Da trent’anni si è puntato sulla flessibilizzazione, mai lavori buoni scarseggiano e i salari non crescono. Andare a votare serve a portare il tema all’attenzione del governo e della politica
L’anno scorso gli occupati sono cresciuti di 325mila unità, certifica l’Istat nel rapporto annuale. Fine delle buone notizie dal fonte lavoro. Che c’entrano le statistiche con i quesiti referendari? C’entrano, eccome. Partiamo per l’appunto dai numeri dell’Istat. L’occupazione è in recupero al 62,2 per cento, ma l’Italia resta fanalino di coda tra i 27 Paesi Ue. La disoccupazione è al 6,5, nettamente superiore al 5,9 per cento della media europea. L’80 per cento dei nuovi occupati ha più di 50 anni e per i giovanissimi l’occupazione è in cronico calo. L’Italia è un Paese che offre a giovani, donne e meridionali lavoretti, part time, precariato e un salario da fame: meno 4,4 per cento è la perdita di potere d’acquisto nel ’24, rispetto al 2,6 in Francia e all’1,3 per cento in Germania. In Spagna c’è un aumento del 3,9.
Dicevamo, che c’entrano i referendum? «Dalla metà degli anni ‘90, quando nel mercato del lavoro sono state introdotte politiche di flessibilità sono aumentate le disuguaglianze. I dati ci dicono che il 10 per cento più povero dei lavoratori ha perso il 25 per cento di salario rispetto agli anni ‘90: il che spiega in buona parte la caduta del salario medio», spiega a L’Espresso Maurizio Franzini, professore emerito di Politica Economica alla Sapienza di Roma, che continua: «La politica di flessibilizzazione del lavoro doveva aumentare l’occupazione e il tasso di crescita dell’economia, due promesse disattese. In un confronto fra l’oggi e tre decenni fa, si nota la sostanziale stagnazione dell’occupazione, del tasso di crescita del Pil e della produttività. Quindi abbiamo meno giustizia sociale e non più crescita economica». Ecco perché è necessario rimettere al centro dell’agenda politica il lavoro e i salari: «Questi referendum, al di là del merito dei singoli quesiti, preludono a un approccio nuovo al tema, che è indispensabile in questa fase, nella quale possiamo e dobbiamo avere più giustizia sociale e crescita economica di quella degli ultimi 25 anni. Ciò significa che l’argomento “lavoro” non finisce con il referendum, comincia con i referendum, per proseguire con nuove politiche e con l’attenzione a nuovi fenomeni. Senza un risultato elettorale positivo (almeno in termini di affluenza) difficilmente inizierà questa stagione di rinata attenzione al tema».
Scendendo nel dettaglio della materia referendaria, il principio da cui partire è la rimessa al centro del tempo indeterminato, che tiene insieme la necessità del datore di lavoro di avere a disposizione personale preparato e delle persone di poter contare su quello stipendio per costruirsi una vita, una famiglia, un futuro, un’indipendenza. «La centralità del tempo indeterminato non vuol dire che non si può interrompere il rapporto, ma che questa scelta non può essere una decisione arbitraria del datore di lavoro, come avviene nei licenziamenti illegittimi oggetto del referendum», spiega Maria Cecilia Guerra, economista e deputata del Pd. Ciò che tiene insieme i primi 4 quesiti è che la maggiore facilità di licenziamento e l’abuso del contratto a termine «non sono sempre compatibili con la possibilità di costruirsi un futuro», racconta Guerra, che prosegue spiegando come, dal punto di vista economico «questa flessibilità si è portata dietro l’idea di un fattore lavoro che può essere impiegato a basso costo e la debolezza contrattuale dei lavoratori, favorita dalla frammentazione produttiva, si accompagna alle basse retribuzioni. Siamo quindi arrivati a un modello di sviluppo centrato sulla compressione salariale, che ha rallentato la spinta all’innovazione, oggi fondamentale per la competizione internazionale».
Sbaglia chi pensa ai referendum come una mannaia creata per eliminare il Jobs Act perché «anche i più ferventi abolizionisti si guardano bene dall’auspicare il ritorno alle normative antecedenti in materia di indennità di disoccupazione (quando la Naspi sta funzionando), di Cig, di contratti di lavoro parasubordinato (nessuno sente la mancanza dei contratti a progetto)», spiega l’economista Bruno Anastasia, consapevole del fatto che la bandiera da issare l’8 e 9 giugno è il ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori con il ritorno alla “tutela reale” in caso di licenziamento economico riconosciuto dal giudice come immotivato e dunque illegittimo. Premessa doverosa: non esistono dati sul numero di dipendenti che, effettivamente, sono ritornati sul posto di lavoro da cui erano stati illegittimamente allontanati.
Una cronistoria di ciò che è successo negli ultimi 10 anni nel mercato del lavoro, cioè dall’introduzione della riforma del lavoro, è un utile sostegno al voto. «Pre Jobs Act i dipendenti il cui licenziamento veniva ritenuto illegittimo dal giudice venivano risarciti al termine di lunghissimi processi e spesso un accordo economico transattivo tra le parti veniva trovato in itinere. L’incertezza del costo effettivo del licenziamento (se illegittimo) e i grattacapi conseguenti, avevano un fortissimo e riconosciuto effetto deterrente: non solo sui licenziamenti, ma anche sulle assunzioni a tempo indeterminato», ricorda Anastasia, che ne ha parlato anche in un articolo pubblicato su Lavoce.info. La domanda è: la cancellazione dell’articolo 18 ha favorito l’indeterminato e contribuito a far correre l’economia? «A marzo 2015 entra in vigore il Jobs Act e a fine di quell’anno le assunzioni a tempo indeterminato sfiorarono i 2 milioni, record tuttora imbattuto. A cui si aggiunge mezzo milione di trasformazioni dal tempo determinato (anch’esso un valore mai più visto). Ma non fu merito del superamento dell’articolo 18 bensì dell’introduzione, in quello stesso anno, dell’esonero triennale: ovvero un’inedita incentivazione (fino a 24mila euro) al tempo indeterminato, valida solo per il 2015, innovativa per chiarezza e semplicità dei requisiti richiesti. Chi ha provato a distinguere il peso dell’esonero dall’introduzione del Jobs Act sul boom di assunzioni – i primi sono stati Paolo Sestito ed Eliana Viviano di Banca d’Italia – hanno riconosciuto la nettissima prevalenza dell’effetto esonero rispetto alle modifiche di legge». E infatti le imprese, fatto il pieno di organici a tempo indeterminato, hanno smesso di assumere in massa.
Nel contempo, a partire dal 2017, si è impennato il ricorso al lavoro a termine: l’Inps certifica che per la prima volta si sono superate nel corso di quell’anno le tre milioni di assunzioni a termine. Eppure il tempo determinato doveva essere morto e sepolto, stroncato dal contratto a tutele crescenti, data la “maggior facilità” di poter ricorrere ai licenziamenti. «Evidentemente le imprese continuano a preferire, ove possibile, il contratto a termine. La formula delle tutele crescenti non pare un incentivo sufficiente a cambiare inveterate abitudini e visioni a proposito del rischio di assumere a tempo indeterminato: gli habitus mentali non si modificano con una norma», spiega Anastasia a L’Espresso. Ma c’è anche dell’altro: da un lato l’onda lunga (ritardata) del decreto Poletti del 2014, dall’altro l’effetto, per così dire, dei “vasi comunicanti” generato dalla chiusura di altre tipologie di rapporti di lavoro (contratti a progetto, di associazione in partecipazione abrogati dal Jobs Act e i lavori a voucher aboliti nel ‘17) come documentato dettagliatamente nel Rapporto Inps 2018. Il decreto Poletti aveva introdotto l’acausalità nella regolazione dei contratti a termine, puntando – a fini di controllo (che tuttavia non ci sono stati – sui limiti oggettivi (durate, quote, numerosità).
Paradossalmente, la crescita dei rapporti di lavoro a tempo determinato tra il 2017 e il 2018 è la premessa per il parziale successo del Decreto dignità voluto dal governo giallo-verde nel 2018. In concreto si tratta soprattutto di alcuni disincentivi: il parziale ritorno alla causalità da un lato e il rafforzamento di alcuni limiti numerici dall’altro. Gli effetti si dispiegano tra la fine del 2018 e il 2019. Come spiega l’economista a L’Espresso, l’effetto più significativo è l’accelerazione delle trasformazioni in tempo indeterminato, che superano per la prima volta nel 2019 le 700mila unità. Quanto alla numerosità dei nuovi contratti a termine si osserva – nonostante i proclami – una marginale riduzione: anche nel 2019 si mantengono sopra i 3 milioni. Netto invece risulta l’impatto sui contratti di somministrazione con l’inversione a favore di quelli a tempo indeterminato, che iniziano a crescere significativamente, mentre quelli a tempo determinato si riducono. Superato il blocco del mercato del lavoro pandemico, si arriva ai giorni nostri con la Consulta che ritiene del tutto opportuno e logico rivisitare e precisare la regolamentazione dei rapporti di lavoro. Forse il referendum non cambierà la vita alla maggioranza dei lavoratori. Ma parteciparvi significa tirare per la giacchetta la politica, i sindacati e le imprese, affiché si torni tutti a parlare di lavoro buono e aumento salariale.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link