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«Cercare nuovi mercati è vitale ma adesso è più difficile»


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Tra tradizione e necessità di cambiamento, innovazione, anche tecnologica. Il mondo artigiano soffre, si ridimensiona ma, nell’attuale quadro geopolitico, cerca pure di rigenerarsi. Ma in quale direzione? E con quali strumenti? Ne parliamo con il presidente di Confartigianato, Marco Granelli, ospite oggi a Lecce per l’assemblea annuale della Confederazione salentina. Nelle sue parole, la centralità del dialogo col mondo della scuola. 

Presidente Granelli, Confartigianato lunedì scorso ha pubblicato uno studio che riflette l’impatto dei conflitti sui costi dell’energia. Che scenario si sta prospettando per le imprese? 
«Di rincaro del costo del petrolio e di tutti i suoi derivati, ma anche di calo delle esportazioni, in un periodo in cui gli affari all’estero stavano migliorando anche nel mondo artigiano. Il quadro, aggravato dalla guerra Israele-Iran, desta molte preoccupazioni. Già il fatto che se ne parli determina accorgimenti sui mercati».

In che modo Europa e Italia dovrebbero intervenire per tentare di attenuare il contraccolpo? 
«Credo che si debba continuare su un percorso che, in termini energetici, come Paese abbiamo già individuato: andare avanti nella ricerca e lo studio del nucleare pulito, in attesa che venga confermata la fattibilità rispetto alle tempistiche, e continuare a investire in rinnovabili. Sul fotovoltaico tanti nostri artigiani stanno puntando. Ma noi sosteniamo anche l’energia di prossimità: biomasse nelle zone boschive, mini-eolico nelle zone ventose e, dove possibile, il mini-idroelettrico. Per noi, diventa indispensabile che il pubblico incentivi tali investimenti. E, visto che il costo dell’energia negli ultimi 2-3 anni è praticamente triplicato, chiediamo anche l’alleggerimento degli oneri generali di sistema, che oggi gravano sulle bollette delle micro e piccole imprese».

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Nel frattempo, l’Ue – e l’Italia al suo interno – sta combattendo la “guerra” contro i dazi Usa: un accordo al 10%, come annunciato da Von der Leyen, sarebbe un buon risultato?
«Rispetto a quanto prefigurato, sì. Un 20% avrebbe significato un colpo duro sulle esportazioni italiane, che sono al top in Europa. L’importante è che il dialogo con gli Usa continui, tenendo nel frattempo conto dell’input alla diversificazione che ne deriva. Per cui, noi dovremmo anche coltivare di più altri mercati e fare politiche di maggiore aggressione commerciale, sebbene in questo momento ciò contrasti con l’attuale contesto geopolitico, caratterizzato da conflitti nei mercati potenzialmente emergenti per le nostre merci».

Intanto, il calo delle imprese artigiane è costante ormai da un po’ di anni. Il saldo è negativo anche in Puglia, dove l’artigianato è asset consolidato. In che modo vi state attrezzando per affrontare i mercati nell’ottica della accennata diversificazione? 
«Le imprese artigiane oggi stanno assumendo un modello organizzativo che le irrobustisce. Oggi passano attraverso un’organizzazione consortile che consente in certi ambiti, come quello dell’export, di mettersi assieme, razionalizzare i costi e aumentare la competitività. L’altra specificità alla quale noi non vogliamo rinunciare è la qualità. Non possiamo seguire logiche di mercato per contrapporci a prodotti a basso costo provenienti da Cina, Vietnam o Pakistan. Noi offriamo qualità, unicità e durabilità. Ma nel frattempo dobbiamo anche garantire formazione continua per affrontare le sfide del digitale e dell’intelligenza artificiale».

Anche perché, a fronte del generale aumento dell’occupazione, anche in Puglia alle imprese artigiane manca la manodopera. Come se ne esce? 
«Su un fabbisogno 520mila lavoratori nel 2024, 298mila non sono stati reperiti. Un 59%, che si concentra soprattutto nell’ambito green e digitale, quindi: muratori, idraulici, falegnami, impiantisti. La nostra battaglia oggi è questa. Il mismatch che c’è tra scuola e mondo del lavoro va risolto urgentemente, perché oggi si deve dare la possibilità ai giovani di trovare occupazione sul proprio territorio, attraverso non per forza il liceo, ma anche scuole che avvino al lavoro nelle aziende artigiane». 

Il decreto fiscale appena approvato, invece, vi aiuta? 
«Giudico positivamente il percorso iniziato con la legge delega fiscale, con riferimento alla deduzione maggiorata del 120% per le assunzioni dei lavoratori (130% per categorie svantaggiate). Bene anche la riduzione dell’Ires dal 24 al 20%: oggi vale per le società di capitali, noi vorremmo che fosse estesa alle società di persone o individuali, che sono tantissime nel nostro mondo. Buono il raggruppamento delle tre percentuali per l’Irpef. Più di tutti, chiediamo l’incentivazione per l’apprendistato, perché negli ultimi 6 anni con il contratto di apprendistato sono stati assunti 502mila giovani. Su questo occorrerebbe una decontribuzione per i primi 3 anni e un riconoscimento dei costi che comporta oggi il potere formare dei giovani. In generale, chiediamo semplificazione, sburocratizzazione e ulteriore alleggerimento della pressione fiscale». 

Anche rispetto alla carenza di manodopera che lamentava, ritiene il “fallimento” del referendum un’occasione mancata?
«Noi non siamo per guardare al passato, ma per avere delle logiche relative all’ambito del lavoro in maniera più semplificata, innovativa e sicuramente più vicina ai lavoratori, con maggiore coinvolgimento nell’attività di impresa. Tornare su temi come quelli proposti avrebbe significato creare situazioni di irrigidimento e contrapposizione che, in questo momento, non sono necessari».
 





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