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REFERENDUM. Lavoro scheda verde e arancione


di Beatrice Bardelli – Oggi il licenziamento di un lavoratore dichiarato illegittimo dal giudice non viene reintegrato nel posto di lavoro.

Continua la nostra carrellata di informazione sui 5 referendum dell’8 e 9 giugno prossimi, sostenuti dalla CGIL e da vari esponenti coordinati da +Europa, che propongono di abrogare alcune leggi italiane che riguardano il mondo del lavoro e la concessione della cittadinanza italiana agli stranieri appartenenti a paesi terzi dopo 10 anni di residenza legale nel nostro paese. “Ciascuno di noi, con il voto, ha la possibilità di cambiare il paese” scrive la CGIL nei suoi volantini dove campeggia lo slogan “il voto è la nostra rivolta” e che continua invitando tutte e tutti ad andare a votare per far valere la propria opinione: “Prendi il tuo impegno, non lasciare che gli altri decidano per te”. Questa volta ci occupiamo dei primi due quesiti che riguardano i licenziamenti illegittimi sia nelle imprese con più di 15 dipendenti che nelle piccole imprese con meno di 16 dipendenti.  

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La voce della CGIL

Nel primo quesito (scheda n.1, colore verde) si chiede lo “Stop ai licenziamenti illegittimi” nelle imprese con più di 15 dipendenti: “Nelle imprese con più di 15 dipendenti, le lavoratrici e i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in poi non possono rientrare nel loro posto di lavoro dopo un licenziamento illegittimo. Sono oltre 3 milioni e 500 mila ad oggi e aumenteranno nei prossimi anni le lavoratrici e i lavoratori penalizzati da una legge che impedisce il reintegro anche nel caso in cui la/il giudice dichiari ingiusta e infondata l’interruzione del rapporto. Abroghiamo questa norma, diamo uno stop ai licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo”.

Nel secondo quesito (scheda n. 2, colore arancione) si chiedono “Più tutele per le lavoratrici e i lavoratori delle piccole imprese”: “Nelle imprese con meno di 16 dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo oggi una lavoratrice o un lavoratore può al massimo ottenere 6 mensilità di risarcimento anche qualora una/un giudice reputi infondata l’interruzione del rapporto. Questa è una condizione che tiene le/i dipendenti delle piccole imprese (circa 3 milioni e 700 mila) in uno stato di forte soggezione rispetto alla/al titolare. Abroghiamo questo limite, aumentiamo l’indennizzo sulla base della capacità economica dell’azienda, dei carichi familiari e dell’età della lavoratrice e del lavoratore”.

Intervista all’avvocato Elisa Giraudo

Per far capire meglio la portata e l’importanza di andare a votare e votare SI “per la tutela dei nostri diritti”, come cantava Ivan Della Mea nella sua “O cara moglie”, abbiamo intervistato una giuslavorista dell’Ordine di Pisa, l’avvocata Elisa Giraudo.

D. Vuole spiegare ai nostri lettori il significato del primo quesito?

R. Il primo quesito referendario ci chiede: «Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?». In poche parole ci dà la possibilità di ottenere la cancellazione dall’ordinamento giuridico di uno dei decreti attuativi del Jobs act. Con questa riforma del governo Renzi è stato introdotto il cosiddetto “contratto a tutele crescenti” che si applica ai lavoratori dipendenti, assunti dopo la data del 7 marzo 2015. Questo contratto è un normale rapporto di lavoro dipendente che però soggiace ad una disciplina “speciale” del licenziamento ingiustificato.

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D. Può spiegarci meglio?

R. In Italia si può licenziare, ma per farlo, occorre rispettare le regole, altrimenti il caso sarà portato davanti al giudice del lavoro che verificherà se queste regole sono state, o meno, rispettate e deciderà quale “sanzione” applicare. La norma cardine, che dal 1970 disciplinava le conseguenze di un licenziamento al di fuori delle regole, che si definisce “illegittimo”, nella sua versione originale stabiliva un principio molto  semplice: in caso di licenziamento ingiustificato, il lavoratore aveva diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro dal quale era stato illegittimamente escluso, oltre al risarcimento del danno patito.

La parola “reintegrazione” merita una piccola puntualizzazione: se si reintegra un lavoratore nel posto di lavoro che occupava prima di essere licenziato, stiamo ripristinando la sua condizione che era stata alterata dalla decisione, illegittima, del datore di lavoro. Gli stiamo restituendo un “bene”, il posto di lavoro, che gli era stato illegittimamente sottratto.

Quando il legislatore ha modificato nel 2012 l’articolo 18, per poi arrivare nel 2015 ad introdurre con il Jobs act il contratto a tutele crescenti, che oggi si chiede di abrogare con il quesito n. 1, ha ridotto i casi in cui il giudice, che al termine di un processo ha accertato che quello specifico licenziamento era illegittimo, può restituire il posto di lavoro. La riduzione dei casi in cui il giudice poteva restituire il posto di lavoro ad una persona illegittimamente licenziata, avviene con la cosiddetta Legge Fornero, legge 92 del 2012, che modifica l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, diversificando i rimedi contro il licenziamento ingiustificato nell’ambito delle aziende di maggiore dimensione, ossia con più di 15 dipendenti.

D. Ma oggi quali tutele prevede l’articolo 18?

R. Per dare conto di quello che è l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori alla data odierna, bisogna fare un salto in avanti al 2021 ed al 2022, quando la Corte Costituzionale è intervenuta dichiarando con le sentenze n. 59/2021 e 125/2022, la parziale illegittimità costituzionale della versione dell’articolo risultante dalla legge Fornero. In seguito a queste importantissime sentenze risulta quindi che le tutele previste dall’articolo 18 dello Statuto, oggi, sono le seguenti:

  • rimane la reintegrazione nei casi considerati più gravi (quando il licenziamento è stato intimato per un motivo discriminatorio, oppure in violazione di norme imperative come il divieto di licenziamento in maternità), con diritto al versamento dei contributi per il periodo tra il licenziamento e il rientro ed il pagamento di un’indennità risarcitoria comunque non inferiore a 5 mensilità.
  • Viene poi prevista una “tutela reale attenuata” (per semplificare, quando viene dimostrato in giudizio che il fatto posto alla base del licenziamento era insussistente), che dà diritto alla reintegrazione, al versamento dei contributi, ma con una indennità risarcitoria che può arrivare a un massimo di 12 mensilità.
  • Negli altri casi di licenziamento, nei quali non ricorra il giustificato motivo, il rapporto di lavoro si interrompe comunque (anche se il licenziamento viene dichiarato dal giudice “illegittimo”) ma il datore di lavoro viene condannato al versamento di un’indennità fissata tra un minimo 12 e un massimo 24 mensilità. 
  • Infine viene prevista la c.d. “tutela indennitaria debole” (ad esempio quando il licenziamento viene intimato violando regole procedurali), che comporta soltanto il pagamento di un’indennità tra un minimo di 6 e un massimo di 12 mensilità.

Nel 2015, come anticipato, il Governo Renzi introduce una ulteriore modifica alla disciplina dei licenziamenti, con il decreto legislativo n. 23/2015 che il primo quesito referendario mira a cancellare dal nostro ordinamento. La nuova disciplina, denominata “contratto a tutele crescenti” diventa applicabile a tutte le persone che siano state assunte a far data dal 7 marzo 2015. Per i lavoratori, invece, che erano stati assunti prima di questa data, rimane in piedi la disciplina dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, riscritta dalla legge Fornero e dalle pronunce della Corte Costituzionale.

D. Cosa stabilisce il Jobs act ed in particolare il contratto a tutele crescenti?

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R. La logica di fondo del decreto che vogliamo abrogare era quella di rendere quanto più prevedibile il “costo” di un licenziamento dichiarato illegittimo dal giudice. Nella sua versione originaria il Jobs act stabiliva che, fatta eccezione per i casi di licenziamento discriminatorio o nullo, al lavoratore ingiustamente licenziato sarebbe spettata un’indennità calcolata matematicamente sulla base degli anni di anzianità di servizio: due mensilità per ogni anno di servizio, comunque entro un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità poi aumentate da 6 a 36 mensilità con il cosiddetto Decreto Dignità.

Con il decreto legislativo 23/2015, quindi, a fronte di un comportamento che il giudice accerta essere stato illegittimo, al termine di un processo, il lavoratore non può più ottenere la restituzione del posto di lavoro ingiustamente sottratto, ma si deve accontentare di una monetizzazione, fatta, naturalmente, eccezione per i casi in cui il licenziamento sia stato intimato per una ragione discriminatoria o sia comunque nullo.

D. Ma nessuno ha fatto ricorso alla Corte Costituzionale?

R. Più volte! Questa norma, che il quesito numero 1 vuole abrogare, è stata già censurata, criticata e modificata da una lunga serie di pronunce della Corte Costituzionale, che è il “giudice delle leggi” e valuta la compatibilità delle norme prodotte dal legislatore con i principi della nostra bellissima Carta Costituzionale. La Corte tra il 2018 ed il 2024 ha pronunciato numerosi provvedimenti contro il decreto legislativo 23/2015. Per sintetizzare al massimo, ricordiamo la sentenza n. 194/2018 che ha eliminato il meccanismo cardine del contratto a tutele crescenti, ossia l’automatismo di calcolo dell’indennità, tre mensilità per ogni anno di anzianità. Sono rimasti in piedi i limiti minimi e massimi dell’indennità, fra 6 e 36 mensilità, ma grazie alla Consulta è tornato in capo al giudice il compito di determinare la misura dell’indennità fra il minimo ed il massimo, tenendo conto di altri fattori, oltre all’anzianità di servizio, come la condotta tenuta dal datore di lavoro, le dimensioni dell’impresa, la gravità dell’atto illecito.

D. Cosa cambierebbe se al referendum questo primo quesito ottenesse una maggioranza di sì?

R. Le regole dettate dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori diventerebbero applicabili a tutti i dipendenti di imprese medio-grandi e non più soltanto a quelli assunti prima del 7 marzo 2015. Abrogando l’intero decreto 23/2015, tutti i lavoratori delle imprese di medio-grande dimensione, in caso di licenziamento illegittimo, tornerebbero ad essere tutelati dalla stessa norma, l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, seppur nella versione attuale, risultante dalla modifica della Legge Fornero e dalle pronunce della Corte Costituzionale sopra ricordate, con un maggiore spazio alla reintegrazione, prevista per licenziamenti nulli, discriminatori e privi di giustificato motivo (per insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento o perché il fatto avrebbe richiesto sanzioni conservative del posto di lavoro), e con ipotesi di tutela economica, nei restanti casi in cui non ricorrano gli estremi del giustificato motivo o qualora ci siano vizi di motivazione o di procedura.

D. Perché è importante tornare ad un ampliamento dei casi in cui è possibile ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro?

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R. Per restituire la dignità ad una persona che ha subito un atto illegittimo e perché la perdita di un posto di lavoro a tempo indeterminato assai difficilmente potrà mai essere pienamente compensata attraverso il pagamento di un indennizzo. Inoltre, un lavoratore che sa di poter contare su una disciplina che può restituirgli il lavoro illegittimamente sottratto, sarà una persona che non avrà timore di far valere i propri diritti nei confronti del datore di lavoro e quindi sarà una persona meno ricattabile.

D: Perché ritiene importante votare sì anche a secondo quesito?

R. Il secondo quesito referendario mira alla parziale abrogazione dell’articolo 8 della legge 604 del 1966. In poche parole è la norma che stabilisce le conseguenze di un licenziamento illegittimo nelle aziende di piccola dimensione, sotto i 15 dipendenti. L’articolo 8 ci dice che se il licenziamento viene dichiarato illegittimo dal giudice, al lavoratore potrà spettare o la riassunzione, ma stavolta però a discrezione del datore di lavoro, oppure il versamento di un’indennità monetaria che va da un minimo di 2,5 mensilità ad un massimo di 6 che possono aumentare fino a 10 o 14 in presenza di talune condizioni.

D. Cosa cambia se vincesse il sì?

R. Ce lo auspichiamo perché, se vincesse il sì, ai lavoratori delle piccole imprese che siano stati ingiustamente licenziati, spetterebbe un risarcimento minimo di 2,5 mensilità, aumentabile fino ad un importo che non è più predeterminato, ma viene lasciato alla libera e prudente valutazione del giudice, ovvero, caso concreto per caso concreto. Il giudice naturalmente analizzerà nel corso di un processo quale sia la reale situazione, tenendo conto del numero dei dipendenti occupati nell’azienda, alle sue dimensioni, dell’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, del comportamento e delle condizioni delle parti.

D. Qual è la logica che sta alla base di questo quesito referendario?

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R. In prima battuta sicuramente il fatto che un tetto massimo di sole 6 mensilità appare obiettivamente esiguo. A differenza dell’epoca in cui questo tetto massimo venne stabilito, al giorno d’oggi non è più necessariamente vero che un’impresa che occupa meno di 15 dipendenti sia effettivamente una “piccola impresa”. Con il vertiginoso progresso tecnologico degli ultimi decenni, anche un’azienda con pochissimi dipendenti può realizzare fatturati estremamente elevati.

Eliminare il tetto massimo dell’indennizzo anche nelle “piccole imprese” risponde quindi ad una esigenza di maggiore equità e giustizia. Così se da un lato questi lavoratori non potranno ottenere la restituzione del proprio posto di lavoro, sempre fatta eccezione per i casi di nullità del recesso, potranno ottenere un ristoro del danno subito, che sia più adeguato ed effettivamente commisurato alla situazione concreta ed al pregiudizio sofferto.

D: Perché andare a votare?

R. Andate a votare e votate sì, perché lasciarsi sfuggire questa straordinaria occasione di rendere il mondo del lavoro più equo, sarebbe un comportamento che non esiterei a definire autolesionistico. Nella mia esperienza professionale, all’interno di uno studio legale che da sempre tutela i diritti dei lavoratori, poter tornare a prospettare a chi sia stato ingiustamente licenziato, la possibilità di ottenere la reintegrazione, significa restituire molto più di un posto di lavoro: significa restituire dignità, futuro e prospettiva a chi ha subito una vicenda incredibilmente traumatica come il licenziamento.





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