbe recuperare nel medio periodo contro il dollaro. In lieve calo la GBP anche contro l’euro, con un cambio atteso a 0,86 EUR/GBP.

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È quanto stima il Centro studi di Unimpresa, secondo cui la dinamica dei tassi resterà il driver principale delle valute G4 nei prossimi mesi (dollaro, euro, yen e sterlina), in un contesto di volatilità contenuta e progressivo riassestamento delle differenziali macroeconomiche.

«Il nuovo equilibrio valutario delineato dallo scenario internazionale – con un dollaro in fase di indebolimento laterale, un euro in rafforzamento moderato e uno yen più forte – avrà ripercussioni rilevanti per le piccole e medie imprese italiane, soprattutto quelle attive nei mercati esteri. Il primo effetto da considerare è legato al cambio euro-dollaro. Un euro più forte tende a penalizzare l’export italiano verso gli Stati Uniti ei Paesi che commerciano in dollari, perché rende i beni prodotti in Italia meno competitivi in termini di prezzo. Le pmi del manifatturiero, in particolare nei settori moda, meccanica e agroalimentare, rischiano quindi una contrazione della domanda estera, proprio nel momento in cui i margini sono già messi alla prova da costi energetici e finanziari ancora elevati. Il rafforzamento dell’euro, atteso fino a 1,17–1,20 USD, può inoltre incidere negativamente sulla redditività delle commesse già acquisite a cambio fisso, riducendo i margini commerciali» commenta il vicepresidente di Unimpresa, Giuseppe Spadafora. «C’è da dire che la dinamica laterale del dollaro e l’assenza di un trend direzionale profondo potrebbero attutirne l’impatto, lasciando alle imprese il tempo per adeguare le strategie di copertura e rinegoziare listini e contratti. Le pmi più strutturate, capaci di utilizzare strumenti di hedging valutario, saranno meglio posizionate per affrontare questa fase. Altro il discorso per i mercati asiatici. Il rafforzamento dello yen, unito a una possibile ripresa della domanda interna in Giappone, potrebbe rappresentare un’occasione per le imprese italiane che esportano beni di qualità e lusso, oggi maggiormente appetibili in valuta locale. Allo stesso modo, il lieve indebolimento della sterlina nel medio termine potrebbe generare un vantaggio competitivo per le aziende italiane nel Regno Unito, compensando in parte le frizioni post-Brexit. Nel complesso, lo scenario valutario atteso richiede alle pmi italiane una rinnovata attenzione alla gestione del rischio di cambio. Pianificazione, internazionalizzazione assistita e strumenti di finanza agevolata possono aiutare a mitigare gli impatti negativi e cogliere le opportunità emergenti. La volatilità contenuta non deve tradursi in inerzia: chi sa leggere i segnali dei mercati avrà un vantaggio strategico» aggiunge il vicepresidente di Unimpresa.

Secondo gli analisti del Centro studi di Unimpresa, l’elezione di Donald Trump a un secondo mandato ha contribuito a creare un contesto di debolezza strutturale, ma non drammatico, per il dollaro. Lo scenario del racconto è reso ancora più incerto dall’attacco degli Stati Uniti d’America contro l’Iran dei giorni scorsi. Le politiche fiscali e commerciali della nuova amministrazione americana hanno sollevato dubbi sulla sostenibilità macroeconomica degli Stati Uniti, con effetti sul dollaro che appaiono contenuti e destinati a manifestarsi principalmente in una dinamica laterale. In prospettiva, l’euro potrebbe beneficiare di una tassi differenziale meno penalizzante, considerando che la Bce dovrebbe terminare prima della Fed il proprio ciclo di tagli. Anche lo yen mostra segnali di rafforzamento, sostenuto dalla possibilità che la Banca del Giappone torni ad alzare i tassi. Più incerta invece la traiettoria della sterlina, che condivide alcuni driver con l’euro ma mostra segnali di fragilità nel medio periodo, soprattutto per via delle attese BoE su un’inflazione in calo.

Nel secondo trimestre dell’anno, il dollaro ha proseguito la traiettoria discendente già avviata nei primi mesi, aggiornando i minimi annuali e tornando su livelli che non si vedevano dal 2022. Tuttavia, l’andamento non è stato di indebolimento marcato, bensì di progressivo slittamento laterale con un range di oscillazione ribassato. Questa fase riflette l’impatto delle politiche economiche di Trump, in particolare sul fronte commerciale, dove l’approccio inizialmente rigido è stato seguito da fasi di ripensamento. Anche la politica fiscale ha destato perplessità, sollevando interrogativi sulla sostenibilità del debito e sulla tenuta dei conti pubblici. Il clima di incertezza genera se è riverberato a livello globale, spingendo investitori istituzionali e banche centrali a ridurre la quota di riserve denominate in dollari. La conseguente perdita di credibilità ha spezzato la tradizionale correlazione tra dollaro e rendimenti USA, indebolendo il biglietto verde. Tuttavia, l’impatto sull’economia americana appare, almeno per ora, contenuto. I dati macro restano contrastanti e compatibili con un rallentamento ordinato, con uno scenario centrale che prevede una crescita del PIL dell’1,5%-1,6%-1,9% tra il 2025 e il 2027 e un’inflazione tra il 3,0% e il 2,3%. La Fed ha mantenuto i tassi invariati al FOMC del 18 giugno, segnalando due tagli da 25 punti base entro fine anno, con un target sui Fed Funds al 4,00%. Anche se i fondamentali giustificano un ulteriore indebolimento del dollaro, buona parte di questo scenario è già scontata dai mercati, mentre lo stato di salute dell’economia americana resta più solido di quanto temuto. Per questo, è probabile che la valuta USA continui a muoversi in un range laterale, salvo nuovi shock, come quelli legati al Medio Oriente. In caso di escalation esterne, infatti, il dollaro può ancora beneficiare del suo ruolo di valuta rifugio, mentre tende a indebolirsi quando l’incertezza deriva da fattori interni, come la linea di governo americana.

L’euro ha continuato a riflettere in larga parte l’andamento del dollaro, muovendosi in apprezzamento e spostando il proprio range da 1,01–1,09 a 1,07–1,16 EUR/USD, toccando massimi che non si vedevano dal 2021. In questa fase, non sono stati i differenziali di tasso a guidare il cambio, quanto piuttosto il declino della fiducia verso gli Stati Uniti. L’euro ha quindi beneficiato dello “shift” strutturale del dollaro, mentre le oscillazioni lungo il range laterale sono determinate da sorprese macroeconomiche o dagli annunci contraddittori della Casa Bianca. Nel breve periodo, la moneta unica potrebbe subire una fase di debolezza, in un contesto europeo ancora fragile. La crescita dell’area euro è vista allo 0,9%-1,5% nel triennio 2025-2027, con un’inflazione tra il 2,1% e il 2,0%. La Bce dovrebbe effettuare un ulteriore taglio da 25 punti base nel 2025, portando il tasso sui depositi all’1,75%. Ma nel medio termine, lo scenario dovrebbe volgere a favore dell’euro: mentre la Bce chiuderà attentamente il ciclo di allentamento, la Fed potrebbe ancora muoversi, rendendo nuovamente attrattivo il differenziale per la valuta europea. Il profilo atteso per il cambio è quindi in area 1,14–1,17 EUR/USD entro un anno, con possibili estensioni fino a 1,20.

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Lo yen ha proseguito nel secondo trimestre il percorso di rafforzamento del controllo del dollaro, da un minimo di 150 a un massimo di 139 USD/JPY, per poi consolidarsi in un range laterale. I fattori alla base del rafforzamento sono stati molteplici: l’aumento dell’avversione al rischio legata alle tensioni geopolitiche (in Ucraina e Medio Oriente), ma anche la crescente divergenza di politica monetaria tra la Banca del Giappone e le altre grandi banche centrali. Dopo il primo rialzo da 0,25% a 0,50% a gennaio, la BoJ potrebbe intervenire nuovamente nel corso dell’anno, restringendo ulteriormente il differenziale di rendimento a lungo con gli Stati Uniti. Questo scenario alimenta un trend strutturale di rafforzamento dello yen, atteso su livelli di 146–138 USD/JPY entro i prossimi 12 mesi. Nel breve, tuttavia, non si esclude un momento di pausa, anche perché la riunione del 17 giugno si è chiusa senza novità sui tassi, e con un rallentamento della riduzione degli acquisti di titoli di Stato. Il governatore Ueda ha però ribadito che, se lo scenario macrogiapponese (crescita 0,5–1,0%, aumento core tra 2,0% e 2,8%) sarà confermato, ci sarà spazio per ulteriori strette. Decisiva sarà la riunione del 31 luglio, che includerà anche nuove previsioni macro. Anche contro euro, lo yen dovrebbe rafforzarsi, seppur in misura minore, dato l’atteso miglioramento del profilo EUR/USD.

Nel secondo trimestre anche la sterlina ha beneficiato dell’indebolimento del dollaro, spingendosi su un nuovo range compreso tra 1,27 e 1,36 GBP/USD. La valuta britannica ha mantenuto una discreta sensibilità ai differenziali di tasso, considerando che il livello dei tassi della BoE è molto vicino a quello della Fed (4,25% vs 4,25–4,50%). La tenuta relativa della sterlina è legata a questo allineamento e alla maggiore reattività ai dati macro. Tuttavia, la prospettiva di un taglio dei tassi da parte della BoE, atteso già ad agosto (come suggerito dalla divisione nel board della banca centrale), potrebbe indebolire la valuta nel breve termine. Le previsioni ufficiali della BoE parlano di una crescita dell’1,0–1,5% e di un’apertura in discesa, fino all’1,75% nel 2027, sotto l’obiettivo. Questo apre spazi per ulteriori tagli nel 2026, a meno di nuove sorprese. Il cambio GBP/USD è atteso in progressivo rafforzamento nel medio termine, fino a 1,37 entro un anno, mentre il controllo dell’euro potrebbe perdere leggermente terreno, con un profilo previsto in area 0,85–0,86 EUR/GBP. 

Ufficio Stampa Unimpresa
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