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Stefano Lo Russo, sindaco di Torino: «Il flop del voto sulla cittadinanza? Le periferie hanno paura. Ora serve più sicurezza sociale»


di
Gabriele Guccione

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Il primo cittadino della città piemontese: «Siano i Comuni a gestire i fondi Ue. Con il Pnrr hanno dimostrato di essere le amministrazioni pubbliche più efficaci»

Il divario tra i sì per il lavoro e quelli per la cittadinanza, soprattutto nei quartieri dove vivono le persone più fragili, ci deve far riflettere profondamente». Da sempre sostenitore dello ius scholae, in una città dove un under 18 su quattro è straniero, il sindaco della città piemontese Stefano Lo Russo non si nasconde davanti alle difficoltà. Certo, a Torino il voto è andato meglio che altrove, con il 41,3% dell’affluenza e intere zone dove è stato raggiunto il quorum. Eppure, anche sotto la Mole, il referendum restituisce la fotografia di un elettorato spaccato tra diritti e questione sociale.

Sindaco Lo Russo, lei perché ha sostenuto il «sì» sulla cittadinanza?
«È un dato che il Paese sia già oggi così vecchio che senza immigrazione l’economia reale si bloccherebbe. Lo sanno bene gli imprenditori che ogni anno chiedono infatti sempre più flussi regolari. E io sono convinto che l’allargamento della cittadinanza sia un veicolo di maggiore integrazione e quindi sviluppo».




















































Un elettore del Pd su quattro non la pensa allo stesso modo. Come se lo spiega?
«Nel ceto medio sta aumentando la paura del futuro. Per questo, io credo che occorra ripartire da qui, insistendo ancora di più sulle misure di protezione e sicurezza sociale per chi non è tutelato, come i disoccupati e i lavoratori poveri, ma anche per chi sulla carta è tutelato ma assiste oggi a una precarizzazione della propria condizione».

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Lei, pur essendo un riformista, ha sposato la linea di Elly Schlein. Molti suoi compagni hanno criticato la segretaria. È il momento dell’autocritica?
«È il momento dell’unità. Una riflessione certo è d’obbligo, ma occorre insistere sui temi reali».

Quali, per esempio?
«Da sindaco, direi sanità, sicurezza sociale e periferie».

E come fare?
«Se il nostro Paese vuole dare risposta a questi problemi, deve rimettere al centro dell’agenda politica i comuni e i centri urbani: occorre un nuovo piano nazionale per le città».

Lei l’altro giorno ha partecipato, in veste di vicepresidente dell’Anci, al comitato interministeriale dove si è discusso della posizione dell’Italia sui fondi europei 2028-35. Nella bozza del governo la parola «città» non è mai citata. Come mai?
«Non saprei, ma abbiamo trovato nel ministro Tommaso Foti un interlocutore attento e disponibile, e sono convinto che le osservazioni dei Comuni italiani verranno prese in considerazione».

Teme che si vogliano estromettere le città dalla gestione diretta dei fondi europei?
«Con il Pnrr i Comuni hanno dimostrato di essere le amministrazioni pubbliche più efficaci. Le città sono disseminate di cantieri progettati e realizzati in autonomia proprio dai Comuni. Opere pubbliche che cambieranno in meglio la vita dei cittadini. Sarebbe un peccato disperdere le competenze acquisite in questi anni».

Per questo, come sindaci italiani chiedete una «Agenda per le città» stabile?
«Per la prima volta un commissario europeo, l’ex ministro e attuale vicepresidente Raffaele Fitto, ha nel proprio portafoglio una delega specifica sulle città: questo ci sembra un ottimo segnale, che indica la direzione da percorrere e il ruolo che le città devono avere nell’Europa che vogliamo».

Una gestione diretta dei fondi europei cosa vorrebbe dire per i Comuni?
«Innanzitutto, eviterebbe lunghe e inutili intermediazioni. E poi ci consentirebbe di agire dove sappiamo che serve in base alle priorità delle metropoli: dall’emergenza casa avviando nuovi grandi piani abitativi sociali, fino alla transizione ecologica e alla competitività, che richiede la creazione di nuove infrastrutture per l’innovazione».

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15 giugno 2025

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