Domenica 8 giugno e lunedì 9 giugno si vota per il referendum e quattro quesiti riguardano materie di lavoro. Il focus è la modifica di normative introdotte con il Jobs Act, novità che nel 2015 definì un approccio più flessibile rispetto alle indennità da corrispondere in caso di licenziamento.
Gli esperti del network professionale di fiscalisti, legali e consulenti del lavoro Partner d’Impresa, Fabio Speranza, avvocato della linea Legal specializzato in diritto societario, commerciale e fallimentare e il commercialista Carmine Guarino, della linea Labor, esperto in gestione e amministrazione del personale, hanno realizzato un’analisi per valutare quali saranno le conseguenze per le aziende italiane nell’ipotesi in cui il referendum abrogativo dovesse confermare i suoi effetti e quali possono essere degli strumenti per far sì che i contenziosi sul lavoro siano più facilmente gestibili a livello aziendale e per garantire una maggiore tutela d’impresa.
Il primo quesito referendario: Licenziamenti illegittimi e contratto a tutele crescenti
Con il primo quesito si propone l’abrogazione integrale del decreto legislativo n. 23 del 2015 (emanato in attuazione del cosiddetto “Jobs Act”) che riguarda il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Uno strumento che garantisce ai lavoratori assunti in aziende con più di 15 dipendenti dopo il 7 marzo 2015, in caso di licenziamento illegittimo, un’indennità economica che aumenta con l’anzianità di servizio senza che sia previsto il reintegro nel posto di lavoro. L’eventuale modifica referendaria interverrebbe sul trattamento che il giudice può decretare nelle aziende in caso stabilisca che vi sia stato un licenziamento illegittimo, ristabilendo quanto previsto dalla legge Fornero (l. n. 98/2012). La attuali mensilità di indennizzo previste per legge vanno da un minimo di 6 a un massimo di 36, l’approvazione del quesito referendario prevederebbe, in caso di licenziamenti considerati illegittimi, un aumento delle mensilità di indennizzo minime che diventerebbero 12 ma una diminuzione di quelle massime erogabili che diventerebbero 24. Si specifica che nel caso dei licenziamenti illegittimi perché considerati nulli o discriminatori (motivati dal credo religioso o per l’appartenenza a un sindacato o per l’orientamento sessuale, l’età ecc.) è invece sempre previsto il reintegro nel posto di lavoro. In caso di licenziamenti collettivi per oltre cinque dipendenti la modifica comporterebbe invece il reintegro del posto di lavoro. Per i lavoratori che lo desiderano sarebbe così ampliata la possibilità di ritornare al proprio posto di lavoro; mentre per quelli che potrebbero non avere più interesse a rientrare in impresa a causa di rapporti non più ottimali, si otterrebbe la possibilità di contrattare una posta economica più alta per avere un immediato vantaggio in cambio dell’uscita dall’azienda. “La conseguenza per le imprese è un aggravio dei costi rispetto all’attuale regime a causa delle più alte indennità previste in favore del lavoratore. Inoltre vi sarebbe una minore flessibilità nella gestione del dipendente, nell’ipotesi in cui vi fossero giuste ragioni per avviare il suo esodo a vantaggio di lavoratori più efficienti e in linea con i valori aziendali” spiega l’avvocato Fabio Speranza.
Il quesito numero due: “indennità per licenziamenti nelle piccole imprese”.
Con il quesito numero due si mira a eliminare il tetto massimo dell’indennizzo economico, pari a 6 mesi di stipendio, per i lavoratori licenziati per cause illegittime nelle imprese con meno di 15 dipendenti, restituendo al giudice la discrezionalità nel determinare l’ammontare del risarcimento. Per le piccole imprese si applica già una normativa che prevede sempre e solo il risarcimento monetario e mai la reintegra nel posto di lavoro a meno che la risoluzione del contratto sia avvenuta per motivi discriminatori. Il referendum quindi non mira a cambiare la natura della tutela ma a lasciare alla discrezionalità del giudice la misura del risarcimento senza un massimale preciso. “Il vantaggio per i lavoratori delle piccole imprese sarebbe avere una tutela risarcitoria più consistente e non definita. Questa potrebbe potenzialmente essere persino più alta di quella da 24 o 36 mensilità prevista per i dipendenti delle grandi aziende, diventando un onere molto pesante per le piccole realtà produttive. E questo rischio, senza un limite certo ai risarcimenti, potrebbe scoraggiare le piccole imprese dal fare assunzioni” spiega il legale di Partner d’Impresa.
Il quesito numero tre “Contratti a termine” abrogazione di norme che regolano i contratti a tempo determinato
A oggi è già prevista una durata massima per i contratti a tempo determinato: nei primi dodici mesi è possibile stipularne senza nessuna causale, dopodiché per un massimo di 24 mesi se ne può avviare un altro, indicando però le causali o stabilite dalla contrattazione collettiva o da accordi specifici tra dipendente e datore di lavoro. Dopo due anni, il contratto si trasforma automaticamente in indeterminato. La modifica mira a limitare il ricorso ai contratti a termine rispetto alle assunzioni a tempo indeterminato, consentendoli solo qualora siano previsti dai contratti collettivi o per sostituzione di lavoratori, sempre indicando la specifica causale lavorativa e comunque per un periodo massimo di 24 mesi. Viene quindi esclusa la possibilità di utilizzare questa tipologia contrattuale come frutto di un accordo fra le parti studiato tra dipendente e datore di lavoro per reciproche necessità. “Il vantaggio principale, secondo i promotori del referendum, sarebbe quello di limitare il ricorso ai contratti a termine se non sono sostenuti da solide motivazioni. Le imprese pertanto non potrebbero più gestire le assunzioni a tempo per esigenze particolari, come ad esempio un incremento straordinario di produzione, senza motivarle rigidamente. Si otterrebbe una minore libertà di assunzione a tempo determinato, modalità a cui molte imprese hanno fatto ricorso poiché utile per gestire il primo ingresso strutturato nelle imprese dei giovani prima dell’avvio di un indeterminato” spiega Speranza.
Il quarto quesito: la responsabilità sociale degli appalti
Con il voto si chiede l’abrogazione della norma che esclude la responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore, per gli infortuni sul lavoro derivanti da rischi specifici dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici. In generale è sempre prevista la responsabilità solidale del committente e dell’appaltatore oltre che per il pagamento degli stipendi anche per il risarcimento dei danni da infortuni se non coperti dall’Inail. Ad oggi è però prevista un’esclusione che riguarda i danni conseguenti ai rischi specifici propri delle attività delle imprese appaltatrici e subappaltatrici. “Se oggi una società che si occupa di un centro commerciale intendesse ristrutturare un suo punto vendita, sottoscrivendo un contratto di appalto con una un’impresa edile, non sarebbe corresponsabile in solido dei danni da dover risarcire a un operaio che riportasse lesioni sul posto di lavoro. Questo perché la ditta appaltante opera in un altro settore rispetto a un’impresa edile. Con la modifica bisogna invece considerare che la corresponsabilità del committente avverrebbe in qualsiasi caso” spiega Fabio Speranza. L’intervento, se valutato sotto il profilo del miglioramento della sicurezza sul lavoro, sarebbe finalizzato alla riduzione degli incidenti. A questo vantaggio però si contrappone l’aumento delle responsabilità delle aziende, in quanto conseguentemente ci sarà un incremento dei controlli e delle azioni preventive da parte del committente per evitare co-responsabilità. “Il rovescio della medaglia è nella possibilità che l’irrigidimento delle regole e della estensione della corresponsabilità solidale per un rischio estraneo alla propria attività, potrebbe produrre come effetto un blocco degli appalti in Italia” conclude Speranza.
Le soluzioni di tutela: assicurazioni e regolamento aziendale
“Al di là che vengano apportate modifiche all’attuale piano normativo, a livello aziendale è bene muoversi in modo da tutelarsi in maniera preventiva, innanzitutto redigendo un chiaro regolamento aziendale, in grado di stabilire regole e principi che devono essere seguiti in azienda per garantirne l’efficienza e il rispetto delle norme comportamentali” spiega Carmine Guarino di Partner d’Impresa, che stila un elenco dei vantaggi di questo strumento. “Rientra tra quegli strumenti che non sono un obbligo ma un’opportunità, una prima ed importante forma di protezione per l’impresa con valenza legale. È uno strumento vivo, che parla del modo in cui l’azienda lavora, prende decisioni e si relaziona con i propri collaboratori” conclude. Nello specifico, per quanto riguarda gli aspetti affrontati dal referendum, il regolamento aziendale aiuterebbe l’imprenditore a fissare criteri oggettivi per la valutazione delle prestazioni e dei comportamenti oltre che per l’adozione di provvedimenti disciplinari proporzionati e tracciabili. Il regolamento aziendale tra l’altro è la base per un buon piano incentivi ove l’azienda stabilisce obiettivi, ruoli, responsabilità ma anche e soprattutto performance e rendimento atteso di ognuno. Si tratta di uno strumento che formalizza la modalità di valutazione rendendo oggettiva ogni futura scelta dell’imprenditore circa l’andamento dei collaboratori e consente di stabilire delle procedure interne di pre-contenzioso o mediazione, che dimostrino buona fede e tentativi di gestione interna dei conflitti. Si tratta di uno strumento utile per rafforzare la compliance contrattuale, assicurandosi che ogni dipendente riceva adeguata informazione sulle regole interne, sottoscriva e condivida le policy aziendali. Definisce in modo chiaro le regole di condotta, le procedure disciplinari e le aspettative di ruolo, rafforzando la posizione dell’azienda in caso di contestazioni ed è utile a dimostrare, in sede legale, la trasparenza e la correttezza dell’azione imprenditoriale, a tutela da richieste risarcitorie. Il regolamento aziendale quando viene formalizzato e comunicato ai lavoratori, diventa vincolante all’interno dell’azienda. Può integrare il contratto di lavoro, purché non contrasti con norme di legge o con il CCNL applicato. – Stabilire con chiarezza quando e perché si ricorre a un contratto a termine, su quali funzioni aziendali e con quali criteri di rinnovo. Questo rende ogni assunzione coerente con le esigenze dell’organizzazione, evitando situazioni ambigue o accuse di abuso.
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