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La lectio magistralis di Simone Bemporad sulla corporate diplomacy


Pubblichiamo il testo del discorso pronunciato all’Università di Trieste il 30 maggio scorso, in occasione del conferimento al giornalista e uomo d’azienda della laurea honoris causa

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Signore e signori,
sono un giornalista e un uomo d’azienda. In questi due ambiti ho costruito il mio percorso, e ho avuto la fortuna di lavorare in istituzioni e in imprese importanti, aziende che hanno sempre dimostrato una vocazione per l’innovazione e il futuro. L’ultima, la più grande, ha sede in questa città. 

Sono italiano, romano per la precisione – come sicuramente si sarà capito ascoltandomi! – ma sono anche cittadino degli Stati Uniti da dieci anni, il che dà l’idea di come la cooperazione internazionale per me sia diventata anche una identità! 

La mia lectio di oggi ha come tema la corporate diplomacy e l’impatto del business sulle relazioni politiche e sul bene comune – l’interesse generale. 

Con la mia presentazione vorrei provare a dare evidenza ad alcune convinzioni: 

1) che considerare separate le traiettorie dell’interesse dell’impresa privata da quelle dell’interesse pubblico è una visione già superata dalla realtà e provare a dividerle non aiuterà a raggiungere né l’una né l’altra; 

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2) che oggi il business svolge un ruolo di ponte tra luoghi lontanissimi tra di loro, con forze e mezzi di cui quasi nessun governo può disporre, e che la collaborazione dei governi e in particolare di una rete diplomatica altamente competente con le imprese sono determinanti per gestire i rapporti tra Paesi; 

3) che la comunicazione aziendale e l’advocacy sono elementi essenziali per le moderne economie interconnesse e anzi, parafrasando quanto scrisse Keynes a proposito delle teorie economiche, sono più potenti di ciò che comunemente si creda.

Cercherò di argomentare queste tesi facendo riferimento ad esperienze professionali da me vissute direttamente, e voglio chiarire subito una cosa importante: i progetti che ho lanciato e di cui vi parlerò – in particolare quelli in Generali – non sarebbero stati possibili senza il fondamentale contributo e la dedizione delle persone del mio team e dei loro collaboratori. Una cosa che ho imparato nella mia esperienza è che non esistono leader capaci di lasciare un segno senza avere vicino a loro una squadra di persone capaci e con uno chiaro senso etico. 

Quale è il collegamento tra le aziende e la diplomazia, visto che è di questo che parliamo oggi? 

Che cosa è esattamente quella che comunemente viene definita corporate diplomacy

Certamente si riferisce alla capacità del business di creare legami internazionali che nascono non da interazioni politiche, ma da rapporti commerciali. 

La mia esperienza mi ha insegnato che – però – oltre all’aspetto “geografico”, c’è anche una dimensione “valoriale”. Per esempio, le grandi imprese possono mettere a disposizione delle aziende più piccole o delle aziende territoriali le proprie competenze e i propri modelli organizzativi. Possono aiutarle a diventare più forti, più resilienti e, grazie a ciò, le piccole e medie aziende possono diventare role model per il proprio settore industriale, favorendone l’evoluzione. 

In altre parole, le grandi aziende possono aiutare le piccole a diventare più forti, più resilienti… Del resto, come disse non da ultimo Ben Parker a suo nipote Peter, al secolo Spiderman: “con grandi poteri vengono grandi responsabilità”.

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Un esempio concreto. Nel 2019, espandendo un progetto che era stato avviato anni prima da Generali in Italia, abbiamo lanciato a livello di gruppo un programma internazionale per aiutare le piccole e medie aziende ad adottare modelli organizzativi ispirati alla sostenibilità. L’idea è stata quella di andare a cercare – all’interno di un panel di 9 mila piccole e medie imprese europee – quelle che più e prima di altre hanno basato il loro modello di business su un impatto positivo per l’ambiente, o per le comunità in cui operano, oppure soprattutto mirate al benessere dei dipendenti. Le abbiamo aiutate ad affinare e incrementare questi comportamenti, e le premiamo dandogli visibilità in un grande evento che si svolge annualmente a Bruxelles, innalzandole a role model verso le altre piccole e medie aziende. 

Abbiamo trovato decine e decine di casi straordinari, ve ne cito solo alcuni: un’azienda tedesca ha creato una piattaforma che connette i conducenti di auto elettriche al mercato di scambio di quote di CO2, consentendo loro di cedere il proprio risparmio a emettitori di quantitativi elevati di anidride carbonica; un’azienda portoghese che ha inventato un sistema per trasformare l’olio da cucina usato in detergenti biologici; o un’azienda francese che produce pannelli solari di ultima generazione reinserendo professionalmente gli ex-detenuti. E ovviamente anche in Italia ci sono tanti casi simili a questi che abbiamo scoperto e raccontato. 

Presentiamo questi piccoli pionieri come Sustainability heroes, eroi della sostenibilità. 

E una ricerca condotta dalla SDA Bocconi per analizzare questo programma ha fornito una serie di dati ed evidenze sul fatto che non solo queste aziende si rafforzano sotto vari aspetti, ma vengono effettivamente viste come esempi. 

Poi, come dicevamo, c’è l’aspetto più prettamente “geografico” della corporate diplomacy, quello che appunto apre o rafforza legami tra Paesi. Le aziende devono intercettare i trend della modernità, tessere alleanze, interloquire attivamente con le istituzioni, valutare correttamente i rischi geopolitici per proteggere e sviluppare il proprio business in tutto il mondo. 

Quali sono gli elementi di successo della diplomazia condotta in ambito aziendale? Un elemento chiave è la capacità di costruire relazioni che durano nel tempo. La corporate diplomacy poggia sulla fiducia che un business leader riesce a costruire a livello personale.

L’università e lo studio sono essenziali per costruire conoscenza e competenza. Agli studenti mi sento di aggiungere però una cosa: dedicate tempo e passione a costruire anche una vasta rete di contatti. Sono quelle weak ties di cui parla uno studio del MIT – rapporti deboli, ma deboli solo di nome… Non occorre che diventino tutti vecchi amici, ma coltivate i rapporti. Nella carriera professionale sono uno straordinario veicolo di apprendimento di esperienze, di maturazione e di costruzione di saggezza. Competenza e apertura al dialogo con le persone sono alla base della fiducia, e la fiducia è il passpartout nel mondo del lavoro.

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Un altro episodio della mia esperienza risale a quando mi trovavo negli Stati Uniti. Avevo iniziato un’attività di consulenza personale dopo molti anni alla guida della branch americana di Leonardo, che all’epoca si chiamava Finmeccanica. Mi ero occupato a lungo della governance di una società americana che avevamo acquisito nel 2007

Ero stato raggiunto da una telefonata dell’addetto economico dell’ambasciata del Regno Unito a Washington che conoscevo bene avendo Leonardo una presenza industriale importante non solo in Italia, ma anche in UK, dove produce soprattutto elicotteri, i famosi elicotteri AgustaWestland. Voleva presentarmi il CEO di un’azienda inglese di cui avevo sentito parlare, QINETIQ – scritto con la Q di quadro all’inizio e alla fine – anch’essa attiva nel settore delle alte tecnologie, che si era trovata ad avere problemi di governance nella propria consociata americana, molto simili a quelli che avevo gestito in Leonardo. 

Da dove nascevano questi problemi? Negli Stati Uniti esiste un complesso sistema di regole imposte ad aziende che appartengono a gruppi non americani che lavorano per il governo: per esempio il monitoraggio di telefonate ed e-mail scambiate con la casa madre, o limitazioni al lavoro di impiegati che non sono cittadini americani: tutto ciò è finalizzato a proteggere le tecnologie sviluppate nel mercato americano da possibili tentativi di esportazione non autorizzata o, peggio, di spionaggio. 

QINETIQ era furiosa per queste limitazioni, e il CEO della società – un tipo particolarmente… esuberante e poco paziente – le considerava insensate e ingiuste per una società basata in Inghilterra, il più fedele alleato degli USA, e aveva messo in piedi un vero e proprio ostruzionismo su queste pratiche, correndo il rischio di perdere contratti importanti, specialmente per il Dipartimento della Difesa. Si era rivolto quindi all’ambasciata inglese per farsi aiutare e da lì eravamo entrati in contatto. 

Trovai singolare il fatto che dovesse essere un italiano (all’epoca non avevo ancora ottenuto il passaporto americano) a – diciamo così: mettere pace – tra un’azienda inglese e il Pentagono, ma in realtà non era strano per niente. Evidentemente ero stato “catalogato” come interlocutore affidabile per i miei trascorsi di negoziatore in Leonardo e poiché l’ufficio del Pentagono che si occupava di queste materie – il Defense Security Service – è anche l’entità deputata a svolgere attività di controspionaggio industriale per il governo degli Stati Uniti, credo che affidabile volesse dire davvero affidabile. 

Dopo mesi di incontri e di negoziati, riuscimmo alla fine a risolvere i problemi che avevano fatto perdere il sonno al CEO di QINETIQ, che riuscì a ottenere una serie di waiver, di salvacondotti, su alcune delle procedure più restrittive. 

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E non perse alcun contratto. Ancora oggi quella società continua a operare negli Stati Uniti in base a quel set di accordi di governance siglati oramai più di dieci anni fa. Quindi vedete come il tema dei rapporti e della fiducia può diventare la chiave per risolvere controversie e incomprensioni.

In una pausa di una delle tante sessioni di negoziati con il governo, chiesi al Ceo della società, con cui nel frattempo avevamo creato un bel rapporto, da dove venisse il nome QINETIQ. E lui mi rispose: “Ma come? Non lo sai? Qinetiq è uno spin off dei servizi segreti inglesi, il famoso MI6, è quella parte che si occupa di tecnologie avanzate”.

E poi aggiunse: “Non hai mai visto nei film di James Bond a chi si rivolge 007 per avere gli ultimi “gadget” prima di partire per una pericolosa missione? Andava dal signor Q: nel film era un simpatico vecchietto (oppure, per le generazioni più recenti, un giovane scienziato genialoide con gli occhiali), nella realtà era un vero dipartimento – appunto: QINETIQ!”. 

Come vedete, la corporate diplomacy è quindi un elemento centrale nei rapporti tra aziende e Paesi ma anche tra Paesi e Paesi. Penso ancora agli studenti oggi presenti, e voglio dirvi che nelle grandi aziende è un elemento di vantaggio competitivo possedere la capacità di saper leggere le dinamiche geopolitiche, e le loro ricadute sulla società. Le imprese adottano una vera e propria politica estera che permette loro di navigare tra interessi diversi, di costruire relazioni strategiche e di interagire efficacemente con i policy maker. Questa è una navigazione che avviene in un mare attraversato da molte navi: ci sono le imprese, ci sono i governi nazionali, gli enti sovranazionali come l’Unione Europea, le grandi realtà multilaterali come l’Onu e ci sono le Organizzazioni non governative. 

Nel mio percorso professionale ho avuto esperienza di ciascuna di queste dimensioni e vorrei fare due esempi concreti. 

Tre anni fa, è nata da un’idea all’interno del mio team, quella di raggiungere un accordo tra Generali e Undp, l’agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo: siamo così diventati l’unico partner assicurativo dell’ONU all’interno di un ambizioso piano che ha l’obiettivo di proteggere e sostenere alcune delle popolazioni più vulnerabili del mondo, fornendo copertura contro gli shock climatici e le catastrofi.  È un progetto che punta a un target di 500 milioni di persone, in particolare nel sud est asiatico, e attraverso il quale vogliamo anche sviluppare quella che comunemente viene chiamata “leadership di pensiero”, cioè la capacità di creare dibattito e consenso attorno ad ambiti dove le aziende possono contribuire al bene comune. In questo caso, una corporate diplomacy che lavora su entrambi i livelli: quello valoriale e quello geografico. 

Il secondo esempio riguarda uno dei progetti di Generali a cui sono più affezionato: 

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si chiama The Human Safety Net e ha l’obiettivo di consentire alle persone in stato di vulnerabilità economica e sociale di sviluppare il proprio potenziale. 

Il potenziale. Pensateci: quando parliamo di ingiustizie, una di quelle più odiose si riferisce al fatto di avere meno opportunità all’inizio della propria vita rispetto ad altri. Per contribuire alla piena realizzazione di questo potenziale, The Human Safety Net si è voluta concentrare su due programmi di intervento, uno a sostegno di famiglie vulnerabili con bambini fino a sei anni e l’altro per l’integrazione dei rifugiati attraverso il lavoro, in particolare quello imprenditoriale. Il potenziale di un bambino e le sue capacità sono fondamentalmente influenzati proprio dai primi sei anni di vita, quando si crea circa l’80% dei collegamenti neuronali del cervello. Intervenire dopo, rischia di essere tardi. Quanto ai rifugiati, è dimostrato che essi hanno spesso il talento e la resilienza necessari per l’imprenditorialità, ma non ne hanno l’occasione. E quindi li aiutiamo a inserirsi nel Paese di arrivo, ad aiutare loro e le loro famiglie durante il periodo della formazione e infine a dare vita a startup di successo e generare a loro volta ricchezza e prosperità per la comunità.

Siamo partiti da zero nel 2016 e oggi la fondazione è attiva in 26 paesi, dal Cile al Vietnam, dall’India all’Argentina, dalla Malesia al cuore dell’Europa. Lavora a stretto contatto con una rete di quasi 80 Ong e ha raggiunto 800 mila persone, tra cui 8 mila rifugiati. Sono state create oltre 650 piccole imprese. Ma al di là dei numeri, quello che veramente dà la misura del successo è l’impatto che è stato generato. Dalle evidenze ottenute – solo per dare due elementi di performance – sappiamo che circa il 90% dei bambini raggiunti dai nostri programmi ha avuto maggiori opportunità di apprendimento durante la prima infanzia e oltre l’80% dei rifugiati ha beneficiato di una maggiore inclusione economica. 

La casa di The Human Safety Net, aperta al pubblico, si trova nelle Procuratie Vecchie, che per chi conosce bene Venezia, è quel complesso monumentale che occupa il lato nord della Piazza San Marco, alla sinistra della Basilica. E’ un immobile imponente, di oltre 15 mila metri quadrati, restaurato su un fantastico progetto di David Chipperfield e del suo studio milanese.

Le Procuratie sono il luogo dove nel 1400 vivevano e lavoravano i Procuratori, la più alta carica pubblica della Repubblica di Venezia, che aveva tra le sue funzioni anche quella di occuparsi delle donazioni ai più sfortunati. La HSN ha rivitalizzato quella missione, dopo sei secoli e senza spostarsi di un metro.

Il restauro delle Procuratie è stato anche il volano di un disegno più ampio per rafforzare il legame con la comunità collegando quattro delle città simbolo di Generali in Italia con un filo rosso: Trieste, Venezia, Milano e Roma. Lo abbiamo fatto aprendo al pubblico quattro fenomenali palazzi delle Generali dedicandoli ad altrettanti temi chiave – l’innovazione, l’impegno per il sociale, l’arte e l’entertainment: e questi temi insieme sono ciò che crea cultura. 

Un’idea portata avanti grazie alla condivisione e alle capacità della nostra società di real estate, che è un vero gioiello del gruppo Generali. 

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Lasciatemi allora ricordare la trasformazione dell’ex Padiglione Tre della Fiera Campionaria a Milano, conosciuto anche come Palazzo delle Scintille, che ritornerà nel 2026 dopo un notevole lavoro di restauro, alla storica vocazione di spazio per grandi eventi, con il nuovo nome CityOval Milano; ancora, palazzo Bonaparte a Roma, sede di mostre d’arte; e poi l’ambiziosa operazione qui a Trieste su Palazzo Carciotti, che diventerà la sede di Agorai Innovation Hub, un ecosistema nato per creare uno dei più importanti centri di ricerca applicata e di base sulla Data Science e l’Intelligenza Artificiale, dove Google sarà il partner strategico. (Borean)

E’ tempo di arrivare alla conclusione. Lo vorrei fare tornando al senso della diplomazia e della cooperazione internazionale: contribuire a rendere il mondo un posto più sicuro, restando ancorati ai valori fondanti della libertà di realizzare sé stessi e all’attenzione per il bene comune. 

Ai giovani e non solo presenti qui oggi, ricordo l’insegnamento di un fraterno amico nonché brillante professore di Harvard, Arthur Brooks, che può rappresentare una stella polare per tutti noi: il senso e la misura della felicità nel proprio lavoro si riassume in due principi guida, earn your success, guadagnatevi il vostro successo, e serve others, rendetevi utili agli altri. 

I premi Nobel Acemoglu, Johnson e Robinson ci ricordano che sono le istituzioni inclusive a determinare progresso e prosperità, in primis le istituzioni politiche

Cosa ci dice la fotografia del mondo di oggi?

L’Europa, per giocare sulla scacchiera della geopolitica e dell’economia, non può più permettersi la sua debolezza più grande, la divisione interna. Dall’altra parte dell’Atlantico c’è un’amministrazione che si muove in modo erratico, seguendo traiettorie ideologiche confuse se non pericolose, ripudiando l’architettura di regole e alleanze che tanto hanno giovato all’America ma anche al mondo libero. Guardando un po’ più lontano, emerge con chiarezza l’ambizione, in parte già realizzata, della Cina di assumere un ruolo egemonico a livello globale. 

Di fronte a questi scenari le aziende possono fare tanto: aziende e governi, insieme, hanno la forza per governare il futuro. 

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Il timone resta in mano alla politica, che ha il grande potere di decidere, e che deve contemperare l’interesse del bene comune nel lungo termine con le aspettative dei cittadini, spesso orientate al breve. Una diplomazia lungimirante gioca un ruolo cruciale, perché è la sliding door tra la guerra e la pace. 

Le aziende possono contribuire a rendere più informate le decisioni della diplomazia e della politica condividendo la grande conoscenza generata dalla propria attività, dando quindi un punto di vista originale e innovativo. Pensate che nel 1914 – e ce lo racconta un documento dell’Archivio storico di Generali fatto emergere da un grande narratore, Paolo Rumiz – l’allora capo delle Generali, Edmondo Richetti, mettendo insieme i dati sul vertiginoso aumento delle spese militari – dati che all’epoca solo un’azienda che si occupa di investimenti simultaneamente in tanti Paesi poteva conoscere, e Generali li conosceva – aveva lanciato un allarme sul rischio di una guerra. Aveva pubblicato il suo ragionamento, corredato da ampie tabelle, nel mese di maggio, a soli due mesi dallo scoppio della guerra. Aveva ragione, ma non fu ascoltato perché – incredibile ma vero – ancora nella primavera del 1914, una guerra in Europa veniva ritenuta improbabile. 

Cent’anni dopo, la nostra conoscenza è moltiplicata. La politica e le aziende determinano le dinamiche del mondo potendo contare su un livello di informazioni mai visto prima. 

L’ingegno dell’uomo apre quotidianamente conoscenze più grandi rispetto ai problemi che dobbiamo affrontare. 

Abbiamo strumenti formidabili: la capacità di comunicare tra noi in tempo reale, la capacità di emozionarci, di abbinare saggezza e intuizione, e poi l’energia e la resilienza delle giovani generazioni – e ancora: la capacità di leadership, che è intergenerazionale.    

Insomma, abbiamo tutti i mezzi – e la diplomazia e la cooperazione internazionale sono tra questi. 

In quel manifesto, quell’uomo visionario di Trieste di oltre cento anni fa scriveva che l’unica soluzione per evitare la guerra sarebbe stata – e cito – “la Fondazione dell’alleanza degli stati europei, nel senso di una potente unione continentale fra popoli come unico antidoto alle forze oscure”. 

Mi pare che sia una lezione ancora valida. 

Vi ringrazio.



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