In un’economia post-industriale attraversata da crisi ricorrenti, transizioni demografiche e sfide ambientali, l’imprenditoria femminile si configura come una leva strategica per promuovere modelli di sviluppo più inclusivi, sostenibili e partecipativi. Le donne che fanno impresa non si limitano a generare valore economico in senso stretto, ma spesso reinterpretano l’attività imprenditoriale come pratica relazionale e rigenerativa, capace di saldare bisogni sociali, legami comunitari e innovazione.
Come rilevato nel rapporto su immigrazione e imprenditoria nel 2024, curato dal Centro studi e ricerche immigrazione dossier statistiche (Idos) in collaborazione con la Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa (Cna), le imprese femminili tendono infatti a investire nella dimensione territoriale e a costruire reti di prossimità, con ricadute significative in termini di coesione sociale e partecipazione locale.
All’interno di questa cornice, l’imprenditoria femminile delle immigrate assume un ruolo particolarmente rilevante e, al contempo, poco esplorato nelle sue implicazioni teoriche e sistemiche. Si tratta di un fenomeno complesso e stratificato che mette in discussione l’immagine tradizionale dell’imprenditore come soggetto maschile, autoctono e culturalmente neutro.
L’approccio analitico dominante ha a lungo trattato le dimensioni del genere e dell’appartenenza etnica come sfere disgiunte, riproducendo un impianto dicotomico che esclude dalla riflessione le figure ibride, marginali o non conformi ai modelli dominanti. Tale separazione non è neutra: essa rispecchia una genealogia teorica e politica che ha storicamente invisibilizzato le pratiche economiche delle donne migranti, relegandole al margine o descrivendole secondo narrazioni di ripiego e adattamento.
Si impone un cambio di paradigma: riconoscere le donne immigrate come soggetti economici a pieno titolo significa riconsiderare i fondamenti teorici dell’imprenditorialità, valorizzando i percorsi che intrecciano mobilità, cura, resilienza e agency femminile. In questo senso, l’imprenditoria delle donne migranti non è solo una strategia individuale di inserimento socioeconomico, ma un fenomeno strutturale che contribuisce alla riconfigurazione dei mercati locali, delle identità produttive e dei rapporti di genere.
I dati più recenti confermano la rilevanza crescente di questa componente. Tra il 2013 e il 2023, le imprese guidate da donne nate all’estero sono aumentate del 37,8%, passando da 117.703 a 162.245 unità, a fronte di una riduzione del 7,3% del complesso delle imprese femminili, che riflette un calo ancora più marcato (–11,4%) tra quelle gestite da donne italiane. Ne risulta una crescita della quota di imprese femminili straniere sul totale, che sale dall’8,2% al 12,2%. In un contesto di contrazione generale dell’imprenditorialità, questa dinamica controcorrente segnala l’emergere di nuove soggettività economiche capaci di rigenerare il tessuto produttivo, anche in territori periferici o in comparti in crisi.
Questo fenomeno si colloca all’interno di una trasformazione più ampia: l’Italia vive oggi una crisi demografica strutturale, con un calo della natalità, l’invecchiamento della popolazione e una marcata difficoltà di ricambio generazionale nei settori produttivi. In questo scenario, l’imprenditoria migrante, e in particolare quella femminile, non può più essere interpretata come risposta individuale a una carenza di alternative, ma come espressione di una forza endogena di cambiamento, capace di rinnovare pratiche, valori e modelli organizzativi.
Se l’imprenditoria migrante nel suo insieme ha registrato un incremento del 32,7% nell’ultimo decennio (con oltre 660.000 imprese condotte da persone nate all’estero), è nell’universo femminile che si manifestano le potenzialità più innovative. Le donne migranti, pur affrontando ostacoli specifici – barriere linguistiche, accesso limitato al credito, scarsa valorizzazione delle competenze, vincoli familiari e discriminazioni multiple – costruiscono traiettorie imprenditoriali che sfidano la segmentazione etnica e di genere del mercato del lavoro, rivendicando spazi di autonomia e riconoscimento sociale.
L’autoimpiego si presenta, per molte di loro, come uno strumento per uscire dalla condizione di subalternità e precarietà che caratterizza frequentemente l’inserimento occupazionale nei settori a basso valore aggiunto. Ma è anche una modalità per conciliare vita professionale e responsabilità di cura, per esprimere competenze spesso invisibili nei canali formali e per costruire reti transnazionali che connettono esperienze e risorse al di là dei confini nazionali.
La composizione settoriale delle imprese femminili immigrate riflette, inoltre, un’evoluzione significativa. Se il commercio resta il comparto prevalente (quasi 49.000 imprese, pari al 30% del totale delle imprese con imprenditrici migranti), la sua incidenza relativa è in calo. Crescono invece ristorazione e ospitalità (+52,5%), servizi alla persona (+101,6%), attività immobiliari (+70,3%), sanità e assistenza sociale (+75,3%), istruzione (+66,5%) e professioni tecniche e scientifiche (+69,1%). Questa diversificazione segnala un passaggio da modelli imprenditoriali legati alla sopravvivenza verso forme di impresa orientate alla qualità, alla specializzazione e all’innovazione sociale.
Un esempio emblematico di questa trasformazione è offerto dalle imprenditrici ucraine. In seguito all’invasione russa del 2022, l’Italia ha accolto un numero crescente di donne in fuga dal conflitto. Tra il 2013 e il 2023, le imprese individuali guidate da donne ucraine sono cresciute di oltre il 60%, una performance superiore alla già notevole media dell’imprenditoria femminile delle immigrate. Queste storie, emerse nel Rapporto immigrazione e imprenditoria 2024, mostrano con chiarezza come le migrazioni forzate, se sostenute da politiche inclusive e percorsi di empowerment, possano generare nuove geografie dell’inclusione e dell’autonomia.
Superare la retorica emergenziale con cui troppo spesso si affrontano i temi migratori significa riconoscere il potenziale trasformativo delle donne migranti come soggetti attivi e plurali. Le loro imprese non sono semplicemente una risposta adattiva, ma vere e proprie forme di agency collettiva e intersezionale, capaci di ridefinire i confini tra produzione economica, responsabilità sociale e cittadinanza.
In un contesto in cui l’imprenditoria femminile autoctona appare stagnante e le giovani generazioni esitano ad avviare percorsi autonomi, le donne immigrate portano con sé non solo nuove energie, ma anche visioni alternative dell’agire economico, intrecciate a esperienze diasporiche, solidarietà intergenerazionali e conoscenze ibride.
Resta aperta, tuttavia, la questione dell’equità. Perché l’imprenditoria femminile straniera possa consolidarsi come motore di sviluppo endogeno, è necessario un intervento politico strutturato: accesso facilitato al credito, semplificazione normativa, programmi di mentoring interculturale, valorizzazione delle competenze formali e informali. Ma, soprattutto, è indispensabile promuovere un mutamento culturale che infranga gli stereotipi e rimuova le barriere simboliche che ancora ostacolano l’emersione piena di queste esperienze.
Solo a queste condizioni sarà possibile riconoscere, sostenere e amplificare il contributo delle imprenditrici immigrate alla rigenerazione dell’economia italiana e alla costruzione di un futuro più equo e plurale.
Riferimenti
Idos-Cna, Rapporto immigrazione e imprenditoria 2024, Edizioni Idos, 2025
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