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l’Italia è incapace di trattenere i suoi ricercatori


Chi ha iniziato un percorso nella ricerca non ha alcuna garanzia di farlo per sempre. Sebbene negli atenei ci sia carenza di docenti di ruolo, la stabilizzazione dei precari non arriverà per mancanza di fondi e di efficaci politiche di reclutamento. Il definanziamento colpisce anche gli enti pubblici. E le aziende private, che rappresentano la fonte di investimento maggiore nel settore, non hanno posto per tutti. Così, per molti e molte, la soluzione resta andare via

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Poche alternative, scarsa valorizzazione e condizioni economiche inadeguate: l’Italia è incapace di trattenere i propri ricercatori. Mentre la ricerca pubblica continua a vivere di precariato e instabilità, il settore privato non offre opportunità migliori. Per molti e molte la soluzione resta quella di andare via.

IN UNIVERSITA’ NON C’E’ POSTO PER TUTT*

Già nel 2018 l’Istat rilevava che solo un dottorando su dieci rimaneva nel mondo accademico e otteneva una posizione come docente universitario. Poco è cambiato oggi rispetto ad allora. I dati Mur-Cineca al 2023 dicono che negli atenei statali ci sono 44.705 docenti di ruolo, di cui 4.489 ricercatori a tempo indeterminato. I ricercatori a tempo determinato sono 14.958, i docenti a contratto 22.250 e gli assegnisti 15.133. I dottorandi 44.482.

Bisogna considerare però che nell’ultimo anno le posizioni precarie sono aumentate, per effetto dei contratti e delle borse di ricerca attivati con i fondi PNRR. E sebbene negli atenei ci sia una carenza del personale docente di ruolo, la stabilizzazione dei precari, rivendicata da tempo da associazioni e sindacati, non arriverà, per la mancanza di efficaci politiche di reclutamento – che proprio in queste settimane sono oggetto di dibattito – e dei fondi necessari.

Il definanziamento colpisce anche gli istituti e gli enti di ricerca pubblici, come il CNR, che soffrono pressoché gli stessi problemi: condizioni precarie, carriere instabili. E opportunità limitate. Significa che chi ha iniziato un percorso nella ricerca non ha alcuna garanzia, neanche dopo anni, che il suo posto diventi stabile.

Il risultato è che sempre di più l’accesso a una carriera accademica sarà competitivo e dipenderà dalle possibilità economiche del singolo. A questo punto, sarà lecito chiedersi quali alternative esistano in Italia per un ricercatore o una ricercatrice che lascia l’università. E se le aziende, principali promotrici della ricerca oggi, offrono delle opportunità.

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NEANCHE IN AZIENDA C’E’ POSTO PER TUTT*

Seguendo l’andamento generale degli ultimi anni, anche in Italia, che investe poco nella ricerca (1,31 per cento del Pil, contro una media Ue del 2,2 per cento), sono le aziende private a rappresentare la fonte di investimento maggiore.

Sui 27.286 miliardi investiti in “Ricerca e sviluppo” nel 2022, 16.270 miliardi provengono dalle imprese. I numeri restano simili anche nel 2023 (su 27.939 miliardi totali, la spesa dei privati è di 16.222). Per le università statali, il sostegno economico dei privati è una risorsa ormai fondamentale, consente l’apertura di progetti di ricerca e nuove posizioni. Per dare un’idea, l’ultimo rapporto ANVUR riporta che «nell’anno 2022, dei 1.149 dottorati accreditati, 717 (circa il 63 per cento) hanno visto una collaborazione con le imprese».

Il fatto è che il dialogo tra università e imprese, che in certi casi si declina in un vero rapporto di dipendenza, non è garanzia di continuità per un giovane ricercatore e sembra che il panorama aziendale italiano offra scarse e poco vantaggiose occasioni professionali per chi, fuori dal contesto accademico, voglia proseguire nell’attività di ricerca.

In paesi europei in cui la spesa in R&D (Research and development, ndr) è molto alta, anche le opportunità nel privato sono maggiori e migliori. Angelo, dottorando in un’università olandese (il paese investe +2 per cento del Pil), spiega a Domani che lì «le alternative sono molte di più ed è facile spostarsi nel privato. In Italia non esiste un vero modo per attrarre personale qualificato».

Simone, ricercatore in un’azienda biotech in Germania (3,1 per cento del Pil), ha deciso di spostarsi perché «in Italia ho trovato davvero poco. La mia azienda non ha avuto problemi ad assumere un ragazzo giovane. Il welfare tedesco consente a tutti di avere una strada nel mondo del lavoro».

Cosa manca al nostro paese

Queste realtà sono mancanti in Italia perché alla base c’è un diverso tessuto imprenditoriale: prevalgono le aziende medio-piccole attive nel settore manifatturiero, nella produzione, e raramente hanno delle divisioni dedicate alla ricerca e sviluppo. Le grandi aziende presenti sul territorio spostano gli apparati di ricerca altrove, mentre qui instaurano convenienti collaborazioni con le università, che dispongono di strumenti, spazi e risorse umane.

Nel privato, le opportunità si concentrano su alcuni settori specifici, quello industriale, elettronico e informatico, chimico-farmaceutico, e, oltre a essere poche, sono caratterizzate da aspetti controversi. Chi ne ha esperienza racconta di dinamiche pressanti e stringenti: la ricerca aziendale è molto specifica e finalizzata allo sviluppo di prodotti, nuovi sistemi e servizi, scopi diversi dalla ricerca puramente accademica, orientata (anche, ma non solo) alla conoscenza.

Inoltre, spesso «essere molto qualificati è un problema, non sei valorizzato per il tuo lavoro, sei manodopera» commenta Francesco, che sta per concludere un dottorato industriale finanziato da un’azienda.

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Ilaria (nome di fantasia) dopo un dottorato e un assegno di ricerca ha deciso di lasciare l’accademia, adesso lavora come ricercatrice con un contratto a tempo determinato nel privato. Ma spiega che non è stato facile, «in tanti colloqui ho notato che non veniva compreso a pieno cosa fosse un dottorato: non era percepito come lavoro». E poi manca un adeguato riconoscimento economico.

In tanti altri ambiti, la soluzione è cambiare strada. «Nei settori umanistici, la ricerca privata è quasi inesistente», dice Tommaso, ricercatore a tempo determinato. «Un’alternativa è fare qualcosa che con gli studi non c’entra nulla, buttando via anni di lavoro», conclude.

Oppure, emigrare. Camilla, prima dottoranda e ora borsista in Fisica, sa già che non c’è posto per lei in università, «mi hanno offerto una posizione all’estero, credo che accetterò».

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