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Apple in ritardo sull’AI, ma è la sola a credere a privacy e affidabilità


Nel giugno 2024, Apple annunciava una svolta, “Apple Intelligence” avrebbe integrato l’AI generativa nei suoi dispositivi, rendendo Siri davvero utile e trasformando l’esperienza utente.

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L’azienda ha mostrato come Siri fosse in grado di cercare tra le app per dirti quando andare a prendere tua madre all’aeroporto. Lo spot, con la partecipazione dell’attrice di “Last of Us” Bella Ramsey, ha mostrato la possibilità di chiedere a Siri di ricordarci il nome di una persona incontrata qualche settimana prima.

Apple Intelligence, che è successo

Apple non ha mai lanciato Siri intelligente, ha bloccato lo spot, ha subito class action di clienti infuriati per non avere trovato quest’innovazione nell’iPhone.

Ora si apprende che la funzione esisteva ma “non ha raggiunto il livello di qualità che ci serviva”, ha detto Apple. Siamo ancora in questa fase, come confermato dalla conferenza sviluppatori Apple WWDC 2025 questa settimana. Niente Siri intelligente, se ne riparlerà – dice l’azienda – l’anno prossimo. I concorrenti corrono (Google, Meta, Microsoft), mentre Apple resta ancorata a un modello chiuso, device-centrico, che fatica a reggere la velocità della trasformazione AI. I vertici difendono la scelta di procedere con cautela, ma gli investitori iniziano a dubitare.

La privacy dell’intelligenza artificiale Apple, rispetto dei dati utente

Ed è un peccato non solo per Apple. La sua visione infatti era alternativa a quella dei campioni AI e molto basata su privacy, tutela dei dati dell’utente, perché AI integrata nello smartphone.

Il piano, annunciato lo scorso anno, prevedeva infatti l’implementazione del modello di IA proprietario dell’azienda direttamente sui dispositivi degli utenti, dove avrebbe potuto accedere ai dati personali (come e-mail, messaggi e calendari) per rispondere alle domande ed eseguire attività, senza compromettere la privacy.

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Il problema è che questo non sembra funzionare: un modello di piccole dimensioni in esecuzione su uno smartphone non può competere con uno molto più potente in esecuzione nel cloud. Nemmeno gli attuali dispositivi di varie aziende – pc e non solo – con AI integrata stanno vendendo bene.

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Gli investitori sono sempre più impazienti.

Nel giugno 2024, l’annuncio di “Apple Intelligence” aveva portato il valore azionario di Apple a crescere di oltre 200 miliardi di dollari in un solo giorno. Si prometteva una Siri rinnovata, più intelligente, capace di interagire con il contesto d’uso dell’utente. Dodici mesi dopo, molte funzionalità chiave non sono mai state rilasciate. Il mercato ha reagito con una crescente disillusione. Nel 2025 il titolo Apple ha perso quasi il 20%, sottoperformando rispetto a Google, Microsoft, Amazon e Meta.

Ma più che una corsa da vincere a ogni curva, l’intelligenza artificiale potrebbe assomigliare a una maratona. Il ritardo iniziale di Apple, se accompagnato da una strategia solida e sostenibile, potrebbe non compromettere il traguardo.

Un modello orientato ai dispositivi

I motivi del ritardo sono numerosi. Uno è legato alla scelta privacy-oriented, appunto.

A differenza dei concorrenti che distribuiscono l’AI via servizi cloud, Apple continua a legare la propria strategia AI ai dispositivi fisici.

Questo approccio “on-device” si caratterizza per un’integrazione più stretta con l’hardware (tipica del mondo Apple e finora garanzia di qualità, affidabilità), una maggiore tutela della privacy e una gestione distribuita dell’elaborazione, che riduce la dipendenza da infrastrutture esterne e minimizza l’invio di dati personali ai server.

Questa scelta si inserisce in una visione strategica differente rispetto ai colossi del cloud. Mentre Google, Microsoft e Meta puntano su modelli centralizzati, Apple scommette su un’intelligenza artificiale diffusa, accessibile localmente e potenzialmente più sostenibile sul piano energetico.

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Questa opzione genera compromessi importanti, modelli meno complessi, limiti di memoria e potenza computazionale e la necessità di collaborazioni per integrare funzionalità avanzate, come evidenziato dall’accordo con OpenAI per l’uso di ChatGPT.

Come sottolinea Ben Thompson di Stratechery, una newsletter, santificare la privacy dei dati dei propri utenti è stata una virtù facile da difendere per Apple perché fino a poco tempo fa non aveva un’attività pubblicitaria di rilievo.

Tuttavia, nell’era dell’intelligenza artificiale, dare priorità alla privacy presenta degli svantaggi.

  • In primo luogo, la riluttanza di Apple a raccogliere le informazioni individuali dei clienti rende più difficile addestrare modelli di intelligenza artificiale personalizzati. Apple utilizza quella che chiama “privacy differenziale” basata su informazioni aggregate, piuttosto che sui dati ricchi e granulari raccolti da aziende come Google.
  • In secondo luogo, la privacy l’ha incoraggiata a dare priorità all’IA che funziona sui propri dispositivi, piuttosto che investire in infrastrutture cloud. I chatbot hanno fatto progressi più rapidi nel cloud perché i modelli possono essere più grandi (il che ha persino portato Apple a offrire ad alcuni utenti di Apple Intelligence la possibilità di optare per ChatGPT).

In prospettiva, se la traiettoria dei costi energetici e infrastrutturali continuerà a salire, un ritorno all’elaborazione distribuita, o un’integrazione ibrida tra cloud e on-device, potrebbe rivelarsi non solo una soluzione tecnica, ma anche una necessità economica e geopolitica. In questo scenario, Apple potrebbe trovarsi in una posizione di vantaggio, avendo già investito da tempo in questa direzione.

L’ossessione per la qualità Apple

In più, molti notano come l’ossessione per la qualità che da sempre caratterizza Apple sia proprio agli antipodi rispetto all’attuale intelligenza artificiale generativa.

Mentre aziende come OpenAI, Google, Meta e Microsoft rilasciano con ritmo serrato nuovi modelli, funzioni e applicazioni AI — anche in fase sperimentale o ancora grezza — Apple mantiene un approccio estremamente prudente. Nasce da una cultura aziendale che antepone l’affidabilità, la privacy e l’integrazione perfetta con l’ecosistema a qualsiasi vantaggio di “first mover”.

Apple storicamente non è mai stata la prima a introdurre nuove tecnologie (smartphone touchscreen, smartwatch, pagamenti NFC), ma ha sempre cercato di farlo “meglio”, in modo più rifinito e user-friendly. Anche sull’AI, l’azienda sembra voler arrivare sul mercato solo quando le sue soluzioni saranno perfettamente integrate, sicure e in linea con la propria visione.

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Rilasciare un’AI che genera errori imbarazzanti, contenuti inappropriati o bug potrebbe minare la fiducia costruita da Apple negli anni. A differenza di altri big tech, che possono permettersi una fase di “beta pubblica” (vedi Bard di Google o Copilot di Microsoft), Apple preferisce evitare il rilascio di prodotti non perfettamente testati.

Anche in questo caso, come per la privacy, l’eventuale successo di Apple potrebbe essere positivo per tutti: per favorire la venuta di un’AI forse più limitata ma più affidabile in quello che fa. Bene sperarci.

La promessa mancata di Siri intelligente

Così arriviamo all’attuale situazione.

Siri avrebbe dovuto essere la punta di diamante della rivoluzione AI targata Apple. Ma l’assistente vocale resta poco evoluto rispetto a Gemini (Google) o agli agenti conversazionali integrati da Microsoft. La pubblicità che mostrava Siri suggerire il nome di una persona o analizzare i messaggi in tempo reale è stata ritirata. Gli utenti non hanno mai visto queste funzioni operative.

La percezione di una promessa mancata non nasce solo dal confronto tecnico, ma anche dall’aspettativa di coerenza con lo standard qualitativo Apple. Siri, al contrario, sembra rappresentare il punto in cui la visione AI dell’azienda si scontra con la complessità dell’esecuzione. È qui che emerge un nodo culturale e strategico: Apple può ancora permettersi di trattare l’assistente vocale come un’estensione minore del sistema operativo, mentre i competitor lo elevano a snodo centrale dell’interazione? Se l’AI sarà davvero una piattaforma trasversale e ubiqua, la voce e l’agente che la incarna, potrebbe diventare il principale punto di accesso. Non investire pienamente su Siri potrebbe significare cedere agli altri l’interfaccia del futuro.

Le difese di Apple. “Lavoriamo a una Siri da zero”

In un’intervista esclusiva al WSJ, Craig Federighi e Greg Joswiak difendono l’approccio scelto: l’AI integrata nei sistemi operativi, non un chatbot a sé. Federighi rivela che Siri è in fase di completa ricostruzione. Ammette che alcune funzionalità mostrate erano reali, ma non pronte per uno standard qualitativo Apple. Gli executive sottolineano come l’obiettivo non sia stupire con interfacce vistose, ma costruire un’integrazione profonda e invisibile tra AI e sistema operativo. L’AI, secondo la visione di Cupertino, dovrebbe “funzionare dietro le quinte”, migliorando l’esperienza dell’utente in modo fluido, senza imporsi come entità separata.

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La prudenza di Apple, spesso percepita come immobilismo, si basa invece su un principio consolidato nella cultura aziendale: rilasciare solo ciò che è ritenuto all’altezza dell’ecosistema Apple. Questo approccio, sebbene meno spettacolare nel breve, punta a costruire fiducia nel lungo periodo. Resta però da capire se in un contesto di rapida evoluzione come quello dell’AI generativa, il tempo sarà alleato o nemico.

Rischi strategici: la Cina, Google, l’Antitrust

Si aggiungono rischi economici e geopolitici, la guerra commerciale di Trump potrebbe colpire duramente la supply chain in Cina, dove ancora si concentra una parte rilevante della produzione e dell’assemblaggio finale dei dispositivi Apple. Anche se Apple ha avviato un parziale decentramento verso l’India e altri Paesi asiatici, il baricentro operativo e logistico resta radicato nel territorio cinese, con tutte le fragilità che questo comporta in un’epoca di instabilità commerciale e diplomatica.

In parallelo, Apple rischia di vedere messo in discussione uno dei suoi accordi più redditizi, quello con Google per mantenere il motore di ricerca predefinito su Safari. Un possibile blocco dei pagamenti, valutati intorno ai 20 miliardi di dollari annui, comprometterebbe una delle principali voci di entrata della divisione “services”. A questo si sommano le pressioni normative dell’Unione Europea sull’App Store, con la concreta possibilità che gli sviluppatori vengano autorizzati a reindirizzare i clienti su canali alternativi, erodendo ulteriormente i margini garantiti dalle commissioni sulle app.

Si tratta di rischi che mettono sotto stress proprio la parte più resiliente del modello Apple degli ultimi anni, quella basata sui servizi digitali a elevato margine. Se anche questa componente dovesse entrare in crisi, la necessità di un ripensamento complessivo diventerebbe ancora più urgente.

Prospettive: fare la fine di Nokia?

Alcuni analisti paragonano la traiettoria attuale di Apple a quella di Nokia o General Electric, aziende che hanno brillato finché un cambio di paradigma non le ha travolte. La questione, oggi, non è solo tecnologica ma strategica, come evitare di rimanere rilevanti solo per inerzia, in un contesto in cui le traiettorie evolutive dell’intelligenza artificiale potrebbero riscrivere tutte le regole del gioco? Apple dovrà non solo aggiornare Siri, ma anche rivedere il proprio modello di innovazione, più apertura, più infrastruttura, meno dogmatismo.

Questo significa, da un lato, considerare forme più flessibili di collaborazione con altri player dell’ecosistema AI; dall’altro, affrontare il paradosso della privacy come asset che può diventare vincolo, soprattutto quando impedisce di costruire modelli realmente personalizzati. La forza di Apple sta nel suo ecosistema, nella fedeltà degli utenti e nel controllo verticale della filiera. Ma questi vantaggi non possono essere statici, devono essere rinegoziati alla luce di una tecnologia, l’AI generativa, che cresce per intensità, complessità e impatto economico.

Maratona AI e sostenibilità. Un cambio di paradigma possibile?

Nel dibattito sull’AI, si è imposta una retorica da Gran Premio, chi arriva primo domina il mercato. Ma forse la vera metafora è quella della maratona. Il futuro dell’intelligenza artificiale sarà determinato non solo dalla velocità, ma dalla sostenibilità tecnica, energetica ed economica dei modelli. Le attuali architetture basate su transformer, e i servizi AI cloud come ChatGPT, Gemini e Claude, sono già utilizzati, direttamente o tramite integrazioni, da oltre un miliardo di utenti a livello globale. Ma i costi energetici e infrastrutturali sono enormi e in crescita. I loro modelli di business, fortemente sussidiati, potrebbero non reggere nel medio termine. Apple, con il suo focus sull’on-device AI, potrebbe risultare meno brillante nel breve, ma più solida nel lungo periodo. Modelli chiusi, ottimizzati per i dispositivi e una strategia distribuita potrebbero rappresentare l’unica alternativa praticabile, a meno che non emergano architetture radicalmente diverse da quella transformer.

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Oltre la narrativa del ritardo

Il rallentamento di Apple nell’adottare soluzioni AI più visibili e mainstream non va letto solo come una debolezza, ma come la manifestazione di una strategia alternativa, coerente con la sua identità. La sfida non è inseguire l’ultima moda tecnologica, ma riformulare il proprio ruolo in un’epoca in cui l’intelligenza artificiale evolve da funzione accessoria a piattaforma abilitante.

Apple non è chiamata a rinunciare alla sua visione, fondata su privacy, integrazione verticale, qualità del prodotto e del design, ma a trovare il modo di esprimerla nell’era dell’AI generativa. L’azienda ha già dimostrato, in altri momenti della sua storia, che arrivare dopo non significa arrivare tardi. La questione oggi non è decidere se cambiare natura, ma come valorizzarla dentro un paradigma che cambia.



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