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Come gestire l’immigrazione? Definendo politiche lungimiranti e superando i falsi miti


“Gli immigrati ormai sono sempre di più, così tanti che stanno invadendo il nostro Paese. Inoltre, ci stanno anche togliendo il lavoro e pesano sulla nostra economia. Senza considerare che non vogliono nemmeno integrarsi”. Questo è ciò che molti italiani e molti europei pensano, e non a caso il tema della gestione dell’immigrazione e degli immigrati è al centro del dibattito politico in molti Paesi, senza parlare delle violenze che si verificano in alcuni di essi, a partire dagli Stati Uniti e dall’Irlanda. Anche i risultati del referendum abrogativo dell’8-9 giugno sulla cittadinanza richiedono una riflessione sul tema dell’integrazione degli immigrati nel nostro Paese e sulla nostra volontà di accoglierli. Una questione che andrebbe affrontata definendo una nuova visione e superando alcuni falsi miti.

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Innanzitutto, ma quanti sono? Secondo i dati Istat, in Italia risultano regolarmente residenti circa 5,4 milioni di cittadini stranieri, ovvero il 9,2% della popolazione, che si trovano soprattutto al Nord, con una forte concentrazione nelle città e specialmente in alcuni quartieri periferici. Gli sbarchi nel 2024 sono stati circa 66mila, in netto calo rispetto al 2023 (157mila). Ma se si chiede a chi vive in Italia una stima di questi dati il risultato è del tutto “sballato”: ad esempio, secondo un sondaggio Ipsos gli italiani sono convinti che il 31% dei residenti in Italia sia straniero.  Se poi andiamo a guardare i valori assoluti, secondo Euronews il maggior numero di persone nate all’estero che vivono nei Paesi dell’Ue si trova in Germania (16,9 milioni di persone), Francia (9,3 milioni) e Spagna (8,8 milioni).

In breve, non possiamo parlare di “invasione”, anche perché il termine richiama l’ingresso volontario con la forza di un nemico, mentre, analizzando le principali cause per cui le persone si spostano, vediamo che i migranti politici lo fanno a causa di condizioni del proprio Paese non sicure, soprattutto sotto Stati oppressivi, con assenza di diritti politici, limitazioni della libertà, violenze, guerre e persecuzioni; i migranti economici sono mossi dalla ricerca di migliori opportunità di lavoro o di un migliore tenore di vita; mentre i migranti climatici o ambientali si spostano per via di disastri “naturali” legati in gran parte al cambiamento climatico. Semplificando al massimo, i primi sono protetti dal diritto internazionale, mentre i secondi e i terzi non sono titolari di particolari tutele e riconoscimenti, a meno che non si muovano secondo le regole stabilite dai vari Paesi nell’ambito di quella che viene normalmente denominata “immigrazione regolare”.  

Il Global compact for migration, il Patto globale promosso dall’Onu per una migrazione sicura, ordinata e regolare è un Trattato non vincolante che rappresenta una cornice di riferimento per la collaborazione internazionale in materia. L’Italia nel 2018 non lo ha firmato (168 Paesi sì) e ancora oggi non ha aderito, né sembra che il tema sia presente nell’agenda politica del nostro Paese. Forse bisognerebbe avviare una riflessione in materia, anche perché i migranti climatici sono destinati ad aumentare, nonostante l’accelerazione dello sviluppo economico del continente africano: secondo le stime delle organizzazioni internazionali, entro il 2050 oltre 200 milioni di persone potrebbero diventare rifugiati ambientali. Il loro status, dunque, non può più non essere riconosciuto. Pensiamolo per loro oggi, ma interroghiamoci anche per il nostro futuro: e se un giorno fossimo noi italiani i migranti climatici? Come vorremmo essere accolti? Il Mediterraneo è una delle aree mondiali più esposte al riscaldamento globale e il nostro Paese è al centro di questo hotspot climatico, con previsioni entro il 2050 di ulteriori aumenti di temperature, bombe d’acqua, innalzamento del livello del mare, siccità (qui un focus sul tema da FUTURAnetwork). Insomma, lo stesso futuro degli italiani è in gioco ed è grigio, anche perché i disastri climatici vogliono dire anche disastri economici. E per questo dobbiamo agire ora per scongiurare i danni derivanti dall’inazione e accelerare sulla transizione ecologica, che conviene al Paese, come raccontiamo nel Rapporto ASviS “Scenari per l’Italia al 2035 e al 2050”.

Andiamo ora al tema lavoro e al mito secondo cui i migranti lo rubano ai “nativi” e sovraccaricano i sistemi di welfare. L’analisi del Mixed migration review mostra come in molti Paesi gli immigrati contribuiscano significativamente al sistema fiscale: ad esempio, nel Regno Unito il loro contributo eccede di 20 miliardi di sterline l’ammontare dei benefici ricevuti nell’ultimo decennio; in Germania, il 70% dei lavoratori nel settore della cura degli anziani sono migranti, un settore che altrimenti soffrirebbe di gravi carenze di manodopera, e lo stesso si verifica in diversi altri Paesi europei.

Anche in Italia il contributo dei migranti è fondamentale per diversi motivi. Primo, italiani e migranti non competono di solito per lo stesso lavoro – come nel caso di badanti e colf, ma anche in agricoltura ed edilizia, che gli italiani sono restii a svolgere -, diversamente il mismatch tra domanda e offerta di lavoro diventerebbe ancora più grave rispetto a quello che le associazioni imprenditoriali segnalano in continuazione. Secondo, anche in Italia i migranti contribuiscono al sistema previdenziale versando più contributi di quanto ricevano in prestazioni. Terzo, in un Paese con evidente carenza di giovani e una popolazione sempre più anziana è necessario attirare e trattenere forza lavoro giovane in grado di sostenere il nostro sistema economico e sociale.

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L’età mediana in Africa (il continente dove la popolazione continuerà a crescere nei prossimi decenni) è di 19 anni, in Europa di 44, in Italia addirittura di 48. È evidente come per garantire sviluppo e welfare sostenibili sia vitale dotarsi di politiche lungimiranti di immigrazione e integrazione, come suggerito recentemente anche dalla Commissione europea nelle sue Country Specific Recommendations. Come già notato, l’integrazione dei migranti nei tessuti sociali nazionali non è un problema solo italiano e per questo motivo andrebbe affrontato insieme ai partner europei. Alcuni strumenti già ci sono, come il Piano d’azione dell’Ue contro il traffico dei migranti 2021-2025 o il punto dedicato all’interno del programma della presidenza ungherese al Consiglio Ue, ma soprattutto il previsto Patto europeo sulla migrazione e l’asilo che entrerà in vigore nel 2026.

Un elemento indispensabile per l’integrazione è rappresentato dalla questione della cittadinanza. Diventare cittadine e cittadini di un Paese, infatti, vuol dire poter votare, partecipare a concorsi pubblici per alcuni profili professionali, poter ottenere incarichi pubblici, potersi muovere liberamente nei Paesi dell’Ue, poter partecipare ai programmi Erasmus+, ecc. Il referendum dell’8 e 9 giugno includeva il quesito riguardante il dimezzamento (da 10 a 5 anni) dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza. Al di là del fatto che l’Italia è tra i Paesi Ue con i tempi più lunghi per chiedere la cittadinanza, se per i quattro quesiti sul lavoro i sì sono stati l’87-89%, per la cittadinanza essi hanno rappresentato il 65,3%, il che vuol dire che anche nell’ambito delle forze politiche che si sono schierate a favore dei referendum, una quota significativa di persone ha espresso un parere negativo sulla materia.

Al di là del fallimento dei referendum per mancanza del quorum, resta la necessità di rispondere a quesiti cruciali per il nostro Paese: quanti migranti siamo in grado di accogliere da qui ai prossimi 20 anni: Come accoglierli adeguatamente? Come gestire coloro i quali non vengono accolti? Come gestire nel lungo termine la pressione dei migranti climatici? Proprio per provare a costruire una visione comune sul tema, il 24 giugno il Forum del Terzo Settore organizza l’evento “Migrazioni, Diritti, Inclusione: un’agenda condivisa per l’Italia che cambia”. Una mattinata di confronto sul tema dell’integrazione dei migranti, per fare il punto su strategie inclusive e sostenibili insieme a rappresentanti delle istituzioni, esperti, reti civiche e attivisti.

E allora possiamo continuare a rimandare la discussione necessaria per trovare soluzioni comuni, oppure possiamo affrontare il tema con serietà, responsabilità e uno sguardo nuovo, in grado di vedere nell’altro non una minaccia ma un’opportunità per l’Italia e l’Europa. Possiamo iniziare a governare le migrazioni con intelligenza, visione e giustizia, per costruire una società aperta, inclusiva, umana. Un’Italia all’altezza delle sfide del nostro tempo.

 

Copertina: Ansa



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