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così rischia di diventare una nuova bomba sanitaria


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Fumata nera nella trattativa del cosiddetto “payback sanitario”, la norma che obbliga molte imprese biomedicali, sopratutto medie e piccoli a ripianare lo sforamento del tetto sanitario delle regioni, di cui avevamo parlato in un recente dossier. Il decreto approvato nei giorni scorsi dal Consiglio dei ministri prevede lo stanziamento di 350 milioni di euro per alleggerire il peso del meccanismo, ma secondo le principali associazioni del settore rappresenta una risposta insufficiente, che rischia di penalizzare in modo irreversibile migliaia di piccole e medie imprese italiane.

La protesta delle associazioni 

Tra le voci più critiche, quella di Sveva Belviso, presidente di Fifo Sanità Confcommercio, che pur accogliendo con favore il fondo straordinario stanziato dal Governo, denuncia come il nuovo decreto ignori tre elementi fondamentali richiesti al tavolo tecnico convocato al Mef: “Il contributo economico delle Regioni, le uniche responsabili dello sforamento; la possibilità di rateizzare il pagamento per le imprese; e l’introduzione di una franchigia di 5 milioni per tutelare le PMI”. Secondo Belviso, l’assenza di queste misure rappresenta “un colpo fatale” per molte aziende, aggravato dall’obbligo di pagamento entro 30 giorni. “È inaccettabile che chi fornisce dispositivi salvavita agli ospedali rischi il fallimento per colpe che non ha”, aggiunge.

Ma le critiche non si fermano qui. Anche Conflavoro Pmi Sanità e Confapi Sanità parlano apertamente di “manovra sbilanciata” e denunciano l’assenza di misure strutturali. Nonostante il parziale sconto del 75% previsto per gli anni 2015-2018, le modalità di riscossione restano insostenibili per migliaia di piccole imprese. “Il Governo ha scelto di sacrificare il cuore produttivo del settore sull’altare delle lobby del MedTech internazionale”, afferma Gennaro Broya de Lucia, presidente di Conflavoro PMI Sanità. “Si premiano aziende con sedi fiscali all’estero e margini milionari, mentre le imprese italiane vengono spinte verso la chiusura”.

Il decreto, inoltre, non affronta la questione relativa agli anni 2019-2024, lasciando il comparto nell’incertezza. Un vuoto normativo che, secondo gli operatori, rischia di bloccare le forniture essenziali al Servizio Sanitario Nazionale.

Cos’è il payback sanitario e perché potrebbe mettere in crisi la sanità 

Il payback sanitario nasce con il governo Renzi nel 2015. Allora la parola d’ordine era “spending review” ed è stata introdotta una legge che obbliga le aziende fornitrici di dispositivi medici a rimborsare allo Stato una parte delle eccedenze di spesa sanitaria registrate da ciascuna Regione. La norma è rimasta inapplicata fino al 2022, quando il governo Draghi vara i decreti attuativi. Ed è qui che iniziano i problemi.

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Quando parliamo di dispositivi medici, ci riferiamo a risorse fondamentali senza le quali la pratica clinica in ospedali e ambulatori sarebbe impossibile: valvole cardiache, circuiti per ventilatori, protesi ortopediche, ma anche garze, mascherine, camici. Il blocco delle forniture metterebbe in crisi l’intero sistema sanitario pubblico. Il paradosso? Le regioni più “colpite” dal meccanismo del payback sanitario sono proprio quelle dove la sanità pubblica funziona meglio: Toscana, Emilia-Romagna, Veneto.

Il provvedimento ignora anche le ricadute occupazionali e produttive in un Paese che rappresenta un’eccellenza mondiale nel settore dei dispositivi medici. Basti pensare al polo biomedicale di Mirandola, nel modenese, il più importante d’Europa. E la norma colpisce in modo particolare una specifica tipologia di imprese ovvero quelle piccole e medie. Molte di loro rischiano oggi di fallire, con conseguenze difficilmente prevedibili per l’intera sanità pubblica. 

 



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