Dal 10 giugno entra in vigore la nuova legge sulla partecipazione dei lavoratori nelle imprese, proposta dalla Cisl e modificata (molto) in Parlamento.
Presentata come una rivoluzione, appoggiata dal governo Meloni che l’ha finanziata con oltre 70 milioni di euro per il 2025, il testo finale in realtà è uscito parecchio ridimensionato rispetto alla legge di iniziativa popolare presentata dalla Cisl. E ha deluso chi si aspettava una vera diffusione della democrazia economica sul modello della Germania, dove la partecipazione con i famosi consigli di fabbrica è un elemento imprescindibile del sistema lavorativo dall’inizio degli anni Cinquanta.
Di che si tratta
Il diritto dei lavoratori italiani a collaborare alla gestione delle aziende in realtà è previsto dall’articolo 46 della Costituzione, di cui questa legge è il primo tentativo di attuazione dopo 80 anni di resistenze. Il modello italiano di relazioni industriali, infatti, è stato tradizionalmente conflittuale più che orientato alla collaborazione tra lavoratori e imprese.
Il testo della nuova legge parla invece di quattro forme di partecipazione dei lavoratori: gestionale, economica e finanziaria, organizzativa e consultiva.
La partecipazione gestionale prevede la presenza diretta dei lavoratori negli organi societari. Nelle imprese con un sistema dualistico, cioè dove l’amministrazione e il controllo sono esercitati da un consiglio di gestione e un consiglio di sorveglianza, gli statuti aziendali potranno essere modificati e introdurre la partecipazione di uno o più lavoratori nel consiglio di sorveglianza. Nelle società che non adottano il sistema dualistico, uno o più amministratori che rappresentano gli interessi dei lavoratori potranno entrare nel cda.
La prima versione della legge faceva riferimento a una quota minima di rappresentanti dei lavoratori, che poi è stata eliminata. Così come è sparito il riferimento a un obbligo di introdurre la partecipazione gestionale se prevista dalla contrattazione collettiva. Si dice solo che «gli statuti possono prevedere», quindi è tutto a discrezione delle aziende. Anche l’obbligo per le partecipate pubbliche, che avrebbero potuto fare da apripista, è stato depennato.
La partecipazione economica e finanziaria riguarda la possibilità di distribuzione degli utili e l’azionariato diffuso. Prevede che se l’azienda distribuirà ai lavoratori dipendenti almeno il 10 per cento degli utili, questi saranno tassati al 5 per cento per un triennio fino a 5mila euro per ciascun lavoratore (al 10% a regime). Le aziende potranno anche attribuire ai dipendenti azioni in sostituzione di premi di risultato. Per il 2025, i dividendi derivanti da queste azioni saranno esenti dalle imposte sui redditi per il 50 per cento, fino a 1.500 euro. Questa è la parte della legge finanziata dal governo, ma al momento vale solo per il 2025.
Partecipazione organizzativa. I lavoratori potranno essere coinvolti nelle decisioni relative alle fasi produttive e organizzative della vita dell’impresa. Potranno essere create commissioni paritetiche per proporre piani di miglioramento e di innovazione dei prodotti. Le imprese che occupano meno di 35 lavoratori potranno favorire la partecipazione organizzativa attraverso gli enti bilaterali.
La partecipazione consultiva prevede che ci siano pareri e proposte dei lavoratori, non vincolanti, sulle decisioni che l’impresa intende assumere. I contratti collettivi potranno prevedere la composizione di commissioni paritetiche e anche i tempi della consultazione.
Tanto rumore per nulla?
Rispetto al testo iniziale, la legge quindi non prevede più l’obbligo giuridico di attuare i modelli partecipativi attraverso la contrattazione collettiva, ma solo la possibilità che le società adottino nei propri statuti questi modelli (purché ciò sia previsto dai contratti collettivi). Cosa che, in realtà, le aziende possono fare anche adesso. Quindi, niente di rivoluzionario.
La partecipazione gestionale resta quindi subordinata all’inserimento volontario negli statuti societari, e non è quindi resa obbligatoria nel caso in cui sia prevista dalla contrattazione collettiva. Una possibilità, non un diritto esigibile. E più che i contratti collettivi, risultano ancora più determinanti gli statuti societari.
La contrattazione collettiva rimane centrale invece per la partecipazione economica, i cui dettagli devono essere definiti poi a livello aziendale.
La proposta della Cisl stabiliva che i contratti collettivi avrebbero potuto negoziare il piano di partecipazione finanziaria dei lavoratori, destinando fino al 15 per cento della retribuzione, con la possibilità di dedurre dal loro reddito fino al diecimila euro annui.
Tutto questo è sparito. Le agevolazioni fiscali che la legge approvata riconosce ai lavoratori rimangono, invece, le stesse di cui possono già beneficiare, con qualche minima variazione di importo. La sola novità introdotta è l’innalzamento a 5mila euro dell’importo su cui si applica la deduzione del 5 per cento, ma solo per il 2025. Ed è limitata al 2025 anche l’esenzione del 50 per cento su massimo 1.500 euro, come provento di dividendi delle azioni in sostituzione dei premi di risultato.
Senza dimenticare che le forme di partecipazione agli utili devono essere disciplinate nei contratti collettivi aziendali, soggetti al gioco delle parti della negoziazione sindacale. E senza incentivi strutturali a farlo, anche l’opportunità del regime fiscale agevolato per la distribuzione degli utili rischia di non essere sufficiente.
Modello italiano
Perché si realizzino queste forme di partecipazione, comunque, sarà necessario che sindacati e aziende trovino degli accordi.
I piani di azionariato diffuso sembrano diffondersi sempre di più su iniziativa delle aziende per trattenere e fidelizzare i lavoratori e attrarne di nuovi. Mentre secondo la segretaria della Cisl Daniela Fumarola, esisterebbero già quasi duecento accordi di secondo livello in materia di partecipazione. E ora ci si aspetta che si moltiplichino.
Ce la farà l’Italia con una legge così debole a convincere le imprese a realizzare il “modello italiano” di partecipazione?
Secondo gli esperti, le imprese probabilmente rimarranno a guardare cosa fanno i più grandi player industriali per valutare costi e benefici, senza correre rischi. E non si muoveranno finché non saranno soggette a pressioni sindacali forti o a indicazioni dalle associazioni di categoria.
Nelle aziende caratterizzate da un dialogo positivo con i sindacati, la legge può rafforzare la collaborazione e portare alla realizzazione di forme di partecipazione da usare anche come formule di employer branding. Altrove, invece, rischia di essere ignorata. Senza obblighi e con incentivi a tempo, la partecipazione rischia di restare un’opportunità per pochi pionieri. Dividendo di nuovo in due il mercato del lavoro.
Il successo della legge dipenderà quindi tutto dalla capacità delle imprese di attrezzarsi e da quella dei sindacati di trasformarsi e incarnare un ruolo più maturo di collaborazione e non di solo scontro.
In bocca al lupo.
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