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Le PMI francesi travolte dalla crisi


Pubblichiamo di seguito una traduzione e sintesi di un articolo comparso la scorsa settimana su Le Monde, che – con il supporto di dati economici e analisi tecniche – testimonia la crisi profonda e trasversale che sta colpendo l’industria europea nel contesto della riconversione bellica.

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A essere investiti da questa transizione non sono infatti soltanto i paesi periferici dell’Unione, ma anche quelli del cosiddetto core europeo, come la Francia, dove l’impatto sociale ed economico delle nuove politiche industriali si sta manifestando in modo sempre più evidente.

Uno dei casi più emblematici è quello dello stabilimento ArcelorMittal di Dunkerque, tra i più importanti impianti siderurgici europei. L’azienda ha annunciato un piano di ristrutturazione che prevede il licenziamento di centinaia di lavoratori – una misura che ha immediatamente sollevato proteste da parte dei sindacati, della società civile e di diverse forze politiche. La mobilitazione ha assunto rapidamente dimensioni nazionali, trasformando la vertenza in un caso politico, finito al centro del dibattito anche durante le celebrazioni del Primo Maggio.

Proprio in occasione del primo maggio, i riflettori si sono concentrati su Dunkerque, dove gli operai dell’acciaieria sono scesi in sciopero per denunciare i rischi occupazionali e ambientali legati alla riconversione “verde” e alla riallocazione degli investimenti in funzione delle nuove priorità belliche europee.

Ma il caso ArcelorMittal non è un’eccezione isolata, né in Francia, né nel resto d’Europa. Dalla Germania alla Spagna, passando per Belgio, Italia e Paesi Bassi, sono sempre più numerose le imprese industriali, in particolare nel comparto metallurgico, energetico e automobilistico, a vivere una fase di profonda incertezza e riconfigurazione.

Gli obiettivi di decarbonizzazione si intrecciano con politiche di riarmo e riconversione della produzione a scopi militari, imponendo una trasformazione accelerata per la quale le aziende sono preparate.

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Molti osservatori denunciano il rischio di una “transizione punitiva”, che scarica i costi sulle fasce più vulnerabili della forza lavoro, mentre gli incentivi pubblici finiscono per favorire i grandi gruppi transnazionali senza garantire occupazione stabile o sostenibilità sociale.

Vediamo l’inchiesta sul caso francese. Partout en France, les PME balayées par la crise :

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ANALISI – Tra inflazione, costi energetici e tensioni commerciali, migliaia di imprese francesi lottano per sopravvivere. Le procedure concorsuali hanno toccato nel 2024 il livello più alto degli ultimi quindici anni e continuano a crescere nel 2025.

Mentre 200 imprenditori celebrano la creatività francese al castello di Versailles durante il summit Choose France, la realtà nei tribunali commerciali è ben diversa. A Bordeaux, la mole di aziende in crisi ha reso necessaria una terza sezione del tribunale. Solo nel primo trimestre 2025, 17.897 imprese sono entrate in procedura giudiziaria, tra cui oltre 12.000 in liquidazione. L’aumento è del 2,3% rispetto all’anno precedente, con circa 50.000 posti di lavoro coinvolti.

Le testimonianze raccolte rivelano difficoltà comuni: aumento dei costi energetici, scarsa visibilità e nuove pressioni come i dazi doganali rilanciati da Donald Trump. A queste si sommano trasformazioni settoriali che colpiscono duramente l’automotive e l’abbigliamento.

I licenziamenti si moltiplicano. Nel quarto trimestre 2024, il Ministero del Lavoro ha registrato 157 piani di salvaguardia dell’occupazione (PSE), in crescita dell’11,3%, con 11.300 posti tagliati. Su base annua, i PSE sono aumentati del 38,9%.

Il 13 maggio, in diretta su TF1, la leader della CGT, Sophie Binet, ha mostrato a Emmanuel Macron una mappa dei piani sociali: 400 contro i 130 dell’anno precedente, con 200.000 posti di lavoro a rischio. «Questa mappa rappresenta ogni volta drammi umani, sofferenze e incertezze. Non la sottovaluto e siamo mobilitati su ogni sito», ha risposto il capo dello Stato, sottolineando come essa rifletta «realtà molto diverse». Le Monde ha scelto di raccontarne alcune.

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Nelle turbolenze della congiuntura internazionale

Dalla Vandea all’Ucraina, le piccole e medie imprese francesi affrontano una lunga serie di scossoni. Benoît Carré, a capo di un’azienda storica di macchine agricole, aveva appena firmato un contratto milionario a Zaporijia poco prima dell’invasione russa del 2022. «Abbiamo restituito il deposito. Da lì è iniziata la nostra discesa», racconta. La guerra, l’impennata dei prezzi dell’energia e l’inflazione delle materie prime hanno colpito duramente. Il suo fatturato è crollato da 21 a 9,5 milioni in due anni; i dipendenti da 140 a 80.

Con vendite crollate e rate residue di un vecchio piano di salvaguardia, Carré ha chiesto l’amministrazione controllata. «Ci salva nel lungo termine, ma ha un costo: oltre 100.000 euro in consulenze». Una situazione aggravata dalla mancanza di visibilità e dal contesto geopolitico instabile.

Storie simili si ripetono in tutta l’industria francese. BeLink Solutions, azienda elettronica di Sarthe, un tempo fiore all’occhiello del settore, ha visto gli organici scendere da 1.000 a 140 persone e i ricavi crollare da 300 a 15 milioni. Anche MMT-B, ex impianto Ford a Blanquefort, oggi del fondo tedesco Mutares, ha annunciato 197 esuberi. In entrambi i casi, anni di acquisizioni e mancati investimenti hanno lasciato le imprese vulnerabili.

«Soffriamo una tripla pressione: regolamentare, tecnologica e concorrenziale», afferma Olivier Boidin, direttore di MMT-B, che dipende ancora quasi esclusivamente da Ford. Progetti di diversificazione, come colonnine elettriche o robot da giardino, restano insufficienti. I lavoratori restano diffidenti verso i fondi azionisti, accusati di non aver investito davvero nei siti.

Anche la ristorazione è in crisi nera. In Charente, Brice Labarde, cuoco de L’Alchimiste, ha richiesto la proroga della protezione giudiziaria. «Da dieci siamo rimasti in cinque», spiega. I ristoratori denunciano costi triplicati, meno clientela d’affari e margini ridotti: «Il burro è passato da meno di 4 a 9,60 euro al chilo», dice Christophe Beuque di Chez Paul, che ha dimezzato lo staff. Dal 2019, le insolvenze nel settore con oltre 10 dipendenti sono cresciute del 218%.

Nel solo primo trimestre 2025, sono stati 2.783 i casi nel comparto alberghiero e ristorativo, +36,3% in un anno. Secondo il Consiglio degli amministratori giudiziari, il 94% delle aziende in procedura ha meno di 10 dipendenti. Una crisi diffusa, silenziosa, che sta svuotando il cuore produttivo della Francia.

Le ristrutturazioni senza fine nel commercio dell’abbigliamento

Il 13 maggio, una trentina di dipendenti del tech-center di Etam hanno manifestato contro la chiusura del sito di Marcq-en-Barœul, unico centro di progettazione in Francia, che comporterà il loro licenziamento. L’azienda motiva la decisione con la bassa attività del sito e con un contesto economico difficile: inflazione, aumento dei costi e cambiamenti nei consumi.

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La crisi del settore dell’abbigliamento prosegue: dopo Camaïeu, anche Jennyfer è in pericolo con 999 posti di lavoro a rischio. Il destino degli altri lavoratori non è migliore: André è di nuovo in amministrazione controllata, con vendite in calo e solo 16 negozi rimasti. Intanto, la precarietà nel settore colpisce soprattutto donne e giovani con contratti instabili.

Le ex dipendenti Etam temono di non poter più esercitare il loro mestiere in Francia, ormai svuotata di produzione.

Il fardello della pandemia di Covid-19

Quando Le Moulin, la sua azienda di ristorazione rapida e fatta in casa con filiera corta, è stata messa in amministrazione controllata, Tom Thiellet l’ha subito reso noto sui social. «Questo può preoccupare clienti e fornitori, ma è anche un modo per informare: il grande pubblico non si rende conto di quanto sia difficile e brutale dirigere un’azienda negli anni che stiamo attraversando», spiega.

Fondata a Lione nel 2006, l’azienda – riconosciuta come “impresa solidale di utilità sociale” – impiega 90 dipendenti in due punti vendita e un laboratorio di produzione. Il suo modello di pasti da asporto o consegnati per i “cittadini attivi” di Lione e di catering per eventi è stato particolarmente colpito dalle restrizioni sanitarie.

«Abbiamo usufruito della cassa integrazione per i nostri dipendenti, ma non copriva l’intero stipendio, quindi abbiamo deciso di pagare la differenza», ricorda Tom Thiellet. «Bisognava anche continuare a pagare i contributi. Ogni periodo di restrizioni sull’attività degli eventi significava una perdita del 30-35% del nostro fatturato. Non riuscivamo più a far fronte alle spese, il prestito garantito dallo Stato è stata l’unica soluzione che ci è stata proposta

Introdotti nel 2020, i prestiti garantiti dallo Stato (PGE), che potevano superare i limiti abituali (fino al 25% del fatturato), hanno attratto soprattutto le TPE (microimprese, meno di 10 dipendenti e meno di 2 milioni di fatturato) e le PMI (fino a 250 dipendenti e 50 milioni di fatturato): hanno ricevuto il 98% degli 804.000 PGE concessi (escluse le grandi imprese), secondo BPIFrance. Secondo un bilancio della Federazione bancaria francese del 25 marzo, «il rimborso procede come previsto». Tuttavia, il 4% dei dirigenti di TPE-PMI teme di non riuscire a rimborsare.

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Le Moulin ha ottenuto 650.000 euro. Ma ha dovuto affrontare l’inflazione dei prezzi alimentari, il quadruplicarsi della bolletta elettrica e l’espansione del telelavoro. «Con le persone che lavorano da casa due o tre giorni alla settimana, abbiamo dovuto trovare il doppio dei clienti per mantenere i volumi di vendita», spiega Tom Thiellet.

Un incontro di conciliazione con la banca, all’inizio del 2023, ha permesso di rinviare il rimborso, ma con un aumento dei tassi d’interesse. Nonostante un incremento del 15% del fatturato tra il 2023 e il 2024, non è bastato. «Abbiamo voluto da soli creare le condizioni per rimborsare il nostro debito, fino a metterci a rischio», ammette Thiellet. «L’amministrazione controllata ci ha dato respiro, forse avremmo dovuto farlo prima.»

Grandi gruppi che si ristrutturano per restare competitivi

Diverse imprese in utile hanno deciso di ridurre il personale nelle ultime settimane, annunciando piani di salvaguardia dell’occupazione (PSE) nell’ambito di “piani di riorganizzazione”, come nel caso di ArcelorMittal (636 posti), o di “adeguamenti operativi”, come per il produttore di vetro O-I Glass con il piano Fit to Win – «in forma per vincere» – (556 posti). Misure presentate come necessarie per mantenere la «competitività» in un contesto di crisi.

Il gruppo siderurgico deve affrontare una «diminuzione della domanda e un forte aumento delle importazioni» di acciaio europeo, in un contesto di feroce concorrenza cinese, aumento dei costi energetici in Europa e incremento del 25% dei dazi su acciaio e alluminio imposti da Donald Trump.

O-I Glass, dal canto suo, parla di un «mercato del vetro in Francia messo a dura prova, principalmente per via del rallentamento del mercato vinicolo». Il settore del vino vive un calo continuo delle vendite, passate da 46 milioni di ettolitri negli anni ’70 a 24 milioni nel 2023. Il fatturato del gruppo americano è sceso dell’8% nel 2024, attestandosi a 6,5 miliardi di dollari, a causa del calo dei volumi ma anche dell’aumento dei costi di gestione degli stock.

In entrambi i casi, questi annunci hanno suscitato la collera dei sindacati. Pur non negando le difficoltà, quelli di ArcelorMittal hanno immediatamente contrapposto i buoni risultati del gruppo, che nel 2024 ha registrato un utile netto di 1,34 miliardi di dollari. «Si può giustificare tutto, se si è in malafede», commenta Stéphane Leroy, delegato CGT presso O-I Glass. «Se colpiscono il personale, è prima di tutto per conservare i margini di profitto.» O-I Glass ha registrato un utile ante imposte di 38 milioni di dollari, in calo rispetto ai 67 milioni del 2023.

* da Le Monde

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