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Egemonia israeliana | ISPI


A sentire il discorso di Benjamin Netanyahu per spiegare le ragioni dell’attacco all’Iran, un nuovo olocausto, questa volta nucleare, era imminente. Eppure, Steve Witkoff, l’inviato di Donald Trump e Abbas Araghchi, il ministro degli Esteri iraniano avevano fissato di rivedersi domani in Oman, per affrontare gli ostacoli non insuperabili del loro negoziato.

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Perché dunque Israele ha bombardato l’Iran? Per evitare un nuovo olocausto ebraico o impedire un accordo sul programma nucleare di Teheran, che avrebbe reso insostenibile la soluzione militare alla quale Netanyahu pensava da anni?

L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 ha scatenato forze e messo in moto dinamiche pericolose. Per quanto inaccettabile, quel massacro ha riproposto alla comunità internazionale la questione palestinese. Prima di quella giornata sanguinosa ce ne eravamo tutti dimenticati. Israeliani e arabi per primi. Ora per tutti la soluzione del problema è la chiave della pacificazione regionale. Per Israele, invece, uno stato palestinese è una minaccia alla sua sicurezza.

Per questo gli israeliani hanno iniziato la guerra nella Striscia con spirito di vendetta e senza un obiettivo politico che non sia l’eliminazione di una Gaza palestinese. Con questo spirito già prima il governo Netanyahu aveva incominciato a condurre nuove operazioni militari in Cisgiordania. Più tardi, sarebbe incominciato anche l’attacco nel Sud del Libano.

Quindi l’Iran: nell’aprile dell’anno scorso Israele aveva bombardato l’ambasciata iraniana a Damasco, uccidendo due generali. La risposta iraniana era stato il bombardamento delle alture del Golan. In autunno gli israeliani hanno poi ucciso a Teheran un capo di Hamas e a Beirut il leader di Hezbollah. La nuova risposta iraniana era stata più dimostrativa che efficace, come la contro-risposta israeliana. Una inutile tauromachia che però aveva rivelato il gap militare e tecnologico fra un debole Iran e un Israele sempre più potente.

L’indebolimento dell’Iran e l’eliminazione dei vertici di Hezbollah, il suo alleato sciita libanese, avevano contribuito al repentino crollo del regime siriano. Israele ne ha approfittato per impossessarsi di altri territori nel Sud della Siria, oltre al Golan già occupato e annesso.

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La sconfitta di Hezbollah e l’isolamento dell’Iran sono innegabili successi. Ma, sommate, la postura e l’operato d’Israele in questi due anni, ne hanno fatto la potenza egemone della regione fra il Mediterraneo e il Golfo. Non è un investimento sulla stabilità dell’area: la forza predominante d’Israele non la gradiscono la Turchia e ancor meno il mondo arabo sunnita che pure aveva beneficiato dell’indebolimento dell’asse sciita.

L’Arabia Saudita, sempre più leader del mondo arabo, aveva altri progetti: non solo un riconoscimento d’Israele, ora di nuovo impensabile. Dopo aver commesso drammatici errori, Mohammed bin Salman, il principe ereditario ma già padrone del regno, sta ricostruendo il paese con riforme sociali e costosissimi investimenti strutturali. Il suo successo dipende dalla stabilità della regione che il giovane Mohammed ha già avviato con strumenti diversi da quelli israeliani. L’Iran non è più un nemico: le relazioni sono aperte e costruttive. I sauditi hanno anche proposto una soluzione dell’ostacolo principale nella trattativa che gli Usa conducono sul nucleare iraniano: l’uranio e il suo arricchimento. L’Arabia ha offerto di gestire con gli iraniani sia la produzione che il controllo dell’arricchimento.

Indebolendo l’Iran, Israele ha favorito tutto questo. Bombardandolo di nuovo, mette in pericolo la stabilità della regione. “Questo è solo l’inizio”, commentava ieri l’INSS, l’Istituto israeliano per la sicurezza: i suoi esperti sono generali in pensione, ex capi del Mossad e dello Shin Bet. Aspettando la risposta dei missili iraniani ai quali seguiranno altri missili israeliani, il pericolo è che Netanyahu si convinca di poter cambiare il regime a Teheran. Sarebbe una guerra senza fine.



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