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Israele-Iran, cosa succede se le élite occidentali perdono il controllo della situazione?




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Ultim’ora news 17 giugno ore 14


Con l’attacco all’Iran il governo Netanyahu cinge nuovamente a sé gli alleati occidentali. Quando, cioè, massima era la pressione internazionale per interrompere l’azione su Gaza, dal 17 al 20 giugno su iniziativa di Francia e Arabia Saudita era attesa alle Nazioni Unite una conferenza propedeutica a un nuovo round di riconoscimenti internazionali dello Stato di Palestina, il premier israeliano è riuscito a modificare in suo favore la geografia dei consensi presso le cancellerie europee.

Il collasso iraniano (o anche soltanto il forte indebolimento) preoccupano le altre potenze regionali e la Turchia più di ogni altra, che – pur non nutrendo simpatie politiche o religiose per la leadership sciita – vede nei predetti scenari una fonte di squilibrio politico e contagiosa instabilità. Un dato di cui tener conto nel lungo periodo ma anche nel breve: in Siria, infatti, Turchia e Israele sono fisicamente in campo.

Le ombre sul ruolo dell’amministrazione Trump

Chi ne esce indebolita da questa vicenda, in termini di credibilità e capitale reputazionale, è l’amministrazione Trump. La guerra che doveva terminare in 24 ore dall’insediamento del nuovo Presidente è in pieno svolgimento, Russia-Ucraina, mentre una seconda ha appena avuto inizio, Israele-Iran.

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Di quest’ultima non è ufficialmente chiaro il ruolo americano, come a volersi ricavare un margine di manovra per ogni ipotetico scenario: da mediatori a parti in causa, tutte le ipotesi sono in campo. Un’ambiguità che lascia dubbi circa l’effettiva capacità della potenza superiore del sistema internazionale di disciplinare il proprio campo e subordinare gli alleati.

Con l’occasione sembra nuovamente, peraltro, fraintesa la «logica delle autocrazie», secondo la formula utilizzata dall’ambasciatore Sequi, le quali «rispettano la fermezza e non la conciliazione» e «disprezzano la disponibilità al compromesso quando essa appare esitazione».

Questo andamento erratico, contraddittorio, accidentato, è la cifra della politica estera e commerciale di questo primissimo scorcio dell’amministrazione Trump II. Un indirizzo che preoccupa gli alleati, una parte dei quali – si veda il presidente della Francia – tende a ondeggiare al pari degli Stati Uniti, e quella fascia di potenze intermedie, che vive già con fastidio l’irreggimentazione delle relazioni internazionali perseguita dagli Stati Uniti e che si preoccupa ora per gli effetti che questa crisi può proiettare sulla loro parabola di sviluppo socioeconomica e ascesa politica.

Anche in questo frangente le élite occidentali sembrano disinteressarsi del consenso internazionale: se nel 1970 però l’Europa pesava il 40% del pil mondiale, il Nord America il 36% e l’Asia il 15%, il quadro odierno vede invece il Nord America attestarsi al 29%, l’Europa al 25% e l’Asia al 40%. L’Occidente, in altre parole, costituisce sempre meno il perno del sistema internazionale.

Doppi standard e politica di potenza

L’attacco all’Iran e le reazioni occidentali che ne sono seguite rendono inoltre evidenti i doppi standard che scandiscono il discorso pubblico internazionale. Una tendenza che raggiunge ora soglie parossistiche indebolendo la credibilità e la reputazione di questi stessi Paesi.

Il diritto internazionale, la diplomazia e il multilateralismo, lasciano, quindi, il campo alla politica di potenza pura: un dato che nella sua ruvidezza non può non essere colto dagli altri attori statuali. Resta, tuttavia, da capire se le predette élite abbiano messo in conto la possibilità che propri competitor risolvano nottetempo con la forza annose dispute territoriali di loro interesse.

In un quadro di forte incertezza, è lecito domandarsi quali benefici possono trarre da un siffatto indirizzo i singoli sistemi-Paesi e, quindi, al loro interno le forze imprenditoriali più dinamiche a livello internazionale. L’interdipendenza economica, produttiva e finanziaria, prima ancora delle comuni sfide tecnologiche, ambientali e sanitarie, pone adesso un problema funzionale non soltanto agli Stati ma anche alle imprese. Un complesso di questioni che richiede adeguati strumenti di gestione macro, basati sulla condivisione di regole, procedure e normative. Pena l’inefficienza economica e l’arbitrio politico. (riproduzione riservata)

* Political risk analyst Bistoncini Partners

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