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Puntare solo sul turismo rischia di ampliare i divari dell’economia italiana


La turistificazione all’estrema potenza farà sì che in Italia si investa meno in nuove imprese, tecnologie e ricerca scientifica

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Che il turismo sia considerato l’ultima “frontiera” dello sviluppo italiano mostra quanto questo paese e la sua classe dirigente siano davvero giunti al capolinea. Che per far fronte al declino incipiente si debba affermare che «siamo uno dei paesi più belli del mondo, puntiamo sul turismo!», per farne addirittura una “super-potenza”, significa che si ha davvero un’idea distorta dello sviluppo (o che forse non se ne ha alcuna).

Come si può ragionevolmente pensare che «il turismo è il motore trainante dell’economia» (cit. Meloni) come se fossimo Mauritius o Maldive? Il «più grande museo del mondo a cielo aperto» può davvero trainare lo sviluppo della quarta economia europea? Di quale sviluppo stiamo parlando?

Il punto non è tanto lamentarsi dell’overtourism, della gentrificazione dei centri storici popolati di bed & breakfast e abitati da migliaia di turisti errabondi, di affitti che esplodono, che pure paiono gli aspetti negativi più evidenti del fenomeno. La turistificazione all’estrema potenza, peraltro, non sembra destinata ad arrestarsi a breve e non riguarda solo l’Italia, perché il turismo globale continua a crescere, grazie all’ascesa delle classi medie dei paesi emergenti che viaggeranno sempre di più.

Le località più belle a livello mondiale sono sempre le solite – come Venezia, Roma o Firenze – e non si possono replicare (e quanti milioni di nuovi turisti potranno attrarre?). Ma è un flusso di persone e valuta “impoverente” che farà sì che in Italia si investirà meno in nuove imprese, tecnologie e ricerca scientifica, preferendo la rendita grazie agli immobili accumulati, sfruttando allo stesso tempo i lavori a bassa remunerazione. Non è un caso che una delle mode che più ha preso piede in Italia negli ultimi dieci anni sia aprire un’attività nel settore food, e non investire massicciamente sulle tecnologie di frontiera o sulla ricerca scientifico-culturale.

Il turismo e i settori della ricezione e della ristorazione hanno bassissimo valore aggiunto, generano occupazione precaria a bassi salari, spesso in nero, e non creano indotto: a beneficiarne, poi, è solo una parte della popolazione, i proprietari delle attività e chi gode delle rendite immobiliari. Il commercio al dettaglio ne gode, meno l’artigianato. Ma non vi sono altre ricadute, mentre infrastrutture e trasporti ne sopportano il carico, senza investimenti. In questo caso come in altri, invece di investire e guardare avanti – che sarebbe vero “sviluppo” – puntiamo su ciò che abbiamo, per sfruttarlo, incuranti della manutenzione e degli effetti collaterali, dal sovraffollamento allo snaturamento delle nostre città e dei mille borghi, nati secoli fa con altre funzioni e caratteristiche.

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C’è uno sviluppo che sembra configurarsi per i prossimi anni che vede un’ulteriore spinta alla divisione dell’Italia in tre macro-aree che si possono così riassumere: 1) un’area settentrionale (a macchia, però), “produttiva”, che assorbe i giovani in fuga dal sud, mantiene quel che rimane dell’industria italiana e dei servizi più integrati nei circuiti globalizzati; 2) città d’arte e luoghi turistici (Cinque terre, Costiera amalfitana, etc.), che diventano luna-park invivibili, dedicati ai visitatori, così come altre zone turistiche sparse per la Penisola che vivono di rendita; 3) zone periferiche e aree interne depresse, in rapido spopolamento, soprattutto in Piemonte, nel Centro e in tutto il Mezzogiorno.

Niente agricoltura, niente piccola impresa, niente attività industriali e nei servizi avanzate nelle zone non “vocate”. Solo rendite, sfruttando il paesaggio naturale e artistico, a costo zero, che tanto poi si vedrà. Un’Italia dei divari destinati ad ampliarsi.

Di fronte alla mancanza di politiche industriali, territoriali e dello sviluppo, dell’innovazione e della ricerca, si pensa solo a sfruttare l’esistente nel modo più deprimente: trasformando valli e borghi in location turistiche, magari facendo dei villaggi abbandonati un’attrattiva (già ce ne sono sparsi per l’Italia), invece di dare prospettive ai nativi e ai residenti con attività agricole o artigianali di spicco; rendendo le nostre città delle Las Vegas più autentiche delle copie americane; soddisfacendo la rendita urbana per i ceti medi impoveriti, che così possono sbarcare il lunario, lamentandosi poi che le amministrazioni cittadine non possono provvedere ai servizi necessari per i residenti.

Uno sviluppo passivo, parassitario e impoverente, che non lascerà tracce per il futuro se non enormi spiagge e piazze da ripulire e mantenere per evitarne il degrado e una classe di lavoratori senza professionalità da poter spendere altrove.

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