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Che Cos’è La Ristrutturazione Dei Debiti Per Una Società?


La tua società sta affrontando una situazione di crisi finanziaria, con debiti verso banche, fornitori o l’erario? La ristrutturazione del debito rappresenta una soluzione legale per riorganizzare le passività e garantire la continuità aziendale.

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Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto societario, crisi d’impresa e risanamento aziendale – ti spiega in modo chiaro cos’è la ristrutturazione del debito, chi può accedervi e come funziona la procedura per superare le difficoltà finanziarie.

Scoprirai:

  • Cos’è la ristrutturazione del debito: un processo attraverso il quale una società in difficoltà negozia con i creditori nuove condizioni di pagamento, al fine di rendere il debito sostenibile e preservare l’operatività dell’impresa.
  • Chi può accedervi: tutte le società che si trovano in stato di crisi o insolvenza, ma che presentano prospettive di risanamento e continuità aziendale.
  • Le principali tipologie di accordi:
    • Accordo di ristrutturazione ordinario: richiede l’adesione di creditori che rappresentino almeno il 60% dei crediti.
    • Accordo di ristrutturazione agevolato: prevede l’adesione di almeno il 30% dei creditori e non comporta misure protettive per i creditori non aderenti.
    • Accordo ad efficacia estesa: estende gli effetti dell’accordo anche ai creditori non aderenti appartenenti alla stessa categoria, se approvato da almeno il 75% dei creditori di quella categoria.
  • Come funziona la procedura:
    • Fase negoziale: la società elabora un piano di ristrutturazione e negozia con i creditori le nuove condizioni.
    • Omologazione: l’accordo raggiunto viene sottoposto all’approvazione del tribunale competente, che ne verifica la legittimità e la fattibilità.
    • Esecuzione: una volta omologato, l’accordo diventa vincolante e la società procede con l’attuazione del piano.
  • Vantaggi della ristrutturazione del debito:
    • Sospensione delle azioni esecutive: durante la procedura, possono essere sospese le azioni legali dei creditori.
    • Continuità aziendale: la società può proseguire l’attività, preservando posti di lavoro e valore aziendale.
    • Risanamento finanziario: rinegoziazione dei debiti per renderli sostenibili nel lungo termine.

Con l’assistenza di un avvocato esperto, puoi valutare la situazione della tua società, identificare la procedura più adatta e guidare l’impresa verso il risanamento finanziario.

Alla fine della guida potrai richiedere una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo, per analizzare la tua situazione e valutare la strategia più efficace per la ristrutturazione del debito della tua società.

La ristrutturazione dei debiti di una società è un processo giuridico ed economico mediante il quale un’impresa in difficoltà negozia nuovi accordi con i creditori o accede a procedure concorsuali al fine di modificare scadenze, importi o condizioni dei propri debiti, evitando ove possibile la liquidazione giudiziale (il termine che ha sostituito la parola “fallimento” nel nostro ordinamento). In altre parole, si tratta di un insieme di strumenti previsti dalla legge che mirano a risanare l’impresa o a gestirne la crisi in modo ordinato, preservando il valore aziendale il più possibile. La logica sottostante al moderno diritto concorsuale italiano, profondamente riformato dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d.lgs. 12 gennaio 2019 n. 14, di seguito CCII), è quella di considerare la crisi un fenomeno fisiologico nella vita di un’impresa e di privilegiare, quando attuabile, la continuità aziendale rispetto alla liquidazione. L’imprenditore non è più visto con stigma morale in caso d’insolvenza, bensì come un soggetto che può attraversare fasi di difficoltà da gestire con strumenti legali appropriati.

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Il nuovo CCII (entrato in vigore definitivamente il 15 luglio 2022, dopo vari rinvii) ha sostituito la storica Legge Fallimentare (R.D. 267/1942) introducendo una disciplina organica e aggiornata delle procedure di crisi. Esso recepisce anche la normativa europea in materia di ristrutturazioni preventive e insolvenza (Direttiva UE 2019/1023), ponendo l’accento su interventi tempestivi e sulla prevenzione dell’insolvenza. In quest’ottica il Codice ha introdotto obblighi di predisposizione di assetti organizzativi adeguati (art. 3 CCII e art. 2086 c.c. riformato) per consentire una rapida emersione degli indizi di crisi e una altrettanto rapida reazione da parte degli organi societari. Sono stati definiti parametri di allerta – come il ritardo nel pagamento di debiti fiscali, contributivi, salariali oltre determinate soglie – che fungono da segnali precoci di difficoltà finanziaria. Il sistema dell’“allerta” nel suo complesso è stato rimodulato nel corso degli anni: il previgente meccanismo di segnalazione obbligatoria a cura di organi pubblici (le procedure di allerta esterne con l’OCRI) è stato in gran parte sostituito da strumenti più volontari e negoziali, primo fra tutti la Composizione negoziata della crisi introdotta nel 2021. Resta comunque in vigore l’obbligo per alcuni creditori pubblici qualificati (Agenzia Entrate, INPS, ecc.) di inviare segnalazioni di sollecito all’impresa quando l’esposizione debitoria supera determinate soglie (artt. 25-octies e ss. CCII), per stimolare l’imprenditore a intraprendere iniziative di risanamento.

Dal punto di vista terminologico e concettuale, il CCII ha innovato molte definizioni chiave. In particolare:

  • per stato di crisi si intende «lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore» (art. 2, co. 1, lett. a, CCII), manifestandosi come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni nei successivi 12 mesi (orizzonte temporale esteso dal correttivo 2022, in precedenza era 6 mesi);
  • per stato di insolvenza si intende invece la situazione già conclamata di incapacità del debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni (definizione sostanzialmente ripresa dalla vecchia legge fallimentare, ora all’art. 2, co. 1, lett. b CCII).

Sono poi delineati nuovi strumenti giuridici per affrontare le diverse fasi della difficoltà d’impresa. Il Codice infatti parla di “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”, un’espressione omnicomprensiva che include sia le tradizionali procedure concorsuali giudiziali sia alcuni accordi negoziali di ristrutturazione. A maggio 2025, gli strumenti principali previsti dal CCII (come modificato dai più recenti interventi legislativi) per la ristrutturazione dei debiti di una società sono i seguenti:

  • Concordato Preventivo – una procedura concorsuale giudiziale che consente all’imprenditore di proporre ai creditori un piano di ristrutturazione, soggetto all’approvazione dei creditori stessi e all’omologazione da parte del tribunale.
  • Accordi di Ristrutturazione dei Debiti – un meccanismo negoziale ma con omologazione giudiziale, basato su un accordo stipulato con una parte qualificata dei creditori (di regola almeno il 60%) e reso efficace erga omnes dall’intervento del tribunale.
  • Piani Attestati di Risanamento – un accordo privatistico stragiudiziale, supportato da un piano industriale-finanziario asseverato da un professionista indipendente, che consente all’impresa di eseguire operazioni di risanamento con una protezione limitata (soprattutto in termini di esenzione da revocatoria fallimentare) ma senza coinvolgimento del tribunale.
  • Composizione Negoziata della Crisi – un percorso introdotto di recente (dal D.L. 118/2021, confluito nel CCII) che offre all’imprenditore in crisi uno strumento volontario e confidenziale di negoziazione assistita da un esperto indipendente, volto a individuare soluzioni di risanamento, eventualmente anche tramite accordi con i creditori o accesso ad altre procedure. In caso di esito negativo ma trattative svolte correttamente, l’imprenditore può accedere a un concordato semplificato per liquidare il patrimonio sotto controllo del tribunale.

A queste si aggiungono, per completezza, altri istituti speciali disciplinati dal Codice (come la convenzione di moratoria tra creditori finanziari, i piani di ristrutturazione soggetti a omologazione – noti anche con l’acronimo PRO – introdotti nel 2022 in attuazione della Direttiva UE, e le procedure di sovraindebitamento riservate ai soggetti minori o non fallibili). Nel prosieguo della guida ci concentreremo però sugli strumenti di regolazione della crisi societaria più comuni – concordato, accordi di ristrutturazione, piani attestati e composizione negoziata – analizzandone dettagliatamente la disciplina aggiornata al maggio 2025, le condizioni di accesso previste dal Codice della crisi (inclusi gli ultimi correttivi legislativi), le modalità di applicazione alle diverse tipologie di società (S.r.l., S.p.A., società cooperative, ecc.), nonché i relativi vantaggi, criticità e procedure. Verranno illustrati esempi pratici e casi giurisprudenziali recenti (anni 2024–2025) con brani estratti dalle motivazioni delle sentenze più significative. Troverete inoltre, per ciascun istituto, tabelle riepilogative e, in chiusura, una sezione di FAQ – domande e risposte frequenti – sugli aspetti applicativi della ristrutturazione del debito societario. Una Bibliografia e Riferimenti normativi-giurisprudenziali conclude la guida, indicando le fonti utilizzate e consigliate per approfondire.

Il Codice Della Crisi D’Impresa e le Recenti Riforme (fino al 2025)

Prima di entrare nel merito dei singoli strumenti, è opportuno delineare il quadro normativo di riferimento, ossia il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza e le sue evoluzioni fino a oggi. Il CCII nasce in attuazione della legge delega 155/2017, con l’obiettivo di riformare integralmente la disciplina delle procedure concorsuali in Italia. È stato emanato con D.Lgs. 14/2019 ma la sua entrata in vigore è stata più volte differita: inizialmente prevista per agosto 2020, è slittata a settembre 2021 e infine al 15 luglio 2022, data dalla quale il Codice è operativo a tutti gli effetti. Questo periodo di vacatio legis prolungata è stato caratterizzato da interventi correttivi e dall’emanazione di norme transitorie per gestire l’impatto della pandemia Covid-19 sulle imprese.

Le modifiche legislative più recenti possono essere riassunte come segue:

  • D.Lgs. 147/2020 (c.d. “Correttivo al Codice della crisi”) – Ha introdotto primi aggiustamenti al testo originario del 2019 e, soprattutto, ha posticipato l’entrata in vigore del Codice a settembre 2021, tenendo conto dell’emergenza pandemica.
  • D.L. 118/2021 convertito con mod. in L. 147/2021 – Ha previsto l’immediata introduzione (a partire dal 15 novembre 2021) della Composizione negoziata della crisi, uno strumento innovativo e volontario per la gestione precoce della crisi. Contestualmente, ha abrogato le precedenti procedure di allerta e composizione assistita della crisi che il CCII 2019 avrebbe dovuto implementare, sostituendole con questo approccio più flessibile e riservato. Lo stesso decreto ha introdotto anche il Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies CCII) quale possibile esito delle composizioni negoziate infruttuose, e ha anticipato alcune norme di favore per il risanamento (es. esenzione da tassazione delle sopravvenienze attive da esdebitazione).
  • D.Lgs. 83/2022 – È il decreto emanato in attuazione della Direttiva (UE) 2019/1023. Approvato poco prima della data di efficacia del Codice, ha modificato in modo sostanziale il CCII prima ancora che entrasse in vigore. Tra le novità principali introdotte vi sono: la disciplina dei Piani di ristrutturazione soggetti a omologazione (PRO) con classi di creditori e possibili cram-down interclassi (cfr. art. 64-bis, 64-ter, 64-quater CCII); l’estensione dell’accordo di ristrutturazione con intervento del fisco e degli enti previdenziali (c.d. cram down fiscale) poi regolato all’art. 63 CCII; una rivisitazione dei quorum e delle maggioranze nelle votazioni; l’enfasi sulla continuità aziendale e sulla sostenibilità del debito come criteri guida. È stato fissato al 15 luglio 2022 l’inizio di vigenza del Codice con tutte queste modifiche.
  • D.Lgs. 13 ottobre 2022 n. 149 (Primo decreto correttivo) – In vigore dal dicembre 2022, ha apportato una serie di correzioni e chiarimenti al CCII sulla base delle prime prassi applicative. Ad esempio, ha semplificato alcuni adempimenti procedurali, chiarito il coordinamento tra composizione negoziata e procedure concorsuali e introdotto miglioramenti tecnici in vari articoli.
  • D.Lgs. 13 settembre 2024 n. 136 (Terzo correttivo) – Ulteriore intervento di fine 2024, volto ad affinare il quadro normativo dopo circa due anni di applicazione. Esso ha, tra l’altro, ampliato la portata del Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione consentendo anche al suo interno la transazione fiscale e contributiva (aggiunta del comma 1-bis all’art. 64-bis CCII). Inoltre, è stato modificato il lessico del Codice sostituendo riferimenti alle “procedure concorsuali” con “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza” per sottolineare l’unitarietà di fondo degli istituti (concetto già menzionato sopra). Il terzo correttivo ha anche coordinato la disciplina del concordato preventivo con quella del PRO e chiarito alcune norme in materia di domanda di concordato “in bianco” (con riserva) e di misure protettive.

In aggiunta a questi interventi principali, vi sono stati aggiustamenti minori (ad es. nel 2023 con il D.L. 83/2023 sul Codice di giustizia tributaria sono state ritoccate disposizioni sulla transazione fiscale). Complessivamente, a maggio 2025 il CCII si presenta come un testo profondamente integrato con la normativa europea e affinato dall’esperienza iniziale.

Soggetti Destinatari e Ambito di Applicazione

Un aspetto cruciale da comprendere, ai fini della ristrutturazione del debito, è quali imprese e quali società possano accedere ai diversi strumenti previsti. Il Codice della crisi, in continuità con la previgente legge, distingue gli imprenditori in base alla loro natura e dimensione, riservando le procedure concorsuali maggiori (concordato preventivo, liquidazione giudiziale, accordi di ristrutturazione, ecc.) agli imprenditori commerciali non piccoli, e prevedendo invece percorsi semplificati per gli altri debitori.

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In particolare:

  • Imprese soggette alle procedure ordinarie: gli imprenditori commerciali che superano le soglie dell’art. 2, co. 1, lett. d) CCII (cosiddette imprese non “minori”). I parametri indicativi – analoghi a quelli già noti nella legge fallimentare – sono: attivo patrimoniale annuo superiore a 300.000 €, ricavi lordi annui superiori a 200.000 €, debiti anche non scaduti superiori a 500.000 €. Se l’impresa negli ultimi esercizi ha superato almeno uno di questi limiti, non è qualificabile come “minore” e dunque rientra nel campo di applicazione pieno delle procedure concorsuali (concordato preventivo, accordi, ecc.). Tipicamente rientrano in questo novero tutte le società di capitali (S.r.l., S.p.A., S.a.p.a.), salvo casi di società molto piccole; inoltre rientrano le società di persone (S.n.c., S.a.s.) che abbiano un’attività d’impresa di dimensioni non minime. Anche le società cooperative – che svolgono attività commerciale – vi rientrano se superano le soglie; per esse però, come vedremo, permane la possibilità di liquidazione coatta amministrativa in luogo della liquidazione giudiziale. Sono invece esclusi dall’accesso al concordato preventivo (e liquidazione giudiziale) gli imprenditori agricoli e gli enti non commerciali, a prescindere dalle dimensioni, analogamente a quanto avveniva in passato – tuttavia gli imprenditori agricoli possono avvalersi degli accordi di ristrutturazione e dei piani attestati, come chiarito dal CCII.
  • Imprese “minori” e altri debitori civili: se l’imprenditore non supera nessuno dei tre parametri di cui sopra, è qualificato come impresa minore e non può essere assoggettato a concordato preventivo né a liquidazione giudiziale (salvo opti volontariamente per quest’ultima, il che è dibattuto). Per queste categorie – che includono anche i piccoli imprenditori commerciali, gli imprenditori agricoli di qualsiasi dimensione e i professionisti e consumatori sovraindebitati – il Codice prevede le Procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento (Titolo IV, Capo II CCII). In particolare, un imprenditore minore può accedere al Concordato minore (artt. 74-83 CCII) o alla liquidazione controllata (artt. 268-277 CCII) in caso di insolvenza, mentre un consumatore può proporre la Ristrutturazione dei debiti del consumatore (art. 67 e ss.). Tali procedure, che non approfondiremo nel dettaglio, ricalcano per molti aspetti il concordato preventivo e la liquidazione giudiziale ma con adattamenti semplificati. Si segnala comunque che i piani attestati di risanamento e la composizione negoziata sono accessibili a qualsiasi imprenditore, anche sotto soglia o agricolo, data la loro natura volontaria e stragiudiziale.

In sintesi, una società di capitali (S.r.l. o S.p.A.) avrà normalmente piena disponibilità di tutti gli strumenti di regolazione della crisi previsti dal Codice (salvo rarissimi casi in cui fosse di dimensioni microscopiche). Una società cooperativa parimenti può attivare concordati, accordi, piani, ecc., ma se dovrà essere liquidata si seguirà la via della liquidazione coatta amministrativa ex art. 2545-terdecies c.c. e art. 294 CCII, su provvedimento dell’autorità governativa. Le società di persone sopra soglia possono accedere a concordato e accordi; occorre però ricordare che in caso di insolvenza di una società personale, i soci illimitatamente responsabili sono coinvolti con patrimonio personale (possono essere dichiarati falliti in estensione oppure, oggi, essere soggetti ad insolvenza con la società). Ciò complica le ristrutturazioni, giacché il piano per una S.n.c. o S.a.s. dovrebbe tenere conto anche del destino dei debiti nei confronti dei soci. Spesso, ai fini di ristrutturare efficacemente una società di persone, si prevede il concordato anche per i soci, oppure la trasformazione in società di capitali prima di accedere alla procedura concorsuale.

Doveri degli Organi Sociali in Situazione di Crisi

La riforma ha posto grande enfasi sulla responsabilità degli organi societari (amministratori in primis) nella gestione tempestiva della crisi. L’art. 3 CCII e il novellato art. 2086 c.c. impongono all’organo amministrativo di istituire assetti adeguati per rilevare gli indizi di crisi e di attivarsi senza indugio per adottare uno strumento di risanamento idoneo. In concreto, appena emergono segnali che la continuità aziendale è a rischio (ad esempio indici d’allerta negativi, flussi di cassa incapienti, indicatori di crisis elaborati secondo l’art. 13 CCII), gli amministratori devono elaborare un piano per farvi fronte. Se la situazione è reversibile, ciò potrà comportare operazioni sul capitale, ricerca di nuova finanza, rinegoziazione privata dei debiti o accesso a un piano attestato. Se invece la crisi è più grave, gli amministratori dovranno valutare l’accesso a procedure concorsuali (concordato preventivo, accordo di ristrutturazione) o alla composizione negoziata. Un ritardo ingiustificato nell’imboccare una soluzione può esporli a responsabilità verso la società, i creditori sociali e, in caso di insolvenza, verso la massa fallimentare per aggravamento del dissesto. Il CCII ha confermato e rafforzato questo principio, prevedendo ad esempio all’art. 378 l’estensione delle azioni di responsabilità anche ai casi di tardiva richiesta di accesso agli strumenti di regolazione della crisi.

Correlativamente, il Codice offre protezioni a quegli amministratori che agiscono diligentemente per il risanamento. Un esempio importante è dato dall’art. 120-bis CCII (introdotto nel 2022): esso stabilisce che la decisione di accedere a uno strumento di regolazione della crisi (es. deliberare di presentare domanda di concordato preventivo) spetta esclusivamente agli amministratori e deve essere verbalizzata da un notaio e iscritta al Registro Imprese. Da quel momento e fino all’omologazione della procedura scelta, i soci non possono revocare gli amministratori se non per giusta causa, e in ogni caso la mera presentazione di una domanda di concordato o accordo non costituisce giusta causa di revoca (art. 120-bis, co. 4 CCII). Eventuali delibere assembleari di revoca devono essere confermate dal tribunale delle imprese perché producano effetto. Questa norma tutela il management dal rischio di essere rimosso dai soci contrari al risanamento, consentendogli di proseguire le trattative o la procedura concorsuale intrapresa nell’interesse dei creditori. Inoltre, lo stesso articolo consente ai soci di minoranza (almeno 10% capitale) di presentare proposte concorrenti nel concordato preventivo (art. 120-bis, co. 5 e art. 90 CCII), bilanciando il potere degli amministratori con una chance per i soci dissenzienti di proporre soluzioni alternative.

Un altro aspetto di grande rilievo è la possibilità, introdotta dal 2022, di incidere sui diritti dei soci all’interno del piano di ristrutturazione. L’art. 120-ter CCII prevede che, se il piano concordatario o di ristrutturazione contempla modifiche dello statuto sociale o operazioni sul capitale (ad es. aumento di capitale con nuovi investitori, conversione di crediti in quote, ecc.), debbano essere formate classi di soci aventi diritti omogenei, i quali potranno votare sulla proposta come se fossero creditori. La classazione dei soci è obbligatoria se il piano incide su diritti di partecipazione o se la società è emittente titoli sul mercato. I soci in tali classi votano in proporzione alle partecipazioni possedute e se non esprimono dissenso nel termine previsto si considerano consenzienti. Questa integrazione permette di superare eventuali blocchi posti dall’assemblea straordinaria: di fatto, le operazioni sul capitale indispensabili al risanamento possono essere approvate in sede concorsuale con le maggioranze previste per le classi, anziché secondo le regole societarie ordinarie. In sede di omologazione, poi, l’art. 120-quater CCII stabilisce condizioni rigorose per tutelare i creditori dissentienti quando il piano assegna un valore residuo ai soci. In sintesi, il tribunale può omologare un concordato non approvato all’unanimità dai creditori anche se gli attuali soci mantengono una quota di capitale, ma solo a condizione che: (a) ogni classe di creditori dissenziente riceva un trattamento almeno pari a quello delle altre classi di pari rango e migliore di quello previsto per ogni classe subordinata, considerando anche il valore destinato ai soci; e (b) se la classe dissenziente è la più bassa in grado, essa riceva più di quanto vada complessivamente ai soci. In altri termini, non si può far salvare qualche valore per i vecchi soci se ciò pregiudica i creditori non pienamente soddisfatti (principio di absolute priority mitigato). I soci, peraltro, hanno facoltà di opporsi all’omologazione lamentando un trattamento deteriore rispetto alla liquidazione (art. 120-quater, co. 3). L’omologazione, una volta pronunciata, produce direttamente le modifiche statutarie previste (aumenti o riduzioni di capitale, emissione di strumenti, fusioni, ecc.) e autorizza gli amministratori ad eseguirle entro un termine. In caso di inerzia degli amministratori, il tribunale può nominare un amministratore giudiziario ad hoc che completi le operazioni (art. 120-quinquies CCII). Viene inoltre sancito che le variazioni nella compagine sociale derivanti dall’attuazione del piano non costituiscono causa di risoluzione dei contratti in essere (clausole di change of control inefficaci ex art. 120-quinquies, co. 3).

Queste disposizioni mostrano con evidenza come il legislatore 2022–2024 abbia creato un sistema in cui la governance societaria è orientata a favorire i processi di ristrutturazione: da un lato responsabilizzando e proteggendo gli amministratori pro-risanamento, dall’altro prevedendo meccanismi per coinvolgere ed eventualmente coartare la volontà dei soci quando necessario a salvare l’impresa. Con questo contesto normativo in mente, possiamo ora analizzare singolarmente i principali strumenti di ristrutturazione del debito societario.

Concordato Preventivo

Il concordato preventivo è la procedura concorsuale per eccellenza mediante cui un imprenditore in crisi o insolvente cerca di evitare la liquidazione giudiziale, proponendo ai creditori un accordo soddisfatorio secondo un piano da attuarsi sotto il controllo del tribunale. Si parla di “preventivo” proprio perché mira a prevenire il fallimento (ora liquidazione giudiziale) attraverso una soluzione concordata. Il concordato preventivo ha natura giudiziale, cioè si svolge dinanzi al tribunale competente, ma è avviato su istanza volontaria del debitore e in buona parte gestito dallo stesso (principio del debtor in possession, quantomeno nella fase iniziale e nelle ipotesi di concordato in continuità).

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Presupposti e Ammissibilità

Soggetti ammessi: Può chiedere il concordato preventivo solo l’imprenditore commerciale non piccolo (art. 84 CCII). Ciò significa che società di capitali e altre imprese sopra soglia (cfr. supra) possono accedere al concordato, mentre un’imprenditore “minore” deve eventualmente ripiegare sul concordato minore. Sono esclusi gli imprenditori agricoli e gli enti non commerciali. La norma rinvia ai requisiti soggettivi della liquidazione giudiziale (art. 121 CCII), dunque la capacità fallimentare tradizionale. In pratica, una S.r.l. o S.p.A. è tipicamente ammessa; una società cooperativa pure (salvo poi, se insolvente senza concordato, essere liquidata in via coatta amministrativa). Una società di persone può accedere al concordato se ha natura commerciale e dimensioni adeguate; in tal caso, però, gli effetti della proposta dovranno considerare anche la responsabilità illimitata dei soci (spesso i soci garantiranno il piano con loro risorse, oppure possono essere co-proponenti del concordato per ottenere l’esdebitazione personale). Sono altresì ammesse al concordato le imprese assoggettate a procedure speciali, purché compatibili: ad esempio un’impresa in amministrazione straordinaria potrebbe presentare un concordato in continuità alternativo (anche se la disciplina di A.S. segue una legge speciale), oppure imprese in liquidazione coatta amministrativa in certi casi. Tendenzialmente però, se una coop è già in LCA non può accedere al concordato se non revocando la LCA.

Condizione oggettiva: Il debitore deve trovarsi alternativamente in stato di crisi o in stato di insolvenza (art. 84 CCII). Il concordato quindi è utilizzabile sia come strumento preventivo (quando vi è difficoltà grave ma non si è ancora in default conclamato) sia come via d’uscita da una già conclamata insolvenza (in tal caso il concordato è un’alternativa al fallimento già maturo). Rispetto al passato, il CCII chiarisce che è sufficiente lo stato di crisi (concetto più ampio) e non richiede necessariamente l’insolvenza attuale – in linea con l’idea di favorire interventi tempestivi.

Competenza: La domanda si presenta al tribunale del luogo dove l’impresa ha il centro degli interessi principali (COMI), di regola coincidente con la sede legale in Italia. Nelle società, la decisione di presentare concordato spetta agli amministratori (non all’assemblea), come visto, ed è formalizzata con verbale notarile ex art. 120-bis CCII.

Proposta e Piano: Il debitore deve formulare una proposta concordataria ai creditori, corredata da un piano dettagliato. Il piano di concordato è il documento centrale che illustra lo stato dell’impresa, le cause della crisi, e soprattutto le modalità attraverso cui si intende soddisfare i creditori (integralmente o parzialmente) e assicurare il riequilibrio dell’attività aziendale se è prevista la continuazione. Il piano dev’essere accompagnato da una relazione giurata di un professionista indipendente (art. 87 CCII) che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano stesso. La fattibilità è intesa sia come fattibilità economica (ragionevole capacità del piano di raggiungere gli obiettivi di risanamento/soddisfo creditori) sia giuridica (conformità alle norme).

Tipologie di Concordato: continuità, liquidatorio e misto

Il CCII distingue principalmente due tipi di concordato preventivo:

  • Concordato in continuità aziendale: quando nel piano è prevista la prosecuzione dell’attività d’impresa, sia essa sotto la stessa società (continuità diretta) o tramite trasferimento dell’azienda ad un altro soggetto (continuità indiretta mediante affitto o cessione a terzi). La continuità può essere aziendale pura (l’impresa viene risanata e continua a operare normalmente) oppure essere presente in forma attenuata (ad esempio l’azienda viene venduta come funzionante, garantendo comunque la salvaguardia dei posti di lavoro e la valorizzazione del going concern). Il Codice agevola il concordato in continuità perché realizza l’obiettivo di conservare valore: ad esempio, i crediti anteriori al concordato non devono essere pagati integralmente per contrarre nuovo credito in continuità (come era già nel vecchio art. 182-quinquies l.fall.), e la presenza di continuità incide sui requisiti di fattibilità. Nel concordato in continuità pura, di regola si prevede la soddisfazione parziale dei creditori chirografari mediante utili futuri, cessione di asset non strategici, e interventi sul debito (stralci e dilazioni); i creditori privilegiati devono essere soddisfatti per intero salvo il caso di consenso a falcidia su crediti degradati a chirografo.
  • Concordato liquidatorio: quando invece il piano prevede solo la liquidazione del patrimonio del debitore e la distribuzione del ricavato ai creditori, senza prosecuzione dell’attività. In sostanza la società concordataria cessa l’attività e mette a disposizione tutti i propri beni (che possono essere venduti unitariamente o frazionatamente, anche prevedendo la cessione dell’azienda in blocco a titolo di liquidazione) per pagare i creditori in una certa misura. Il CCII – come già la riforma 2015 – pone un limite rigoroso a questa forma: il concordato puramente liquidatorio è ammissibile solo se assicura ai creditori chirografari una soglia minima di soddisfacimento (almeno il 20% del loro credito, art. 84, co. 4 CCII). Ciò per evitare concordati liquidatori “abusivi” con dividendi irrisori. Inoltre nel liquidatorio puro non è consentito il pagamento non integrale di crediti pre-deducibili o privilegiati, salvo consenso dei titolari (principio del soddisfacimento integrale delle cause di prelazione).
  • Concordato misto: molti piani pratici sono ibridi, prevedendo in parte la continuazione dell’impresa e in parte la dismissione di alcuni beni. Ad esempio, l’azienda potrebbe proseguire ma alcuni asset immobiliari non funzionali vengano venduti per fare cassa. In tali casi si parla di concordato misto continuità-liquidazione. Il Codice consente questa flessibilità e ha chiarito che la disciplina della continuità prevale se la prosecuzione dell’attività è significativa nel piano. Diversamente, se la continuità è marginale, potrebbe imporsi la regola del 20% minimo come nei liquidatori. L’individuazione della natura preponderante del concordato è a discrezione del tribunale, valutando la causa concreta del concordato. In ogni caso, è sempre possibile includere una suddivisione dei creditori in classi (art. 85 CCII) per trattare in modo differenziato posizioni giuridiche diverse, anche nel concordato liquidatorio.

Una particolare figura introdotta dal 2021 è il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (ex art. 25-sexies CCII). Esso, pur chiamandosi concordato, in realtà non prevede votazione dei creditori: può essere proposto solo dall’imprenditore che abbia tentato senza successo la composizione negoziata, e consiste in un piano di liquidazione dei beni da omologare direttamente dal tribunale. I creditori possono solo fare opposizione in sede di omologazione, ma non votano sulla proposta. Il tribunale omologa se ritiene che il piano liquidatorio offra a ciascun creditore un’utilità non inferiore a quella ricavabile dalla liquidazione giudiziale e rispetti l’ordine delle priorità dei privilegi. Il concordato semplificato è dunque uno strumento eccezionale, pensato per evitare il fallimento quando un tentativo di soluzione negoziale è fallito sebbene condotto correttamente. Nella prassi dei primi anni, questo istituto ha trovato applicazione limitata ma costituisce un’importante opzione “di chiusura” nel menù delle ristrutturazioni.

Conto e carta

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Procedura: fasi dal deposito all’omologazione

1. Domanda di concordato: Il concordato si apre con il deposito della domanda presso il tribunale competente. La domanda può essere completa (contenente subito proposta, piano e documentazione completa, art. 86 CCII) oppure con riserva (c.d. “concordato in bianco” ai sensi dell’art. 44 CCII, come modificato dal correttivo 2024). Nel caso di domanda con riserva, il debitore presenta un ricorso iniziale manifestando l’intenzione di accedere al concordato e chiedendo un termine (da 30 a 60 giorni, prorogabile fino a 120) per presentare il piano e la proposta definitivi. Durante questo periodo interinale, il tribunale può nominare un commissario giudiziale provvisorio e concede subito le misure protettive sui beni del debitore (stay delle azioni esecutive e cautelari dei creditori, ex art. 54 CCII). La pendenza della domanda è iscritta al Registro delle Imprese e da quel momento i creditori non possono iniziare o proseguire pignoramenti né acquisire diritti di prelazione sul patrimonio del debitore (divieto di ipoteche giudiziali, etc.).

2. Ammissibilità e decreto di apertura: Una volta depositato il piano definitivo (o subito, se la domanda era completa), il tribunale verifica la sussistenza dei presupposti formali: competenza, legittimazione soggettiva, stato di crisi/insolvenza, completezza della documentazione (bilanci, elenco creditori, attestazione di fattibilità, ecc.). Se tutto è regolare, emette un decreto di apertura del concordato (art. 47 CCII) con cui ammette l’imprenditore alla procedura. Con lo stesso decreto nomina i commissari giudiziali (uno o tre, a seconda della complessità, scelti tra professionisti esperti) che fungeranno da organo di vigilanza e ausilio, e convoca l’adunanza dei creditori fissandone la data. Il decreto di apertura cristallizza la situazione: da quel momento decorrono gli effetti tipici (tra cui il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive e la sospensione delle prescrizioni ex art. 54, già attivi eventualmente dalla fase di pre-concordato).

3. Gestione dell’impresa durante il concordato: A differenza della liquidazione giudiziale (in cui l’imprenditore perde l’amministrazione dei beni a favore del curatore), nel concordato il debitore resta alla guida della propria azienda, sotto la sorveglianza del commissario e del tribunale. Gli atti di gestione ordinaria possono proseguire, mentre per gli atti di straordinaria amministrazione è richiesta l’autorizzazione del giudice delegato (art. 94 CCII). Particolare rilievo ha, nei concordati in continuità, la possibilità di ottenere nuova finanza o continuare contratti essenziali: il debitore può chiedere al tribunale di autorizzare finanziamenti prededucibili (che saranno rimborsati con priorità) se indispensabili per la migliore riuscita del piano, nonché di sospendere o sciogliere contratti in corso che risultino onerosi (art. 95 e 96 CCII, ricalcando l’istituto già noto dell’art. 169-bis L.F.). Queste misure servono a stabilizzare l’esercizio dell’impresa in concordato. Il commissario intanto svolge le sue indagini e predispone una relazione per i creditori, valutando la veridicità dei dati e la fattibilità del piano (art. 100 CCII).

4. Adunanza dei creditori e voto: Nella data stabilita, si tiene l’adunanza (assemblea) dei creditori presieduta dal giudice delegato e con la partecipazione del debitore, dei commissari e degli aventi diritto al voto. Il commissario giudiziale illustra ai creditori la proposta e le sue valutazioni. I creditori quindi esprimono il proprio voto sull’accettazione o meno del concordato. Il meccanismo di voto prevede che:

  • Se non vi è suddivisione in classi, è necessario il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Non si conta più (nel CCII) la maggioranza per teste, ma solo quella per valore (oltre il 50% dell’ammontare dei crediti votanti, escludendo dal computo i crediti degli eventuali soci o parti correlate).
  • Se invece i creditori sono suddivisi in classi (cosa obbligatoria se ci sono creditori con cause legittime di prelazione degradate o trattamento differenziato di crediti chirografari di rango diverso, ex art. 85 CCII), allora si vota per classi: serve il sì della maggioranza per valore dei crediti in ogni classe affinché quella classe approvi. Nel regime attuale, a differenza del passato, non è più richiesta la maggioranza numerica dei creditori nella classe, ma solo il criterio di valore. È però introdotta la possibilità di omologazione anche in caso di dissenso di alcune classi, secondo il meccanismo del cram-down interclassi (vedi oltre).
  • I creditori privilegiati che non subiscono alterazioni dei loro diritti (cioè che sono pagati integralmente come da privilegio) non hanno diritto di voto, perché la loro posizione non è incisa dal concordato. Se però al creditore privilegiato si propone una parziale falcidia o dilazione oltre i limiti di legge, allora egli diventa votante (come chirografario per la parte falcidiata).
  • I creditori muniti di garanzia reale (ipoteca, pegno) possono essere divisi in classi separate dagli altri chirografari e possono votare separatamente.
  • Non votano i creditori postergati o comunque esclusi per legge (es. crediti infragruppo postergati ex art. 2467 c.c., che non contano ai fini del quorum).

La votazione può avvenire durante l’adunanza oppure per corrispondenza nei giorni successivi (entro 20 giorni). Al termine, il commissario giudiziale redige un verbale con l’esito.

5. Omologazione (approvazione giudiziale): Se la proposta è stata approvata dai creditori nelle maggioranze richieste, si apre la fase di omologazione dinanzi al tribunale (collegio). Il tribunale deve verificare d’ufficio la legalità e fattibilità del concordato e decidere sulle eventuali opposizioni. Hanno titolo per opporsi all’omologazione i creditori dissenzienti o astenuti e qualsiasi altro interessato, nonché il Pubblico Ministero. Le opposizioni tipicamente sollevano contestazioni circa la convenienza della proposta (nel senso che i creditori ritengono di ricevere meno che in alternativa fallimentare) o circa la violazione di norme (es. trattamento non conforme dell’ordine dei privilegi). Il tribunale, in udienza, sentite le parti, può assumere mezzi istruttori se necessario (anche disponendo una consulenza tecnica per valutare il piano). Importante novità del CCII è la disciplina espressa del cram-down interclassista: se una o più classi di creditori non hanno approvato la proposta ma altre classi sì, il debitore (o i creditori proponenti) possono chiedere al tribunale l’omologazione nonostante il dissenso di talune classi (“ristrutturazione trasversale” ex art. 112, co. 2, lett. b, CCII). Il tribunale potrà omologare anche senza il voto favorevole di tutte le classi a condizione che:

  • la proposta rispetti la parità di trattamento fra creditori di pari grado. Ciò significa, ad esempio, che all’interno dello stesso rango (es. chirografari) non si possono offrire percentuali molto diverse a classi diverse. La Corte d’Appello di Milano ha chiarito che il principio di parità di trattamento “è violato qualora la proposta preveda un trattamento deteriore per una classe di creditori chirografari rispetto a quanto offerto alle altre classi di pari rango”. In pratica, non si possono discriminare alcuni creditori chirografari dando loro meno di altri chirografari, se non vi è giustificazione oggettiva, specie in caso di cram-down.
  • la proposta rispetti le condizioni di cui all’art. 112 (c.d. best interest test e absolute priority mitigata): nessun creditore dissenziente riceve meno di quanto otterrebbe nella liquidazione giudiziale (best interest test) e, se vi sono classi dissenzienti, il trattamento dei creditori segue la regola per cui le classi di rango inferiore non possono ricevere più delle classi immediatamente superiori dissenzienti, soprattutto in presenza di distribuzione di valore ai soci (come già visto con art. 120-quater CCII).
  • il piano sia comunque fattibile e non pregiudizievole per i creditori dissenzienti. Ad esempio, deve risultare che anche per la classe contraria il concordato sia almeno conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria.

Se queste condizioni sono soddisfatte, il tribunale può omologare forzosamente il concordato (cram-down). Un caso emblematico: Tribunale di Milano 2024 ha omologato un concordato in continuità applicando l’art. 112 nonostante il voto contrario di una classe, sottolineando che andava valutata la convenienza complessiva della continuità rispetto alla liquidazione. Nella sua motivazione ha affermato che la valutazione di convenienza “deve essere effettuata in un’ottica ex ante, tenendo conto non solo del valore di liquidazione stimato, ma anche degli effetti negativi derivanti dal venir meno della continuità aziendale […] La possibilità di generare valore mediante la prosecuzione dell’attività d’impresa […] costituisce un elemento determinante nella valutazione della convenienza della proposta concordataria”. In quel caso, il tribunale ha rilevato che in ipotesi di fallimento non ci sarebbe stato alcun rimborso ai chirografari, mentre col concordato in continuità essi avevano prospettiva di una parziale soddisfazione grazie ai nuovi finanziamenti e alla conservazione dell’avviamento.

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Una volta superato l’esame di legittimità e di convenienza, il tribunale emette il decreto di omologazione. Con l’omologazione, il concordato diventa vincolante per tutti i creditori anteriori, anche per quelli che non hanno votato o hanno votato contro. Da notare che l’omologazione chiude la procedura concorsuale: gli organi (commissari, giudice) cessano dalle funzioni e spetta al debitore attuare il piano sotto la vigilanza eventualmente di un liquidatore giudiziale nominato nel piano (in caso di liquidazione di beni) o con l’ausilio di un attestatore per il follow-up.

6. Esecuzione del concordato: Dopo l’omologa, il debitore deve dare esecuzione al piano nei termini stabiliti. Se il concordato prevedeva la continuità, l’impresa prosegue e gradualmente effettua i pagamenti e le operazioni promesse (ad es. cessione di un immobile entro tot mesi, pagamento del 30% ai chirografari in 4 rate, ecc.). Se era liquidatorio, il liquidatore nominato procede alle vendite e riparti secondo il piano. Il CCII prevede che l’omologazione stessa produca le eventuali modifiche societarie (es. riduzione del capitale, esclusione soci, emissione di strumenti) e autorizza gli amministratori a compierle. In caso di inadempimento del piano, i creditori hanno tutela: possono chiedere la risoluzione del concordato (art. 121 e 122 L.F., richiamati dall’art. 118 CCII). La risoluzione per inadempimento comporta la riapertura della procedura insolvenziale (liquidazione giudiziale) salvo che vi sia già stata esecuzione parziale con soddisfacimento di alcuni crediti.

Va infine ricordato che, a seguito dell’omologazione del concordato, i debiti residui dei creditori concorsuali vengono cancellati (esdebitazione dell’impresa): la società infatti sarà tenuta solo ai pagamenti previsti dal piano, e una volta eseguiti questi, non potrà più essere escussa per la parte di debito stralciata. In tal modo, il concordato preventivo ha un effetto di fresh start per l’azienda (simile a quanto l’esdebitazione produce per l’imprenditore persona fisica dopo il fallimento).

Vantaggi e Criticità del Concordato Preventivo

Come strumento di regolazione della crisi, il concordato offre una serie di vantaggi ma presenta anche criticità e oneri da considerare. Di seguito una tabella riepilogativa:

Vantaggi del Concordato Preventivo Criticità e Svantaggi Iter e Procedura (Sintesi)
Sospensione delle azioni esecutive: dall’ammissione (o dalla domanda “in bianco”) i creditori non possono agire individualmente, dando respiro all’azienda.– Continuità operativa: se in concordato in continuità, l’impresa può proseguire l’attività sotto protezione, con possibilità di nuove finanze prededucibili e salvaguardia dei contratti essenziali (forniture, clienti).– Riduzione del debito: il concordato consente stralci significativi del debito chirografario (spesso pagando una percentuale ridotta, es. 20-40%) e dilazioni nei pagamenti, con liberazione finale dell’impresa dall’esposizione residua.– Gestione da parte del debitore: l’imprenditore rimane alla guida (salvo casi di abuso), conservando il governo dell’azienda durante la procedura, anche se sotto controllo dei commissari (approccio negoziale).– Omologazione forzosa (cram-down): possibilità di ottenere l’approvazione dal tribunale anche contro il volere di una parte dei creditori (classi dissenzienti), se il piano è equo.– Salvaguardia dell’avviamento: rispetto al fallimento, il concordato evita la dispersione di valore, permette di salvare posti di lavoro e spesso soddisfa meglio i creditori grazie alla continuità. Iter complesso e costoso: la procedura richiede l’intervento di avvocati, attestatori, commissari, con costi professionali elevati. La durata (spesso 1-2 anni fino all’omologa) e la formalità possono pesare sulla già precaria situazione aziendale.– Pubblicità negativa: l’iscrizione al Registro Imprese e la notizia di una procedura concorsuale può deteriorare rapporti con clienti e fornitori, minando la reputazione dell’azienda.– Vincoli legali stringenti: occorre rispettare la par condicio e le priorità (i creditori privilegiati di norma vanno pagati integralmente), il che può rendere arduo formulare una proposta sostenibile. Ad es., l’obbligo di ≥20% ai chirografari nei liquidatori può impedire concordati in caso di attivo insufficiente.– Rischio di esito negativo: se i creditori non approvano il piano (mancanza di quorum) o il tribunale non lo omologa (perchè ritenuto non fattibile o lesivo per taluni creditori), l’impresa di fatto precipita in liquidazione giudiziale. Il concordato quindi è “win or fail”, senza vie intermedie.– Perdita di controllo in caso di abuso: se durante la procedura il debitore aggrava il dissesto o viola regole, il tribunale può revocare l’ammissione e aprire il fallimento, oppure nominare un amministratore giudiziario (ossia il debitore può essere spossessato in corso di concordato, ex art. 91 CCII).– Impegni post-omologa: l’azienda resta vincolata per anni all’esecuzione del piano sotto potenziale sorveglianza dei creditori; un eventuale default successivo può portare a risoluzione del concordato e fallimento retroattivo. Deposito Ricorso: delibera degli amministratori, ricorso al tribunale con proposta e piano (o riserva).– Fase Prenotativa (facoltativa): ottenimento misure protettive ex artt. 54-55 CCII, preparazione del piano definitivo entro termini.– Apertura della Procedura: decreto tribunale con nomina commissario/i e convocazione dei creditori.– Gestione: continuità aziendale autorizzata, atti gestori con controllo, relazione del commissario e verifiche.– Adunanza e Voto: illustrazione piano, discussione, votazione per classi o massa (maggioranza >50% crediti).– Omologazione: se approvato quorum (o anche senza quorum tutte le classi ma con requisiti cram-down) il tribunale valuta eventuali opposizioni, verifica merito (miglior soddisfacimento rispetto a fallimento) e omologa con decreto. Decreto iscritta al Registro Imprese.– Esecuzione del piano: attuazione delle misure previste (pagamenti, cessioni…) sotto vigilanza, eventuale giudice o liquidatore per controllo.– Chiusura: adempimento completo = fine obblighi. Inadempimento sostanziale = possibili richieste di risoluzione (dai creditori) e apertura liquidazione giudiziale.

(Tabella: caratteristiche del concordato preventivo – vantaggi, criticità, procedura)

Esempio pratico di Concordato Preventivo e caso giurisprudenziale

Esempio: Alfa S.p.A., società manifatturiera con 100 dipendenti, a causa di una crisi di settore accumula 10 milioni di debiti, di cui 6 verso banche (garantiti in parte da ipoteche) e 4 verso fornitori e altri creditori chirografari. La liquidazione fallimentare di Alfa porterebbe alla vendita frammentata dei macchinari e del magazzino, con un realizzo stimato di soli 3 milioni, insufficiente a pagare anche solo i creditori ipotecari (si prevede che le banche recupererebbero forse 50% dei loro crediti, mentre i fornitori nulla). Alfa elabora invece un piano di concordato in continuità: propone di mantenere l’attività produttiva, supportata da un investitore che apporta nuova finanza per 1 milione di euro e dal taglio di alcuni costi. Il piano prevede la ristrutturazione del debito come segue: le banche (garantite) otterranno il 80% dei crediti in 5 anni (accettando una falcidia del 20%, in parte compensata dalla conservazione del rapporto commerciale); i fornitori chirografari riceveranno il 30% dei loro crediti, pagato in 4 rate annuali a partire dal secondo anno. Il tutto garantisce continuità all’azienda e preserva i posti di lavoro. Un professionista attestatore conferma che il piano è fattibile e che, se attuato, i creditori chirografari prenderanno 0,30€ per ogni euro, contro lo 0€ stimato in caso di fallimento. Alfa deposita il concordato: il tribunale ammette la procedura e concede protezione dalle azioni esecutive. I fornitori interrompono le azioni legali e continuano a rifornire Alfa, confidando nella prospettiva concordataria. All’adunanza dei creditori, il concordato ottiene l’85% di voti favorevoli sul totale dei crediti: le banche votano sì (perché intravedono recuperi migliori che dalla liquidazione e vogliono mantenere il cliente), la maggior parte dei fornitori pure (preferiscono incassare 30% a rischio di zero). Solo pochi piccoli creditori votano no. Il tribunale in sede di omologazione esamina l’opposizione di un creditore dissenziente (che lamenta come 30% sia troppo poco), ma, viste le maggioranze raggiunte e la palese convenienza rispetto al fallimento (documentata dal confronto: 30% vs 0%), omologa il concordato. Nelle motivazioni richiama il principio per cui la continuità aziendale offre spesso benefici indiretti ai creditori (maggiore massa attiva grazie a conservazione di contratti, nessun costo di procedura fallimentare, ecc.), come evidenziato anche dalla giurisprudenza: “Ai fini dell’omologazione del concordato preventivo, la valutazione della convenienza della proposta rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale deve tenere conto non solo del valore di liquidazione stimato, ma anche degli effetti negativi derivanti dal venir meno della continuità aziendale”. Omologato l’accordo, Alfa S.p.A. inizia ad eseguire il piano: il nuovo socio investitore versa l’importo promesso (con super-priorità prededuttiva), l’azienda riprende slancio, paga le prime rate ai fornitori e onora i nuovi termini coi clienti. Dopo 4 anni Alfa completa i pagamenti concordatari, ottenendo la liberazione dai debiti pregressi residui. L’operazione ha permesso di salvare l’impresa e i posti di lavoro, con i creditori che hanno ricevuto più di quanto avrebbero ottenuto dallo scenario liquidatorio.

Giurisprudenza recente: Un tema dibattuto nei concordati è la tutela dei creditori dissenzienti in presenza di classi differenziate. La Corte d’Appello di Milano (decreto 8 novembre 2024) ha affrontato un caso di concordato in continuità dove una classe di creditori chirografari lamentava un trattamento deteriore rispetto ad un’altra classe di chirografari. La Corte ha enunciato che “la parità di trattamento tra i creditori del medesimo rango” è un requisito essenziale per l’omologa forzata ex art. 112 CCII: se una classe chirografaria fosse pagata, poniamo, al 40% e un’altra solo al 20% senza giustificazione, il tribunale non potrebbe omologare contro il voto di quest’ultima, perché “la proposta [viola] tale principio qualora […] preveda un trattamento deteriore per una classe di creditori chirografari rispetto a quanto offerto alle altre classi di pari rango”. In quel caso, il piano è stato interpretato in modo da riferire la possibile differenziazione di trattamento soltanto ai creditori muniti di prelazione (che per definizione hanno ranghi diversi), mentre tra chirografari il trattamento doveva essere proporzionatamente uniforme. Questa decisione conferma l’attenzione dei giudici nel garantire equità orizzontale tra pari grado, specialmente nell’applicare i nuovi poteri di cram-down. Un altro importante precedente è il Tribunale di Cagliari 8 novembre 2024, in tema di cram-down fiscale (riguardante però un accordo di ristrutturazione, applicabile per analogia anche al concordato): il tribunale ha omologato un accordo nonostante il voto contrario dell’Erario, evidenziando come “la protezione dei valori aziendali può prevalere su una rigida applicazione degli interessi fiscali e contributivi” quando la proposta garantisce al Fisco un recupero migliore del fallimento (in quel caso il 40% dilazionato vs presumibile 0% in caso di decozione). Questo orientamento giurisprudenziale incoraggia l’utilizzo degli strumenti di ristrutturazione anche nei confronti del creditore pubblico, tradizionalmente poco incline ad accordi, purché vi sia convenienza economica comprovata. Infine, merita menzione una pronuncia sull’importanza della fattibilità: la Cassazione, ord. 9743/2022, pur riferita a un piano attestato, ribadisce un principio estensibile al concordato – ossia che le agevolazioni come l’esenzione da revocatoria presuppongono la sostanziale idoneità del piano a risanare l’impresa, non bastando l’adempimento formale. In sintesi, le sentenze recenti confermano: massima tutela per la parità di trattamento tra creditori, apertura alla continuità aziendale e al sacrificio controllato degli interessi erariali quando giustificato, centralità della verifica di fattibilità dei piani da parte dei giudici. Tali principi sono ora punti fermi nell’applicazione pratica del concordato preventivo aggiornato alle ultime riforme.

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Accordi di Ristrutturazione dei Debiti

Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (ARD) sono strumenti negoziali, disciplinati dalla legge, che permettono all’imprenditore di regolare la propria crisi attraverso un accordo giuridicamente vincolante con una parte significativa dei creditori, soggetto a omologazione da parte del tribunale. Si tratta in sostanza di un accordo privato di ristrutturazione che, una volta convalidato dall’autorità giudiziaria, diviene efficace anche verso eventuali creditori dissenzienti (entro certi limiti). Gli accordi di ristrutturazione hanno fatto il loro ingresso nell’ordinamento italiano col DL 35/2005 (introduzione dell’art. 182-bis l.fall.) e sono ora disciplinati dagli artt. 57-64 CCII, con diverse varianti tipologiche introdotte dalle ultime riforme.

Caratteristiche generali e requisiti

Soggetti ammessi: A differenza del concordato, qualsiasi imprenditore commerciale o agricolo può proporre un accordo di ristrutturazione, purché non sia un consumatore o un ente non commerciale (art. 57 CCII). L’unico limite soggettivo esplicito è che l’imprenditore non deve essere “minore” se vuole l’efficacia erga omnes dell’accordo (il riferimento dell’art. 57 è agli imprenditori in genere non minori). Tuttavia, anche un’impresa sotto soglia può in teoria stipulare un accordo con i creditori (sarà semmai un accordo stragiudiziale, non omologato, oppure potrà omologarlo come “concordato minore” in sede sovraindebitamento se rispetta i requisiti). In pratica, gli ARD sono utilizzati soprattutto da società di medie-grandi dimensioni, mentre i debitori minori usano altre procedure. Notare che sono ammessi gli imprenditori agricoli agli accordi (novità rispetto al passato): il CCII lo consente espressamente, quindi una grande azienda agricola può ristrutturare i debiti con accordo omologato pur non essendo soggetta a fallimento o concordato.

Stato dell’impresa: Deve ricorrere lo stato di crisi o di insolvenza (art. 57 CCII) per poter accedere alla procedura di omologazione dell’accordo. Dunque, l’accordo è uno strumento sia preventivo che “riparatorio”: ad esempio, una società che inizi ad avere tensioni finanziarie ma paga ancora regolarmente può comunque proporre ai creditori un accordo prima di diventare insolvente conclamata (basta la situazione di crisi prospettica).

Contenuto dell’accordo: È molto libero. Può consistere in qualunque rinegoziazione dei debiti: dilazioni, remissioni parziali (stralci), consolidamenti, conversione di crediti in capitale (debt-equity swap), cessione di asset ai creditori, ecc. Solitamente l’accordo viene formalizzato in un contratto sottoscritto dall’imprenditore e dai creditori aderenti, che incorpora un piano di risanamento dell’impresa. Il piano non ha requisiti formali rigidi come quello del concordato, ma deve essere sufficientemente dettagliato da permettere al tribunale e ai creditori di valutare la fattibilità e la convenienza. È richiesta una relazione di un esperto indipendente che attesti, analogamente al concordato, la veridicità dei dati e l’attuabilità dell’accordo con il pagamento dei creditori non aderenti nei termini di legge (art. 56 CCII richiamato dall’art. 57).

Condizione di efficacia: L’accordo per produrre effetti generali deve essere approvato da una percentuale qualificata di creditori. La regola generale (art. 57 CCII) è che vi aderiscono creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti totali. Occorre dunque raggiungere questa soglia di consenso tra i creditori. Può trattarsi di un numero ristretto di creditori importanti (es. banche) che detengono la gran parte dei crediti. I creditori estranei (cioè quelli non firmatari) non sono vincolati dall’accordo in sé, ma l’omologazione offre loro una protezione indiretta: se soddisfatti secondo i termini dell’accordo, non possono agire individualmente. Importante: a differenza del concordato, negli accordi non c’è un meccanismo di voto collettivo di tutti i creditori, bensì un requisito di adesione negoziale individuale di una certa percentuale. Quindi serve un’attività di negoziazione privata con i principali creditori per farli firmare.

Deposito e omologazione: Una volta che il debitore ha raccolto le firme (o comunque consensi scritti) di almeno il 60% del credito, può depositare il ricorso in tribunale per l’omologazione dell’accordo. Il tribunale fissa un’udienza e nelle more può concedere le misure protettive su istanza del debitore (sospendendo azioni esecutive per evitare che qualche creditore “estraneo” faccia saltare il banco). All’udienza, eventuali creditori non aderenti possono fare opposizione all’omologa se ritengono che l’accordo li pregiudichi. Il tribunale omologa verificando che l’accordo sia stato approvato dalla percentuale prescritta e che assicuri il pagamento integrale dei creditori estranei entro 120 giorni dall’omologa (se sono crediti scaduti) o dalla scadenza (se a termine) – art. 57, co. 1, lett. b) CCII. Questa tutela dei non aderenti significa: chi non ha firmato deve comunque essere pagato integralmente e tempestivamente secondo i termini di legge. Se l’accordo prevede che tali estranei saranno pagati regolarmente, il loro interesse è considerato protetto e il giudice può omologare nonostante il dissenso. Per questo l’accordo di ristrutturazione di base non “cram-downa” i dissenzienti in termini di stralcio: i non aderenti devono prendere 100%. Tuttavia, come vedremo, esistono varianti normative per gestire situazioni in cui anche i dissenzienti subiscono falcidie (specie il Fisco).

Effetti dell’omologa: L’accordo omologato vincola tutti i creditori aderenti (ovviamente) e consente al debitore di godere di alcune protezioni generali. Ad esempio, gli atti esecutivi del piano godono di esenzione dalle revocatorie fallimentari (art. 166, co. 3 CCII) in caso poi di fallimento successivo, a condizione che l’accordo sia omologato e gli atti siano posti in essere in esecuzione di esso. I creditori estranei, come detto, non sono giuridicamente obbligati a accettare stralci, ma se soddisfatti per intero entro certi termini non possono fare azioni.

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Differenze rispetto al concordato: L’accordo di ristrutturazione è più snello perché non coinvolge tutti i creditori in una procedura collegiale, ma solo i principali in una trattativa privata. Non c’è votazione a maggioranza: c’è negoziazione e firma. La soglia del 60% serve a dimostrare un supporto considerevole. Non c’è neppure spossessamento o organi come commissari (il tribunale nomina eventualmente un ausiliario/esperto solo in caso di opposizioni complesse, ma non è previsto un commissario giudiziale come standard). Ciò rende l’accordo potenzialmente più rapido e riservato (fino al deposito in tribunale, la trattativa è privata). Di contro, l’accordo standard non consente di imporre perdite ai creditori che non vogliono aderire: questi vanno comunque soddisfatti integralmente salvo diversamente disciplinato (vedi cram-down fiscale infra).

Varianti speciali degli accordi di ristrutturazione

Il CCII – riflettendo anche evoluzioni già avvenute nella legge fallimentare – disciplina alcune forme particolari di accordo di ristrutturazione, volte a estenderne l’efficacia o a facilitarne il raggiungimento:

  • Accordo di Ristrutturazione agevolato o “ad efficacia estesa”: L’art. 61 CCII prevede che se l’accordo di ristrutturazione è concluso con creditori rappresentanti almeno il 75% di specifiche categorie di crediti finanziari (banche e intermediari finanziari), il debitore può chiedere al tribunale di estendere gli effetti dell’accordo anche ai creditori finanziari dissenzienti appartenenti alla stessa categoria. Questo meccanismo, già noto come accordo esteso (ex art. 182-septies l.fall.), consente ad esempio: se l’azienda ha 10 banche finanziatrici e 8 di esse (magari l’80% dell’esposizione) aderiscono alla ristrutturazione del debito bancario, l’accordo può essere reso vincolante anche per le 2 banche dissenzienti, purché siano state invitate al tavolo alle stesse condizioni. Occorre il parere favorevole di un esperto che confermi la convenienza per i dissenzienti e che questi non siano discriminati ingiustamente. Questa norma è molto utile per evitare il problema del holdout di pochi istituti che potrebbero bloccare l’operazione.
  • Convenzione di moratoria: Prevista dall’art. 62 CCII, è un accordo tra l’imprenditore e creditori finanziari rappresentanti almeno il 75% dei crediti finanziari per regolare in via provvisoria gli effetti della crisi. In pratica è un patto di standstill con le banche: esse si impegnano a non agire e/o a mantenere le linee per un certo periodo. La convenzione di moratoria, se omologata, è efficace anche sui finanziatori dissenzienti della stessa categoria a condizione di averli informati e messi in grado di partecipare. È uno strumento temporaneo (moratorio) che spesso prelude ad un successivo accordo più strutturato o concordato. Può essere utilizzato ad esempio per congelare le pretese bancarie mentre si elabora un piano industriale. La peculiarità è che serve lo stesso quorum elevato (75% crediti finanziari) e produce effetti solo dilatori, non di riduzione definitiva, sui crediti dei non aderenti.
  • Accordi su crediti tributari e contributivi (transazione fiscale e previdenziale): Il trattamento dei debiti verso l’erario e gli enti previdenziali è da sempre un tema delicato. Nel concordato preventivo era prevista la “transazione fiscale” per proporre stralci anche su IVA e ritenute (con limiti poi aboliti). Nel contesto degli accordi di ristrutturazione, l’art. 63 CCII regola il cosiddetto cram-down fiscale: se l’Agenzia delle Entrate o gli enti previdenziali non aderiscono alla proposta di accordo, ma l’adesione dei creditori privati ha raggiunto comunque il 60%, il debitore può chiedere al tribunale di omologare ugualmente l’accordo anche senza il consenso del Fisco, a patto che la proposta di soddisfacimento del credito fiscale sia conveniente rispetto alla liquidazione. In altri termini, il tribunale può bypassare il diniego del creditore pubblico se ritiene, dati alla mano, che l’erario riceverà più in quell’accordo di quanto incasserebbe da un fallimento della società. Questa norma, figlia di un’evoluzione normativa e giurisprudenziale (ricordiamo il DL 125/2020 che introdusse il cram-down fiscale in emergenza Covid), è stata applicata di recente. Ad esempio, nel Tribunale di Cagliari 8.11.2024 citato, l’accordo di ristrutturazione presentato da una società (che aveva il 90% di debiti verso Erario e Inps) è stato omologato nonostante il mancato assenso dell’Agenzia Entrate, in virtù del fatto che il piano offriva il 40% dilazionato al Fisco contro uno zero potenziale in caso di decozione. Il giudice ha rilevato che ciò “dimostra che la protezione dei valori aziendali può prevalere su una rigida applicazione degli interessi fiscali”, valorizzando la continuità e i posti di lavoro salvaguardati. Dunque oggi il debitore può includere i debiti tributari e contributivi nell’accordo proponendo anche tagli e attenderne l’omologazione forzosa se l’ente rifiuta ingiustificatamente. Va comunque provato che l’Erario ottiene almeno quanto il miglior scenario alternativo (liquidatorio) – in pratica una declinazione del best interest test per il Fisco.
  • Piani di ristrutturazione soggetti a omologazione (PRO): Sebbene tecnicamente siano disciplinati a parte (art. 64-bis e ss.), li citiamo qui per completezza. Il PRO è uno strumento ibrido tra accordo e concordato: consiste in un piano di ristrutturazione proposto dal debitore, che può essere omologato dal tribunale previa approvazione per classi da parte dei creditori, con la possibilità di cram-down interclassista. Si può vedere come un “concordato light” focalizzato solo sulla ristrutturazione finanziaria e soggetto a regole speciali. I PRO tipicamente non prevedono la liquidazione totale dell’azienda ma ristrutturazioni del debito in continuità, con il vantaggio che se tutte le classi approvano il piano, si può persino derogare alle regole di priorità (Absolute Priority Rule). Se invece non tutte le classi approvano, si può convertire la procedura in concordato preventivo ordinario o viceversa. Il PRO è stato introdotto in attuazione della direttiva UE e rappresenta un’alternativa più flessibile all’accordo tradizionale, consentendo di coinvolgere tutti i creditori (non solo il 60% di essi) in un voto ma senza le complessità di un concordato integrale. È però uno strumento nuovo e poco sperimentato finora (le prime omologhe PRO in Italia risalgono a fine 2023 – es. Tribunale di Milano, decreto 24.10.2024 ha ammesso l’omologa di un PRO che prevedeva anche una vendita di azienda in funzione concordato preventivo).

In questa sede ci concentriamo principalmente sull’accordo “base” ex art. 57 e sulle sue estensioni più comuni (transazione fiscale), dato che i PRO meritano trattazione separata.

Procedura di omologazione dell’accordo

Il procedimento per concludere e omologare un accordo di ristrutturazione può essere descritto così:

  1. Trattative preliminari riservate: L’impresa in crisi individua i creditori strategici (tipicamente banche, obbligazionisti, grandi fornitori) e inizia colloqui privati per ridefinire le scadenze e gli importi dovuti. In questa fase spesso l’azienda prepara, con advisor finanziari, un piano industriale di rilancio e lo sottopone ai creditori per convincerli che aderire all’accordo conviene più di perseguire strade legali individuali. È utile, ma non obbligatorio, nominare un professionista indipendente che attesti la sostenibilità del piano (servirà comunque ai fini dell’omologa).
  2. Raggiungimento dell’accordo e firme: Se le negoziazioni hanno esito positivo, il debitore e i creditori disponibili formalizzano un accordo scritto. Ad esempio, si potrebbe redigere un term sheet o un contratto in cui i creditori firmatari (banche X, Y, Z…) accettano di rinunciare al 30% dei loro crediti e di riscadenzare il resto a 5 anni, in cambio magari di garanzie reali aggiuntive o covenants finanziari di monitoraggio. L’accordo conterrà anche l’impegno del debitore a pagare integralmente i creditori non aderenti alle naturali scadenze. Si raccolgono le adesioni fino a superare la soglia di legge (60%). Non tutti i creditori devono necessariamente essere invitati: è possibile chiudere accordo con solo alcuni e lasciarne fuori altri (che poi saranno soddisfatti a parte), sebbene in pratica occorra considerare il peso di ogni escluso (un piccolo creditore estraneo può essere pagato cash e quindi non serve includerlo, ma un grande bondholder difficilmente si può ignorare).
  3. Deposito in tribunale: Ottenuto il quorum, l’imprenditore deposita ricorso presso il tribunale per chiedere l’omologazione dell’accordo ex art. 48 e 57 CCII. Al ricorso allega il testo dell’accordo, l’estratto delle adesioni con l’indicazione delle percentuali raggiunte, il piano di risanamento aziendale, la relazione dell’attestatore e tutta la documentazione contabile (bilanci, elenco creditori etc.). Può contestualmente chiedere misure protettive (art. 54 CCII) se teme azioni dai creditori estranei durante l’attesa. Il tribunale, ricevuto il ricorso, ordina la pubblicazione dell’istanza nel Registro Imprese e nomina un giudice delegato per il procedimento.
  4. Fase pre-omologazione e eventuali opposizioni: Dalla pubblicazione, i creditori non aderenti vengono a conoscenza dell’accordo depositato. Possono entro 30 giorni presentare opposizione all’omologazione, sostenendo ad esempio che l’accordo li pregiudica (ma ricordiamo che la legge tutela i loro diritti imponendo pagamento integrale entro 120 gg). Spesso i creditori estranei non hanno interesse a opporsi se vedono che saranno pagati al 100%; potrebbero opporsi semmai per ragioni dilatorie o perché contestano l’ammontare del loro credito. Il tribunale può anche disporre una sorta di istruttoria sommaria se necessario (es. nominare un ausiliario per valutare meglio il piano in caso di contestazioni, ai sensi dell’art. 48 CCII).
  5. Omologazione: Trascorso il termine delle opposizioni, il tribunale fissa udienza e decide sulla richiesta di omologa. Verifica innanzitutto i requisiti formali: la percentuale di adesioni (≥60%), la completezza della documentazione e la regolarità della procedura (corretta informazione ai creditori, ecc.). Poi valuta il merito limitatamente a: idoneità dell’accordo a assicurare il pagamento dei creditori estranei nei termini di legge e assenza di lesione per i creditori aderenti e non. In pratica, grazie all’attestazione indipendente prodotta, il giudice controlla che il piano non sia irrealistico (se palesemente inattuabile potrebbe negare l’omologa per mancanza di causa) e che i creditori estranei ricevano trattamento conforme. Se vi sono opposizioni di creditori estranei, il tribunale le esamina: un’opposizione potrebbe ad esempio eccepire che il credito dell’opponente è stato erroneamente classificato come chirografario mentre sarebbe privilegiato, e che dunque quell’ente va pagato integralmente come da privilegio. Oppure un creditore estraneo può contestare di non ricevere il 100% in 120 giorni. Il tribunale decide su queste eccezioni. Se tutto è in ordine, emette sentenza (decreto) di omologazione dell’accordo di ristrutturazione. Da notare: ai sensi dell’art. 48 CCII l’omologa dell’accordo, a differenza del concordato, è dichiarata con decreto motivato reclamabile in Corte d’Appello entro 30 giorni. Ciò è stato confermato anche da Cassazione (Cass. 34840/2024 ha statuito che il decreto di omologa di un ARD va impugnato con reclamo ex art. 50 CCII e non con ricorso per cassazione diretto).
  6. Esecuzione dell’accordo: Una volta omologato e diventato definitivo, l’accordo deve essere eseguito secondo i termini pattuiti. I creditori aderenti vedranno soddisfatti i loro crediti secondo le modalità concordate (ad esempio riceveranno nuove obbligazioni della società, o azioni se c’è conversione debito-capitale, o i pagamenti dilazionati promessi). I creditori estranei dovranno essere pagati per intero entro il termine stabilito (max 120 giorni dall’omologa se i loro crediti erano scaduti, oppure alla scadenza naturale se più avanti). L’inadempimento dell’accordo può portare a dichiarazione di fallimento se l’impresa ridiventa insolvente. Tuttavia, durante la vigenza dell’accordo omologato, i creditori coinvolti non possono pretendere oltre quanto stabilito: l’effetto esdebitativo per i creditori aderenti si produce man mano che essi ricevono la prestazione concordata in luogo dell’originaria.

Un eventuale fail dell’accordo (ad es. l’imprenditore non rispetta le nuove scadenze) darà facoltà ai creditori di agire normalmente (l’accordo omologato non è una procedura concorsuale che blocca indefinitamente le azioni se c’è default: essi potranno, in caso di insolvenza, chiedere fallimento o esecuzioni individuali se l’accordo decade). Non c’è un procedimento formale di risoluzione come nel concordato, trattandosi in effetti di un contratto omologato: il creditore potrà far valere giudizialmente l’accordo come titolo (es. se il debitore non paga una rata concordata, può agire per ottenerla).

Vantaggi e limiti degli Accordi di Ristrutturazione

Gli accordi di ristrutturazione presentano alcune peculiarità vantaggiose rispetto al concordato, ma anche limiti intrinseci. Si fornisce una tabella di sintesi:

Vantaggi degli Accordi di Ristrutturazione (ARD) Criticità e Limiti degli ARD Procedura in Sintesi
Rapidità e flessibilità negoziale: non richiedono l’attesa di un voto assembleare di tutti i creditori; il debitore tratta solo con i principali soggetti e può chiudere l’accordo in tempi brevi, con termini personalizzati per ciascun aderente.– Minore pubblicità iniziale: fino al deposito in tribunale, le trattative sono riservate. Si evita l’effetto annuncio di una procedura concorsuale, riducendo il rischio di allarme nel mercato.– Continuità aziendale preservata: durante le trattative l’imprenditore mantiene il pieno controllo. Dopo il deposito può ottenere misure protettive analoghe a quelle del concordato (stop azioni esecutive ex art. 54 CCII). L’azienda spesso prosegue senza soluzione di continuità.– Costo relativamente inferiore: sebbene servano anch’essi attestatore e legali, gli accordi non prevedono la nomina di commissari o liquidatori, riducendo i costi procedurali (nesso di causalità: meno organi coinvolti).– Possibilità di coinvolgere il Fisco in modo vantaggioso: grazie al cram-down fiscale l’impresa può ristrutturare anche i debiti tributari, ottenendo omologa se la proposta è conveniente per l’Erario. Questo consente tagli su IVA, contributi e altre poste prima difficilmente falcidiabili.– Clausole di esenzione da revocatoria: gli atti compiuti in esecuzione dell’accordo omologato sono protetti da azioni revocatorie in caso di successivo fallimento, a tutela di chi contratta col debitore risanato. Inoltre i nuovi finanziamenti eventualmente erogati in attuazione dell’accordo sono prededucibili (art. 100 CCII). Necessità di consenso qualificato: occorre convincere almeno il 60% dei creditori (per valore). Se la platea di creditori è molto frammentata, raggiungere la soglia può risultare arduo. Alcuni creditori potrebbero tentare di fare i free rider (non aderire aspettando di essere pagati al 100% come estranei).– I creditori estranei vanno pagati integralmente: il vantaggio del taglio del debito si applica solo agli aderenti. Chi resta fuori deve essere soddisfatto per intero nei termini brevi di legge. Ciò impone che l’impresa trovi comunque risorse per pagare i dissenzienti (o li convinca ad aderire successivamente). Se ci sono troppi estranei, l’operazione può fallire o deve essere convertita in concordato per imporre falcidie anche a loro.– Omologazione non automatica: il tribunale potrebbe rifiutare l’omologa se ritiene che l’accordo pregiudica i non aderenti o se il piano non è sostenibile. C’è quindi un controllo di merito (sia pure meno penetrante che sul concordato). Ad esempio, se il business plan appare irrealistico l’omologa può saltare.– Minor respiro delle misure protettive: le misure di sospensione delle azioni durano al massimo 4 mesi (prorogabili di altri 4) negli ARD, come da direttiva UE. Per concordato invece protezioni più prolungate sono possibili. Inoltre non è prevista la sospensione automatica dei contratti pendenti come nel concordato (il che può creare problemi se fornitori estranei revocano forniture).– Rischio di opposizioni e ritardi: un singolo creditore estraneo può opporsi e appellare il decreto di omologa, allungando i tempi e creando incertezza. Mentre nel concordato la maggioranza vince, qui la minoranza può litigare in tribunale.– Ambito soggettivo meno esteso: se l’impresa è piccolissima (sotto soglia) potrebbe non accedere all’ARD omologato e dover ricorrere al concordato minore. Inoltre i consumatori e professionisti non imprenditori non possono usare l’ARD (devono fare ristrutturazione dei debiti del consumatore). Trattativa privata: predisposizione piano e proposta ai creditori chiave, eventuale moratoria standstill con le banche (art. 62 CCII).– Adesioni: raccolta firme fino ad almeno 60% dei crediti totali (o 75% di una categoria per efficacia estesa). Redazione accordo vincolante per aderenti.– Ricorso al Tribunale: deposito testo accordo, piano, attestazione e elenco adesioni. Richiesta eventuale di misure protettive (blocco azioni) ex art. 54 CCII per tutelare l’azienda sino all’omologa.– Opposizioni: notifica o pubblicità ai creditori non aderenti, che hanno 30 giorni per opporsi. Tribunale può nominare un ausiliario per valutare contestazioni tecniche.– Omologazione con decreto: giudizio positivo sulla regolarità (≥60% consensi) e sulla tutela dei non aderenti (pagamento integrale entro 120 giorni). Possibile cram-down di Fisco/enti se offerto ≥ scenario liquidatorio. Decreto soggetto a reclamo in appello.– Esecuzione monitorata: attuazione dell’accordo privatistico. Se l’impresa non adempie, i creditori ritornano liberi di agire (non c’è procedura concorsuale aperta, salvo chiedano poi il fallimento). Se adempie, i crediti sono ristrutturati e l’impresa continua rinnovata.

(Tabella: vantaggi, limiti e fasi degli accordi di ristrutturazione dei debiti)

Esempio pratico di Accordo di Ristrutturazione e riferimenti giurisprudenziali

Esempio: Beta S.r.l. è una media azienda commerciale con 5 milioni di debiti, di cui 3 milioni verso banche e 2 milioni verso una moltitudine di fornitori. L’azienda è in crisi di liquidità ma ha prospettive di mercato buone se riesce a ristrutturare il debito bancario (che pesa con rate molto alte). Beta preferirebbe evitare il concordato, che sarebbe lungo e pubblico, temendo perdita di fiducia dei clienti. Opta per un accordo di ristrutturazione: apre un dialogo con le sue tre banche principali, proponendo di allungare le scadenze dei mutui e ridurre i tassi, eventualmente accettando un piccolo stralcio sul chirografario. Contestualmente offre ai fornitori un pagamento integrale ma dilazionato di 6 mesi (quindi in sostanza chiede loro di attendere, ma li pagherà al 100%). Dopo trattative, le banche (che detengono il 60% dei crediti totali) accettano di firmare un accordo: si impegnano a rinunciare a penali e a estendere di 3 anni il rimborso dei prestiti, ottenendo però pegni aggiuntivi su magazzino. I fornitori minori non aderiscono formalmente (non vengono neppure interpellati singolarmente), ma Beta è fiduciosa di poterli pagare regolarmente nella nuova struttura finanziaria. Beta incarica un professionista di attestare che il piano di rilancio (con costi ridotti e nuovo capitale apportato dai soci per 500k) è sostenibile e che i creditori estranei (fornitori) saranno puntualmente soddisfatti. Deposita quindi l’accordo con le banche in tribunale, allegando le firme che coprono il 60% dei crediti. Chiede al giudice di sospendere eventuali azioni esecutive: in effetti qualche fornitore aveva iniziato decreti ingiuntivi, ma con la pubblicazione dell’istanza ottiene il blocco temporaneo. Nessun creditore estraneo si oppone (perché confidano di essere pagati per intero). Il tribunale verifica la regolarità formale (60% raggiunto, attestazione ok, ecc.) e omologa l’accordo. Da quel momento Beta deve eseguirlo: inizia a pagare i fornitori come promesso (100% a 6 mesi), e rispetta il nuovo piano con le banche. Grazie a ciò, evita il fallimento e dopo un anno esce completamente dalla crisi avendo ridotto l’indebitamento e riportato i pagamenti in bonis. Le banche dissenzienti (se ve ne fossero state) sarebbero state anch’esse vincolate dall’accordo esteso se Beta avesse usato l’art. 61 (ad es. se 80% banche aderenti, il tribunale avrebbe potuto estendere condizioni alle restanti 20%). In questo caso non ce n’è stato bisogno. L’accordo è rimasto un fatto abbastanza riservato, comunicato solo nel registro imprese ma con meno clamore mediatico di un concordato, e i clienti di Beta neppure se ne sono accorti. Beta ha beneficiato della flessibilità degli ARD, gestendo la crisi “in casa” con i partner più rilevanti.

Giurisprudenza recente: Un’area di contenzioso sugli ARD riguarda proprio il cram-down fiscale. La norma (art. 63 CCII) è stata subito testata in tribunale. Il Tribunale di Vasto, sent. 11 dicembre 2024 ha ad esempio omologato un accordo nonostante il voto contrario dell’Agenzia Entrate, applicando l’art. 63 e giudicando la proposta vantaggiosa per il Fisco rispetto al fallimento. Similmente, il già citato Tribunale di Cagliari 8/11/2024 in un caso con prevalenza di debiti erariali: qui il giudice ha sottolineato come la regola di soddisfacimento dei creditori pubblici secondo convenienza vada interpretata nell’ottica di preservare la continuità aziendale: “il provvedimento […] valorizza la continuità aziendale al pari della tutela degli interessi dei creditori pubblici, mettendo in risalto la salvaguardia della struttura produttiva e dei posti di lavoro”. Questo orientamento fa capire che i tribunali oggi sono propensi a dare luce verde ad accordi che salvano imprese e occupazione, anche scavalcando un diniego del Fisco, purché vi sia rispetto del principio no creditor worse off per l’Erario. Sul fronte della tutela dei non aderenti, la Cassazione (ord. 27447/2022) ha ribadito che è dovere del giudice verificare che l’accordo sia idoneo a soddisfarli come previsto dalla legge: l’omologazione non può essere un atto notarile passivo, ma richiede un giudizio ex ante di ragionevole realizzabilità del piano, analogamente a quanto affermato per i piani attestati. In particolare, la Corte ha cassato un decreto di omologa in cui il tribunale si era limitato a prendere atto dell’attestazione senza valutare la manifesta inadeguatezza del piano a risanare l’impresa: “gli atti esecutivi di un piano attestato [o accordo] sono esenti da revocatoria solo quando il giudice abbia preventivamente valutato l’idoneità del piano stesso a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa, presupponendo la veridicità dei dati e l’attendibilità della situazione aziendale”. Questo principio, sebbene formulato per il piano attestato ex art. 67 l.f., si applica parimenti agli ARD: il giudice deve respingere omologhe con piani irrealistici o dati falsati. Infine, in tema di impugnazioni, la Cass. 34840/2024 ha chiarito la forma del reclamo: l’omologa di ARD va impugnata in corte d’appello entro 30 giorni (ex art. 50 CCII), mentre non è ricorribile direttamente in Cassazione, confermando la natura camerale di tale decreto. In sintesi, la giurisprudenza più recente appare favorevole a un uso elastico e pragmatico degli accordi di ristrutturazione, volto a facilitarne l’efficacia (specialmente verso il Fisco) ma al contempo attenta a evitare abusi o scorciatoie documentali che compromettano la tenuta dei piani.

Piani Attestati di Risanamento

Il piano attestato di risanamento è uno strumento completamente stragiudiziale, disciplinato dall’art. 56 CCII (già art. 67, co. 3, lett. d) l.fall.), che consente al debitore in crisi di tentare il risanamento dell’impresa mediante un piano di risanamento appunto, predisposto autonomamente e asseverato da un professionista indipendente. Pur non essendo omologato né soggetto a procedura concorsuale, il piano attestato gode di una protezione legale: gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del piano non possono essere soggetti a revocatoria fallimentare in caso di successivo fallimento del debitore, purché il piano sia idoneo a risanare l’esposizione debitoria (art. 56, co. 3 CCII).

In pratica, il piano attestato è un accordo privato (o un insieme di accordi) tra il debitore e i suoi creditori, fondato su un documento di pianificazione dell’impresa che viene “attestato” veritiero e fattibile. È uno strumento molto utilizzato nella prassi per ristrutturazioni light, specie quando il numero di creditori non è elevato o si punta a coinvolgere solo quelli principali lasciando invariati gli altri.

Natura e finalità

Il piano attestato di risanamento ha la finalità di consentire all’impresa di superare lo stato di crisi e riequilibrare la propria situazione finanziaria senza ricorrere a procedure giudiziarie. Tipicamente viene impiegato quando l’imprenditore confida che la crisi sia temporanea o circoscritta e intende evitare la pubblicità e i costi di un concordato. Ad esempio, un’azienda con difficoltà di cassa può concordare privatamente con banche e fornitori delle dilazioni o ristrutturazioni e formalizzare ciò in un piano attestato.

La logica giuridica del piano attestato è: lo Stato non interviene attivamente (nessuna omologazione), ma concede una protezione indiretta – l’esenzione dalla revocatoria – per incoraggiare creditori e terzi a sostenere l’impresa in crisi senza timore che, se poi l’impresa fallisce, quegli atti di sostegno siano revocati dal curatore. Ad esempio, se una banca concede nuova finanza durante la crisi in esecuzione di un piano attestato, il suo finanziamento non verrà revocato in caso di fallimento successivo (in condizioni normali sarebbe revocabile se concesso nell’anno prima). Ciò incentiva le banche a finanziare i risanamenti.

Requisiti del Piano Attestato

1. Stato di crisi dell’impresa: Il presupposto oggettivo è che l’impresa versi in stato di crisi o insolvenza reversibile. In base all’art. 56 CCII il piano può essere utilizzato per superare la crisi o anche lo stato di insolvenza (purché vi sia prospettiva di recupero). Va da sé che se l’insolvenza è conclamata e irreversibile, un piano attestato sarebbe inadeguato e probabilmente non efficace in seguito (finirebbe in fallimento). Spesso il piano attestato si usa in stadi di pre-crisi o crisi iniziale.

2. Contenuto del piano: Deve essere un piano industriale-finanziario dettagliato, con:

  • Analisi della situazione attuale dell’impresa (squilibri patrimoniali e finanziari).
  • Strategia di risanamento (riduzione costi, dismissione asset, aumento di capitale, rifinanziamento, rinegoziazione debiti, etc.).
  • Tempistica delle azioni e flussi di cassa previsionali che dimostrino la capacità dell’impresa risanata di stare sul mercato e ripagare i debiti secondo nuovi termini.
  • Percentuali di soddisfacimento dei creditori coinvolti e eventuali sacrifici richiesti (es. banca X rinuncia a interessi di mora, fornitore Y accetta pagamento al 80% entro 6 mesi).
  • Di solito, un allegato al piano è costituito dagli accordi già stipulati o da stipulare con i creditori (ma questi accordi in sé sono contratti bilaterali, non un atto unico erga omnes come nel concordato).

3. Attestazione di un professionista indipendente: Elemento cardine: un esperto indipendente (un commercialista, revisore o consulente iscritto agli albi previsti) deve redigere una relazione di attestazione nella quale dichiara di aver esaminato il piano e i dati aziendali e attesta:

  • La veridicità dei dati aziendali presentati (bilanci, situazione debitoria, ecc.).
  • La fattibilità del piano, ossia l’idoneità dello stesso a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria e il riequilibrio economico-finanziario dell’impresa entro l’orizzonte considerato.

L’attestatore funge quindi da garante della serietà del piano verso terzi. Deve essere indipendente (nessun conflitto di interesse col debitore o creditori) e con adeguata esperienza. La sua relazione, pur non omologata da un giudice, assume rilievo cruciale: se redatta con superficialità o falso, il professionista ne risponde anche penalmente (falso in attestazioni, ex art. 236-bis L.F.). D’altro canto, la Cassazione ha chiarito che l’esenzione da revocatoria non è automatica per il solo fatto che esiste un piano attestato: serve che tale piano fosse effettivamente idoneo al risanamento, e spetta al giudice fallimentare verificarlo a posteriori (ex ante al momento di compiere gli atti). In un’importante pronuncia, Cass. 9743/2022, si è affermato che “per ritenere esenti da revocatoria fallimentare gli atti esecutivi di un piano attestato il giudice deve effettuare, con giudizio ex ante, una valutazione […] circa l’idoneità del piano a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria, … nei limiti dell’evidenza della inettitudine del piano”. Quindi se il piano era manifestamente irrealistico, gli atti compiuti non beneficeranno della protezione (perché fuori dallo scopo della norma). In sostanza, l’attestazione deve essere fatta bene e su un piano credibile; non basta esibire un pezzo di carta per proteggere operazioni dubbie.

4. Forma e pubblicità: Diversamente dagli accordi, la legge non richiede la pubblicazione del piano attestato nel Registro Imprese (salvo che sia opportuno depositarlo per dare data certa). Spesso però, per rafforzare l’efficacia probatoria, il debitore porta a registro l’attestazione e una sintesi del piano, o la deposita presso un notaio per marca temporale. Non è obbligatorio, ma è consigliabile per poter poi opporre la data del piano a terzi (ad es. dire: l’atto X è stato compiuto “in esecuzione di un piano attestato con data certa anteriore”, condizione testuale per la protezione ex art. 166 CCII). Quindi in pratica l’imprenditore prudentemente deposita il piano o almeno una attestazione notarile della sua esistenza con data certa.

5. Adesione dei creditori: Non c’è una % minima fissata di adesioni, come nei 60% degli accordi. In teoria il piano potrebbe coinvolgere anche un solo creditore importante. Tuttavia, perché abbia senso, di solito il debitore ottiene l’adesione (anche solo informale) della maggioranza dei creditori critici. Ad esempio, se un piano prevede l’allungamento dei termini di pagamento verso i fornitori principali, è opportuno che tutti quelli interessati abbiano espresso consenso al nuovo termine. Il piano attestato infatti non vincola automaticamente i creditori: è un atto unilaterale del debitore, per cui ogni modifica delle obbligazioni dei creditori deve avvenire con il loro accordo contrattuale. Quindi spesso il piano allega le scritture private con cui ogni creditore ha accettato la rinegoziazione. Chi non aderisce rimane nei suoi diritti e potrebbe anche agire legalmente; ecco perché se ci sono troppi dissenzienti, si preferirà un accordo ex art. 57 o un concordato.

Esempio di operatività

Un tipico scenario di piano attestato:
Gamma S.p.A., impresa in difficoltà, elabora un piano di risanamento a 3 anni: prevede di vendere un ramo d’azienda non strategico, ricavando liquidità per rimborsare parte dei debiti, e di rilanciare la produzione core introducendo nuovi soci finanziatori. Nel frattempo concorda con le sue 2 banche la moratoria delle quote capitale dei mutui per 18 mesi e con i 5 fornitori principali uno sconto del 20% sui loro crediti in cambio di pagamento immediato del restante 80%. Il tutto è messo nero su bianco in un piano economico-finanziario dal CFO di Gamma, che mostra che a regime (dal terzo anno) l’azienda tornerà in utile e solvibile. Un professionista attestatore esamina i numeri e li ritiene plausibili; verifica le lettere d’intenti dei soci disposti a investire e gli accordi firmati con banche e fornitori; quindi redige la relazione in cui dichiara che i dati storici di Gamma sono veri e il piano appare idoneo a risanare l’impresa, riportando magari che se Gamma esegue il piano uscirà con un rapporto debt/EBITDA sano e sufficiente a pagare i debiti residui. Gamma deposita copia del piano e dell’attestazione presso un notaio il 1° marzo 2025, dando data certa. Subito dopo, in attuazione del piano, vende il ramo d’azienda e paga i fornitori l’80% pattuito (gli atti di pagamento e vendita sarebbero potenzialmente revocabili se Gamma fallisse entro 2 anni, ma grazie all’attestazione depositata il 1° marzo, essi non lo saranno, in quanto “atti esecutivi di piano attestato” con data certa anteriore). Le banche sospendono le rate come convenuto. Gamma ottiene l’aumento di capitale promesso dai soci. Dopo 3 anni, Gamma è risanata e ha evitato sia la procedura concorsuale sia il fallimento.

Se invece Gamma fallisse nonostante il piano (poniamo che al secondo anno la situazione degeneri e venga dichiarato fallimento), e il curatore cercasse di far revocare i pagamenti fatti agli specifici fornitori (classica revocatoria per pagamento preferenziale), i fornitori potrebbero eccepire l’esenzione: “pagamento ricevuto in attuazione di piano attestato depositato il 1/3/2025”. Il curatore allora verificherà se il piano era serio. Se risultasse che il piano fin dall’inizio era carta straccia (es. i soci non avevano davvero messo soldi, le previsioni erano fantasiose) potrebbe provare a contestare l’esenzione dimostrando che il piano era “manifestamente inidoneo”. Ma se era ragionevole e solo eventi successivi l’hanno vanificato, l’esenzione terrà e i fornitori non dovranno restituire nulla.

Vantaggi e limiti del Piano Attestato di Risanamento

Vantaggi:

  • Totale riservatezza: Non essendoci alcun intervento del tribunale né pubblicità obbligatoria, il piano attestato consente di gestire la crisi in modo confidenziale. Solo i creditori coinvolti ne vengono a conoscenza. Questo può preservare la reputazione della società e le relazioni commerciali.
  • Flessibilità estrema: Non ci sono regole formali su percentuali di consenso, classi, ecc. L’imprenditore e i creditori hanno libertà contrattuale. Possono coinvolgere solo alcuni creditori (ad es. ristrutturare solo i debiti bancari, lasciando intatti i fornitori minori), modulare condizioni diverse per ciascuno, ecc. È uno strumento tagliato su misura.
  • Rapidità: Il tempo dipende solo dalle trattative. Non servono omologhe. Un piano può essere concepito e attuato anche in poche settimane se c’è intesa.
  • Protezione legale chiave (revocatoria): Dà la tranquillità che i supporti finanziari e gli atti dispositivi effettuati per il risanamento non verranno poi travolti da azioni revocatorie. Ciò incentiva nuovi apporti di liquidità. Anche la banca che allunga il debito o concede nuova linea vede riconosciuta prededuzione al suo credito se poi vi fosse un fallimento (ex art. 99 CCII per finanziamenti in esecuzione di piani attestati). Quindi c’è tutela anche per nuova finanza.

Limiti e rischi:

  • Mancata esecutorietà verso terzi: Chi non è d’accordo non è vincolato. Un creditore estraneo (o anche aderente ma impaziente) potrebbe comunque agire esecutivamente. Il piano attestato non congela legalmente le azioni (diversamente dal concordato/accordo). Quindi se c’è un “franco tiratore” tra i creditori, può far saltare il piano (pignorando conti ad es.). Per questo il piano attestato funziona bene quando c’è un consenso diffuso di fatto o quando i pochi estranei sono pagati subito.
  • Assenza di misure protettive automatiche: Connesso al punto sopra, il piano non consente di attivare un automatic stay generalizzato. L’azienda rimane esposta a iniziative individuali (salvo eventualmente accedere in parallelo a una composizione negoziata per ottenere protezione temporanea, cosa possibile).
  • Nessuna forzatura su creditori pubblici: Se il piano include debiti fiscali, serve necessariamente il placet dell’Erario per eventuali dilazioni o stralci, perché senza omologa il Fisco può sempre procedere. Negli ultimi anni l’Amministrazione finanziaria ha mostrato disponibilità a transazioni solo nel quadro formale di concordati/accordi. Un piano attestato quindi è difficile da usare se l’indebitamento fiscale è pesante, salvo pagarlo integralmente.
  • Rischio penale e responsabilità attestatore: L’attestatore e l’imprenditore si assumono un onere serio. Se vi fossero false rappresentazioni o collusioni (es. un attestatore “di comodo” che certifica un piano irrealistico giusto per evitare revocatorie), vi possono essere conseguenze penali (reato di false attestazioni, reato di bancarotta nel fallimento) e civili. Inoltre, se il piano fallisce, i creditori insoddisfatti potrebbero rivalersi sull’attestatore per negligenza professionale.
  • Efficacia ex post incerta: come detto, l’esenzione da revocatoria è condizionata all’effettiva idoneità del piano. Dunque c’è sempre una certa incertezza interpretativa: se il fallimento arriva, starà al giudice valutare a posteriori la qualità del piano. Ad esempio, Cassazione 2022 citata ha segnalato che il giudice deve togliere la protezione se il piano era inetto. Ciò può generare contenziosi: banche o terzi dovranno dimostrare che all’epoca il piano era credibile. Non è automatico come un’omologa giudiziale che fa stato.

In definitiva il piano attestato è preferibile quando la crisi è contenuta e gestibile, e l’imprenditore ha pochi stakeholder principali cooperativi. Se invece la crisi è grave o diffusa tra molti creditori eterogenei, il piano attestato potrebbe non bastare e conviene un accordo o concordato.

Possiamo riassumere anche qui con una tabella:

Pro del Piano Attestato di Risanamento Contro / Rischi del Piano Attestato
Nessuna procedura ufficiale: niente tribunale, niente commissari, niente pubblicazione obbligatoria. Si evita stigma e si mantiene massima discrezione.– Accordi su misura: l’azienda può trattare bilateralmente con ogni parte interessata e cucire soluzioni ad hoc. Non serve uniformare il trattamento di tutti i creditori (non c’è par condicio da rispettare contrattualmente). Ad esempio, si può pagare subito un fornitore strategico e posticipare altri, se questi acconsentono.– Tempistiche ridotte: la crisi si può risolvere rapidamente con accordi privati, senza attendere udienze o votazioni. Ciò riduce il periodo di incertezza.– Continuità totale dell’impresa: l’operatività quotidiana non subisce limitazioni né ingressi di organi esterni. Gli amministratori conservano pieni poteri (salvo obbligo di informare i soci ex art. 120-bis, se applicabile per analogia anche ai piani attestati).– Esenzione da revocatoria e incentivi finanziatori: i terzi che finanziano o contrattano nel piano sono protetti se poi vi fosse fallimento. Questo migliora le chance di trovare nuova finanza o convincere fornitori a continuare. I nuovi crediti possono essere resi prededucibili (su autorizzazione tribunale, art. 100 CCII, anche se su piano attestato). Vincola solo chi vuole: un creditore che non firmi accordi nel piano resta libero di agire per il 100% subito. Non esiste un “cram-down” per obbligarlo. Dunque un piano può essere frustrato da un singolo attore che faccia pignoramenti.– Mancanza di moratoria legale: non c’è un ombrello automatico di sospensione. L’impresa potrebbe dover far fronte a istanze di fallimento o sequestri durante il tentativo di risanamento, senza protezione specifica (se non ricorrendo a misure d’urgenza tipo accordarsi su rinunce immediate con tutti i creditori, oppure, in emergenza, presentare un concordato in bianco per bloccare tutto e poi rinunciare se il piano privato va in porto).– Incertezza sull’efficacia legale ex post: la protezione dagli atti revocatori non è garantita se il piano era inadeguato. Spetta al curatore valutare e al giudice decidere. I terzi potrebbero trovarsi coinvolti in cause in caso di fallimento successivo per dimostrare la validità del piano al tempo.– Dipendenza dall’attestatore: la credibilità dell’operazione poggia sulla serietà del professionista attestatore. Se questi sbaglia valutazione o è indulgente, il piano potrebbe fallire e i creditori ne soffriranno. Viceversa, se è troppo rigido e non attesta, il piano non parte. È dunque fondamentale scegliere un attestatore autorevole e rigoroso (con costi conseguenti).– Nessuna liberazione formale dei debiti: tecnicamente, a differenza del concordato, il piano non “cancella” i debiti non pagati integralmente. La liberazione avviene solo per effetto degli accordi individuali. Se un creditore aderente accetta 80% a saldo, formalmente rilascia quietanza e rinuncia al 20%; ma non c’è un provvedimento che ne impedisca eventuali pretese residuali se quell’accordo è contestato. In concordato invece l’omologa chiude la partita erga omnes.

(Tabella: vantaggi vs svantaggi dei piani attestati)

Giurisprudenza e casi: Abbiamo citato la Cass. 9743/2022 che ha stabilito il principio del controllo di merito sull’idoneità del piano come condizione per la protezione revocatoria. Nello specifico, in quel caso, una banca aveva erogato un finanziamento in esecuzione di un piano attestato poi risultato fallimentare; il curatore negava il privilegio pignoratizio e la prededuzione sul rimborso. La Cassazione ha accolto il ricorso del curatore, affermando che il tribunale di merito erroneamente aveva considerato automaticamente esente l’operazione per la sola presenza del piano attestato, mentre doveva verificarne la plausibilità. Questo insegna che l’attestazione deve essere seria e ben fondata: il giudice non si limita a prendere atto ma può sindacare la “evidente inettitudine del piano” a posteriori.

Un altro ambito è la responsabilità dell’attestatore: vi sono state pronunce (es. Trib. Milano 2021) dove il professionista è stato chiamato a rispondere di danni se l’attestazione infedele ha indotto terzi in errore. Anche penalmente, casi di attestazioni dolosamente false sono stati perseguiti (basti ricordare il caso Mercatone Uno, dove gli amministratori depositarono un piano attestato rivelatosi inattendibile e poi la società fallì: ciò ha portato a indagini su eventuali reati).

In sintesi, il piano attestato di risanamento è uno strumento estremamente utile nelle mani dell’imprenditore e del suo avvocato, ma da maneggiare con cura. È consigliabile quando la crisi è ancora gestibile con accordi tra pochi soggetti e c’è fiducia reciproca. Come recita un commento, “il piano attestato consente di tagliare o dilazionare il debito solo verso i creditori consenzienti, mentre chi non aderisce deve essere soddisfatto integralmente”: ciò riassume bene la sua potenzialità (grande libertà con chi coopera) e il suo limite (nessun effetto su chi resta fuori). Spesso rappresenta il primo tentativo di risanamento; se fallisce, preludendo magari a un aggravarsi della crisi, allora si passa a strumenti più incisivi (accordo ex art. 57 o concordato).

Composizione Negoziata della Crisi

La Composizione Negoziata della Crisi d’impresa (CNC) è un percorso introdotto nell’ordinamento italiano a fine 2021 (D.L. 118/2021, conv. L. 147/2021) e ora regolato negli artt. 12-25-quinquies CCII. Si tratta di una procedura volontaria e confidenziale che permette all’imprenditore in condizioni di squilibrio di avvalersi dell’assistenza di un esperto indipendente per cercare soluzioni di risanamento attraverso trattative con i creditori e altri stakeholder, senza l’immediato intervento dell’autorità giudiziaria. È un istituto innovativo, ispirato ai sistemi di early resolution di altri Paesi e alle indicazioni della Direttiva UE, che mira a favorire la gestione precoce della crisi in modo meno formale rispetto alle procedure concorsuali tradizionali.

Accesso e presupposti

Chi può accedere: Ogni imprenditore commerciale o agricolo, di qualsiasi dimensione (anche sotto soglia), incluso quindi le società di persone, capitali, cooperative, etc. È escluso il consumatore (che ha altri strumenti) ma per le imprese non vi sono preclusioni soggettive. Anzi, le piccole imprese sono tra i destinatari principali, data l’assenza di pre-requisiti rigidi e di costi giudiziari. Non servono dichiarazioni di insolvenza o stato di crisi conclamato: l’accesso è volontario e basato su un’auto-diagnosi dell’imprenditore.

Presupposto oggettivo: La norma originale prevedeva che l’impresa dovesse trovarsi in condizioni di “crisi o insolvenza” non ancora irreversibile e con prospettive di risanamento. In sede di conversione, si è chiarito che può accedervi anche chi è semplicemente in situazioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario, potenzialmente reversibili (quindi anche pre-crisi). Infatti l’art. 12 CCII dice che può richiedere la CNC l’imprenditore “che si trova in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che rendono probabile la crisi o l’insolvenza” ma anche l’imprenditore in crisi o insolvenza già in atto, purché vi sia ragionevole perseguibilità del risanamento. Dunque la soglia è volutamente bassa: si vuole incentivare chiunque percepisca difficoltà a farsi avanti prima che sia troppo tardi.

Iniziativa: L’imprenditore presenta un’istanza tramite la piattaforma telematica nazionale istituita presso le Camere di Commercio. Occorre allegare informazioni finanziarie, piani prospettici, una descrizione dello stato di crisi e possibilmente un piano iniziale di risanamento o quantomeno idee di soluzione (non vincolanti).

Nomina dell’esperto: Ricevuta l’istanza, una commissione apposita (presso la CCIAA) nomina un esperto indipendente scelto da un elenco nazionale di professionisti specializzati. L’esperto nominato è un professionista con almeno 5-10 anni di esperienza in ristrutturazioni, che deve essere terzo rispetto all’imprenditore e ai creditori. L’esperto accetta l’incarico e da quel momento comincia la fase negoziata vera e propria.

Svolgimento della procedura negoziata

Colloquio iniziale e check-up: Entro 5 giorni l’esperto esamina la situazione e convoca l’imprenditore per uno o più incontri preliminari, in cui valuta le cause della crisi, la documentazione e la fondatezza delle prospettive di risanamento. Se l’esperto ritiene che non vi siano concrete prospettive di risanamento, deve darne comunicazione motivata e la procedura si chiude subito (art. 17, co. 5 CCII). Questa è una filtro importante: se l’impresa è decotta, la composizione negoziata non deve fungere da mero ritardo. Se invece l’esperto individua margini di risanamento, si procede.

Piano di azione e trattative: L’esperto, insieme all’imprenditore, redige un elenco di soggetti da coinvolgere (principali creditori, banche, fornitori strategici, eventuali investitori interessati, ecc.). Si predispone una sorta di agenda e si inizia a contattare i creditori per incontri congiunti o separati. L’esperto ha il ruolo di facilitatore e mediatore: convoca le parti, modera le riunioni, suggerisce possibili soluzioni equitative, sprona alla collaborazione. È tenuto alla riservatezza su tutte le informazioni acquisite (elemento cruciale: nulla trapela all’esterno). L’esperto non ha poteri decisori, non può imporre accordi, ma la sua figura terza può aiutare a ricostruire la fiducia tra le parti e a superare diffidenze (ad es. certificando dati contabili).

Durata: La composizione negoziata ha una durata iniziale di 180 giorni, prorogabile di ulteriori 180 su richiesta motivata dell’imprenditore con assenso dell’esperto (massimo un anno quindi). Entro tali termini si spera di raggiungere un accordo o soluzione. Durante la procedura, l’imprenditore conserva la gestione ordinaria e straordinaria della sua impresa, sotto l’osservazione dell’esperto. Ogni atto straordinario compiuto deve però essere segnalato preventivamente all’esperto, il quale se vede atti pregiudizievoli può segnalarli alle parti o al tribunale (in casi estremi può spingersi a dimettersi se il debitore agisce in mala fede).

Misure protettive e cautelari: Uno dei vantaggi per l’imprenditore è la possibilità di chiedere al tribunale l’applicazione di misure protettive durante la negoziazione (art. 18-19 CCII). In pratica può ottenere un decreto che inibisce ai creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari per la durata della composizione (massimo 240 giorni). Questo “scudo” consente di condurre le trattative senza l’assillo di pignoramenti. Può anche chiedere misure cautelari specifiche, ad esempio la sospensione di determinate obbligazioni (pagamenti di canoni, rate mutuo) se funzionali alle trattative. I tribunali hanno in questi mesi emanato diversi provvedimenti su tali misure: in alcuni casi hanno concesso la sospensione delle rate di finanziamenti e perfino vietato alle banche di segnalare in Centrale Rischi l’impresa per ritardi (Trib. Lodi 30.5.2024 ha ritenuto opportuno inibire segnalazioni negative per non vanificare le trattative). Altri tribunali (es. Verona) sono stati più restrittivi negando sospensioni troppo incisive giudicandole “esorbitanti rispetto alla protezione prevista”. In generale, le misure protettive servono a congelare la situazione ma non possono alterare permanentemente i diritti (devono essere temporanee e funzionali). Vanno richieste con ricorso, il tribunale decide entro 30 gg, verificando che vi sia fumus boni iuris (cioè la ragionevolezza delle trattative in corso) e che la misura sia necessaria. Le misure protettive concesse vengono pubblicate nel Registro Imprese, dunque in quel caso qualche informazione diventa pubblica (sacrificando un po’ di riservatezza per ottenere protezione).

Esito delle trattative: Tre possibili esiti:

  • Risanamento raggiunto: Se le trattative vanno a buon fine, l’imprenditore può concludere uno o più accordi con i creditori (ad esempio accordo con banche per ristrutturare i debiti finanziari, accordo separato con fornitori per dilazionare pagamenti). Questi accordi sono privatistici; volendo, se ne hanno i requisiti, possono poi essere formalizzati come un accordo ex art. 57 CCII da omologare. Non è obbligatorio omologarli se tutti sono soddisfatti adempiono spontaneamente, ma spesso per renderli più solidi (specialmente se coinvolto il fisco) si chiede omologa come accordo di ristrutturazione. In alternativa, se si trova un investitore che rileva l’azienda, si può attuare una cessione concordata etc. La composizione negoziata si chiude con la sottoscrizione di tali accordi e con la redazione di una relazione finale positiva dell’esperto. Non c’è un provvedimento del giudice in questa fase: semplicemente l’esperto comunica l’esito. Secondo i dati Unioncamere, circa il 20-21% delle procedure si conclude con un accordo di successo – percentuale in crescita nel 2024 rispetto al 2023.
  • Prosecuzione con altra procedura concorsuale: se le trattative non portano a un risanamento completo, ma producono comunque una base utile, l’imprenditore può decidere di accedere a uno strumento formale: ad esempio, può preparare un concordato preventivo “in continuità” (magari avendo già l’adesione informale di creditori raccolta durante la negoziazione, il che aumenterà le chance di approvazione). Oppure può negoziare un accordo di ristrutturazione ex art. 57 e depositarlo per l’omologa. La composizione negoziata in questo senso può preludere ad una uscita regolamentata. In tal caso, l’esperto chiude la procedura e redige relazione finale spiegando che si è scelto un concordato, ecc. Degna di nota è la possibilità, introdotta dal DL 118/21, di un concordato semplificato per liquidazione (art. 25-sexies CCII): se le trattative sono fallite nonostante la correttezza, l’imprenditore entro 60 giorni può proporre un piano di liquidazione dei beni da far omologare dal tribunale senza voto dei creditori. Questo concordato semplificato è, come visto, una scorciatoia per liquidare l’impresa sotto controllo giudiziale in tempi rapidi, evitando il fallimento puro e dando almeno un beneficio (utilità) ai creditori. È un’opzione di “chiusura” se nessun accordo è stato possibile ma si vuole comunque evitare la liquidazione giudiziale ordinaria.
  • Archiviazione per esito negativo: se l’esperto vede che non c’è verso di trovare un accordo (ad es. i creditori sono troppo distanti o l’impresa non è realmente recuperabile) può anticipatamente concludere che la negoziazione non avrà successo. Oppure, arrivati alla scadenza massima, le parti non hanno trovato soluzioni. In tali casi la procedura termina con esito negativo. L’esperto redige la relazione finale constatando l’esito. Questa relazione finale viene comunicata al debitore e (nelle ultime versioni normative) anche al Pubblico Ministero presso il tribunale, in modo che se vi è insolvenza conclamata possa valutare di attivarsi per l’apertura di una liquidazione giudiziale. Va detto che non c’è automatismo: la composizione negoziata fallita non trasforma in automatico l’azienda in fallita, ma è chiaro che se l’insolvenza permane, i creditori potrebbero a quel punto presentare istanza di fallimento.

Durante tutto il percorso, gli organi di controllo societari (collegio sindacale) e l’eventuale revisore hanno il dovere di monitorare che gli amministratori seguano le raccomandazioni dell’esperto e non aggravino la situazione; se ci fossero irregolarità gravi, i sindaci devono segnalarle al tribunale.

Vantaggi e svantaggi della Composizione Negoziata

Vantaggi:

  • Prevenzione e tempestività: Permette di agire molto prima di dover pronunciare la parola “insolvenza” in tribunale. È attivabile già ai primi segnali, con l’assistenza di un esperto, e questo può salvare imprese che altrimenti incancrenirebbero la crisi.
  • Costi ridotti: Non ci sono spese di giustizia onerose; l’esperto ha diritto a un compenso stabilito da decreto, spesso inferiore ai costi di un commissario più team legale di procedura concorsuale. Lo Stato ha predisposto la piattaforma gratuita. È quindi accessibile anche a PMI.
  • Riservatezza: A meno che non si chiedano misure protettive pubblicate, l’intero processo rimane confidenziale. Questo riduce il rischio di perdere fiducia di mercato. Infatti, i dati mostrano che molte imprese preferiscono iniziare con la CNC proprio perché “non si viene a sapere”.
  • Elasticità delle soluzioni: Non essendo una procedura rigida, ogni tipo di esito è possibile: dal mantenimento integrale dell’impresa con nuovo finanziatore, alla cessione di asset, alla spinoff di rami, alla transazione con alcuni creditori. L’esperto può suggerire combinazioni creative che un giudice non potrebbe imporre.
  • Protezione su misura: Le misure protettive e cautelari sono richieste “à la carte” a seconda delle esigenze. Ad esempio, si può chiedere di bloccare solo alcune azioni o solo alcuni creditori se serve. In alcuni casi i giudici hanno esteso le protezioni anche ai coobbligati o garanti dell’imprenditore (es. Trib. Verona 24/4/2023 ha ammesso estensione a un fideiussore), perché se le banche agiscono sui garanti poi si riflettono sull’impresa. Ciò mostra la flessibilità del sistema.
  • Mantenimento del controllo all’imprenditore: diversamente da procedure dove si rischia il controllo (nel concordato liquidatorio o nel fallimento l’imprenditore esce), qui l’imprenditore resta protagonista e colui che negozia la propria salvezza, con l’aiuto dell’esperto ma senza perderne la gestione.
  • Incentivi legali: La legge prevede alcuni premi per chi usa la CNC: es. non scatta la revoca degli affidamenti bancari per il solo avvio della procedura; le eventuali prededucibilità di nuovi finanziamenti concordati; esenzioni da responsabilità personali per alcuni debiti fiscali se viene sottoscritto accordo di rateizzo durante CNC; attenuanti nelle sanzioni penali fallimentari se poi la procedura finisce male ma l’imprenditore ha collaborato in CNC (circostanze valutate positivamente dal giudice).

Svantaggi:

  • Esito incerto: Non c’è garanzia di successo. Circa 1 impresa su 5 ce la fa, significa che 4 su 5 magari poi devono ripiegare su procedure concorsuali o falliscono. Quindi non è una panacea: dipende molto dalla buona fede dell’imprenditore e dalla concreta risanabilità.
  • Nessun effetto impositivo sugli stakeholder: Simile al piano attestato, qui nulla è imposto. Se un creditore non vuole trattare, non c’è obbligo (a differenza di concordato dove se maggioranza vota, minoranza è comunque trascinata nel piano). La CNC si basa sulla collaborazione volontaria. Un creditore ostile può disertare le riunioni e, scadute le misure protettive, tornare all’attacco, vanificando gli sforzi.
  • Scoperta parziale al pubblico se protezioni: Se l’azienda ha bisogno di misure protettive (ad es. sospendere i pagamenti), allora deve subire la pubblicazione dell’istanza. Questo rende nota la difficoltà e può allarmare controparti contrattuali. Dunque c’è un trade-off tra riservatezza e protezione: alcune aziende hanno evitato di chiedere misure protettive proprio per non comparire sul registro, ma così hanno rischiato la tenuta.
  • Richiede cooperazione e trasparenza totale: L’imprenditore deve essere sincero e aperto con l’esperto e i creditori. Se nasconde problemi o crea finte prospettive, la CNC fallirà e anzi peggiorerà la sua posizione (perdita di credibilità, eventuali responsabilità). Insomma, è uno strumento che funziona solo in un clima fiduciario, che non sempre c’è.
  • Possibile abuso per ritardare fallimento: C’è il rischio che qualcuno acceda alla CNC senza vera volontà di risanare, solo per guadagnare tempo protetto. La legge ha cercato di mitigare (con potere dell’esperto di chiudere presto e con vigilanza PM alla fine) ma qualche episodio di forum shopping può capitare.
  • Coordinamento con procedure concorsuali da affinare: Ad esempio, se la CNC fallisce e l’impresa va in concordato, ci si chiede come trattare gli esborsi fatti durante la CNC: sono prededucibili? (sì, se autorizzati come finanziamenti). Oppure, se la CNC è fallita e i creditori presentano istanza di fallimento prima che l’imprenditore depositi un concordato, c’è un buco normativo su come considerare la relazione finale dell’esperto (che potrebbe essere usata come prova di insolvenza). Questi dettagli sono oggetto di interpretazione e non del tutto testati.

Possiamo anche qui esporre una tabella breve di pro/contro:

Pro della Composizione Negoziata Contro/Rischi della Composizione Negoziata
Intervento precoce e volontario: approccio friendly, senza stigma, utile a salvare imprese prima del punto di non ritorno.– Esperto terzo: presenza di un mediatore qualificato che può trovare soluzioni creative e far dialogare le parti, riducendo conflittualità.– Nessuna spossessamento: l’imprenditore mantiene la gestione e può anzi dimostrare le proprie capacità correttive, sotto guida esperto.– Costi e burocrazia limitati: piattaforma online, procedura snella, compensi calmierati.– Misure protettive flessibili: possibilità di sospendere azioni dei creditori e proteggere l’impresa temporaneamente, anche modulandole (es. sospendere solo pignoramenti su certi beni).– Possibilità di vari esiti: dall’accordo stragiudiziale alla transazione fiscale, dal nuovo finanziatore all’accesso a concordato, fino al concordato semplificato (in caso di esito negativo) evitando il fallimento immediato.– Valorizzazione del going concern: statisticamente, molte imprese salvate mantengono posti di lavoro (Unioncamere indica oltre 6.500 posti salvati in 120 imprese risanate al 2024). Nessuna obbligatorietà degli accordi: creditori liberi di non aderire. Senza adesione larga, l’esperto non ha potere su dissenzienti, se non moral suasion.– Possibile pubblicità (se misure richieste): il mercato può percepire la difficoltà se emergono notizie, con rischio di stretta credito o rescissione contratti da controparti timorose.– Richiede tempo e collaborazione: non adatta a crisi rapidissime tipo default improvviso senza cassa (lì serve subito il tribunale magari). Qui bisogna convincere e discutere, serve qualche mese almeno (mediamente 250 giorni per chiude le procedure, di cui ~357 per quelle di successo).– Outcome incerto: il tasso di successo, sebbene in aumento al ~21%, implica che quasi 4 casi su 5 non arrivano a un accordo definitivo. L’impresa deve avere un piano B se CNC fallisce (es. già pronto un concordato minore o un liquidatore).– Rischio di aggravamento nel frattempo: se la negoziazione si protrae e poi fallisce, l’impresa potrebbe essersi ulteriormente indebitata o aver bruciato risorse. Ad esempio, durante la protezione non paga fornitori, accumula arretrati; se poi salta tutto, è peggio di prima (anche se c’è l’obbligo di pagare debiti <5k con fornitori strategici).– Normativa nuova, qualche incertezza applicativa: es. sui rapporti con eventuali garanzie pubbliche, su come gestire interessi dei soci etc. Si sta formando ora la prassi.

Dati statistici aggiornati: Fino a maggio 2024, risultano presentate circa 1450 istanze di composizione negoziata. Di queste, una parte è ancora in corso, 153 erano chiuse con successo al 15/10/2023 (successo = conclusione con accordo) e 210 al primo trim. 2024. Il trend è di crescita: molte più imprese hanno iniziato a utilizzarla mano a mano che lo strumento è diventato conosciuto, con un +50% semestrale di nuove istanze a fine 2023. I settori più attivi sono manifattura e costruzioni, e le regioni con più casi Lombardia, Lazio, Emilia R., Veneto. Ciò dimostra che la CNC sta entrando nelle prassi d’impresa.

Caso pratico: Delta S.r.l., piccola azienda di abbigliamento, vede calare le vendite e accumula ritardi coi fornitori e col fisco. I debiti non sono enormi (500k totale) ma la banca minaccia di revocare gli affidamenti. Delta, su consiglio del suo legale, attiva la composizione negoziata. Viene nominato un esperto. Dopo analisi, si convoca la banca principale e alcuni fornitori rilevanti: emerge che la banca sarebbe disposta a non revocare il fido se Delta apporta nuovi capitali; i fornitori sarebbero disposti a un piccolo sconto purché si impegnino a ordini futuri. L’esperto aiuta a stilare un accordo dove: i soci di Delta versano 50k freschi per pagare subito il 50% dei debiti fornitori; i fornitori accettano di stralciare un 10% e diluire il resto 40% in 6 mesi; la banca mantiene lo scoperto per un altro anno. Si porta dentro anche l’Agenzia Entrate Riscossione, ottenendo un piano di rateizzazione in 5 anni dei debiti fiscali (nessuno stralcio, ma comunque sostenibile grazie ai nuovi capitali). In 4 mesi la trattativa si chiude con queste intese firmate. L’esperto fa relazione finale positiva. Delta esce dalla negoziazione avendo evitato di finire insolvente: grazie all’apporto soci e alla collaborazione di creditori, prosegue l’attività e risana i conti. Questo esempio illustra come la CNC può facilitare accordi combinati (banche, fornitori, Erario tutti coordinati, cosa difficile senza un tavolo unico).

Giurisprudenza su CNC: È in evoluzione, ma alcuni punti fermi:

  • Trib. Roma 2022 e altri: le misure protettive possono essere rinnovate fino a 240 giorni totali, ma richiedono una valutazione rigorosa del fumus. Non vanno concesse se appare improbabile un accordo (es. se manca un piano credibile).
  • Trib. Milano 2023: sulla selettività delle misure – ok sospendere pignoramenti ma non è possibile sospendere per troppo tempo pagamenti di debiti tributari correnti, perché la norma cautelare (art. 19) esclude finalità di prosecuzione attività (come rilevato anche da Trib. Verona sul no alla sospensione rate fisco).
  • Trib. Venezia 2022: l’esperto non può farsi coinvolgere in conflitti, deve mantenere terzietà. Se emergono conflitti, va sostituito.
  • Trib. Firenze 2023: se durante la CNC emergono atti di frode, l’esperto deve prendere atto e può chiedere cessazione misure protettive. Ad esempio, se il debitore occulta beni.
  • Cass. Penale 2023: ha escluso la punibilità per il reato di bancarotta semplice dell’imprenditore che durante CNC abbia contratto debiti ulteriori in buona fede seguendo il piano dell’esperto, riconoscendo la scriminante dell’aver agito per tentare il risanamento (tema di favore).

In definitiva, la composizione negoziata rappresenta una novità significativa nel panorama italiano: un cambio di approccio che coinvolge cultura aziendale, creditori e professionisti in una gestione concordata della crisi, con lo Stato in funzione di facilitatore (attraverso la piattaforma e la nomina esperto). È uno strumento ancora giovane ma già con risultati tangibili, e destinato ad integrarsi sempre più col resto degli strumenti (spesso come preludio, come “palestra” di negoziazione che può sfociare in un accordo art. 57 o un concordato semplificato).

FAQ – Domande Frequenti sulla Ristrutturazione del Debito Societario

D1: Un imprenditore può scegliere liberamente quale strumento di ristrutturazione utilizzare?
R: In parte sì. La scelta dipende dalle caratteristiche dell’impresa e della crisi. Se l’azienda è sopra la soglia di fallibilità e ha molti creditori con cui trattare, potrà optare per un concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione. Se invece la difficoltà coinvolge soprattutto banche o pochi creditori, un piano attestato di risanamento può bastare. Per una crisi incipiente, la composizione negoziata è spesso il primo passo consigliato, perché è riservata e può evitare di arrivare a procedure giudiziali. Va però ricordato che alcuni strumenti richiedono requisiti: ad esempio, un’impresa agricola non può fare concordato preventivo ma può fare un accordo di ristrutturazione. Inoltre un’impresa “minore” (sotto soglia) non può accedere a concordato preventivo ordinario, dovendo semmai utilizzare il concordato minore. In sintesi, c’è una certa libertà iniziale, ma il quadro normativo indirizza verso lo strumento adeguato in base a dimensione e tipo di crisi.

D2: Qual è la differenza tra il concordato preventivo e un accordo di ristrutturazione dei debiti?
R: Entrambi mirano a regolare la crisi coinvolgendo i creditori, ma differiscono molto. Il concordato preventivo è una procedura concorsuale formale: coinvolge tutti i creditori, prevede un voto a maggioranza e l’intervento diretto del tribunale con omologazione che vincola tutti i creditori (anche i dissenzienti). Il concordato richiede il rispetto delle parità di trattamento e delle regole di prelazione (salvo eccezioni autorizzate) e può portare a stralci unilaterali dei crediti in base a decisione della maggioranza. L’accordo di ristrutturazione, invece, è fondamentalmente un accordo contrattuale tra debitore e una parte qualificata dei creditori (almeno 60%); solo chi firma è giuridicamente vincolato, e i non firmatari devono comunque essere pagati integralmente salvo che intervenga un cram-down fiscale o un’estensione a certe categorie. L’accordo è più flessibile e rapido, ma non può imporre perdite ai dissenzienti se non in casi particolari (Fisco e finanziari col 75%). In estrema sintesi: il concordato è collettivo e impone la soluzione a tutti con voto giudiziale; l’accordo è negoziato, volontario e vincola principalmente i soli aderenti. Spesso la scelta dipende da quanti creditori bisogna vincolare: se se ne convincono abbastanza (≥60%) e i restanti si possono pagare interamente, l’accordo è preferibile; se invece è necessario coinvolgere e falcidiare praticamente tutti i creditori, occorre il concordato.

D3: I debiti fiscali e contributivi possono essere falcidiati (ridotti) in un piano di ristrutturazione?
R: Sì, oggi è possibile sia nel concordato che negli accordi, ma con accorgimenti. Nel concordato preventivo, grazie alla transazione fiscale (art. 88 CCII), si possono proporre stralci o dilazioni anche per IVA e ritenute (che un tempo erano intoccabili). Tuttavia l’ente pubblico (Agenzia Entrate o Agenzia Riscossione) partecipa al voto come un creditore chirografario per la parte falcidiata: se vota contro, in teoria il concordato non raggiunge la maggioranza in quella classe. Dal 2020 però la legge consente al tribunale di omologare ugualmente il concordato se ritiene il rifiuto del Fisco irragionevole, ossia se il piano offre al Fisco almeno quanto otterrebbe dalla liquidazione. Negli accordi di ristrutturazione, l’art. 63 CCII consente espressamente l’omologa nonostante la non adesione del Fisco (cram-down fiscale) con le stesse condizioni: proposta più conveniente del fallimento. Ciò significa che l’imprenditore può inserire nel piano un pagamento parziale dei debiti tributari/contributivi e, se l’Agenzia rifiuta di firmare, chiedere al giudice di passar sopra il diniego. Deve però provare, con dati alla mano, che quella percentuale offerta è almeno pari a quanto il Fisco incasserebbe in un fallimento (spesso nel fallimento incasserebbe zero perché chirografario). Dunque oggi il taglio ai debiti fiscali è fattibile, ma richiede la procedura formale e la verifica del tribunale sulla convenienza. In sede di piano attestato, invece, non c’è meccanismo di cram-down: serve l’adesione volontaria del Fisco (ad esempio attraverso una dilazione ex art. 182-terdecies Disp. Att. TUIR o simili). Quindi, per ridurre i debiti fiscali si usano concordato o accordo omologato. Nota: c’è un limite, i debiti per IVA e ritenute non versate possono essere falcidiati nel concordato solo se il piano prevede la continuità aziendale (art. 84, co. 6 CCII), mentre se è un concordato puramente liquidatorio tali debiti vanno soddisfatti almeno al 20% o integralmente (questo vincolo è stato discusso ma rimane nella prassi).

D4: Cosa succede se l’azienda non rispetta il piano concordatario o l’accordo omologato?
R: In caso di concordato preventivo, il mancato rispetto degli impegni del piano (ad esempio, non si paga una o più rate ai creditori come previsto, o non si compie una dismissione essenziale entro i termini) può portare alla risoluzione del concordato. Un creditore o più possono presentare istanza al tribunale segnalando l’inadempimento grave (art. 118 CCII richiama art. 186 L.F.). Se accertato, il tribunale dichiara risolto il concordato con sentenza e, salvo che l’azienda nel frattempo sia tornata in bonis (caso raro), contestualmente dichiara la liquidazione giudiziale (fallimento) dell’impresa. I creditori a quel punto tornano ad avere titolo per l’intero importo originario dei loro crediti, detratto quanto eventualmente ricevuto in concordato (ma le somme già incassate non vanno restituite). Quindi la risoluzione è evento gravissimo: vanifica il concordato e apre il fallimento. In caso di accordo di ristrutturazione omologato, la legge non prevede una “risoluzione giudiziale” analoga perché, essendo un contratto, valgono le regole generali: se il debitore non esegue, i creditori possono ritenersi sciolti dall’accordo e agire giudizialmente (anche qui, in genere per chiedere il fallimento se l’insolvenza persiste, oppure esecuzioni). L’accordo può contenere clausole risolutive espresse che disciplinano il default. Ma in generale, la tutela è più contrattuale: il creditore può ottenere un titolo esecutivo fondato sull’accordo omologato (il decreto di omologa vale come titolo), chiedere pignoramenti o istare per insolvenza. Quindi l’esito pratico è simile: se salta l’accordo, di regola i creditori finiscono per presentare istanza di fallimento. Per i piani attestati, non essendoci procedura, se l’impresa non ce la fa comunque si finirà in decozione e dunque in fallimento. In sintesi, il mancato rispetto di un piano di ristrutturazione fa rivivere il rischio d’insolvenza: l’azienda perde la protezione concorsuale e i creditori possono aggredirla liberamente, spesso portandola al fallimento. Vale quindi il principio: i piani e gli accordi devono essere realistici e sostenibili, altrimenti si torna al punto di partenza con anni forse sprecati e aggravio di costi.

D5: Quali sono i ruoli dei vari soggetti (amministratori, soci, creditori) nelle diverse procedure?
R: Nel concordato preventivo, gli amministratori della società restano formalmente in carica e gestiscono l’impresa durante la procedura (salvo nomina di un commissario ad acta in caso di abusi), ma sono affiancati dai commissari giudiziali che vigilano sulle operazioni e riferiscono al giudice. Gli azionisti o soci nel concordato non hanno un potere decisionale diretto sulla proposta (spetta agli amministratori decidere l’accesso), ma possono essere coinvolti se il piano incide su di loro (es. riduzione capitale, newco). Possono anche presentare proposte concorrenti se detengono ≥10% capitale. Spesso viene chiesto loro di contribuire (confinanziamenti, garanzie) per rendere il concordato più appetibile. I creditori nel concordato esercitano il potere di voto: sono dunque arbitri dell’accettazione (a maggioranza) della proposta; inoltre possono fare osservazioni, opposizioni e concorrono al comitato dei creditori eventualmente nominato, che dà pareri su atti di straordinaria amministrazione. Nel accordo di ristrutturazione, gli amministratori negoziano direttamente con i creditori principali il contenuto dell’accordo; i soci di solito non intervengono se non per deliberare eventuali operazioni straordinarie (es. un aumento di capitale parte del piano). I creditori firmatari dell’accordo hanno un ruolo attivo di contrattazione (possono chiedere condizioni, garanzie, ecc.), mentre i creditori non firmatari restano esterni ma protetti nei limiti dell’omologa (devono essere pagati, come detto). Nell’ambito della composizione negoziata, gli amministratori restano pienamente in sella e interagiscono con l’esperto, di cui devono seguire le indicazioni di buona fede; i soci vanno informati dell’accesso alla procedura (specie nelle S.p.A. ex art. 120-bis, co. 3 CCII) ma non decidono loro (se non, ancora, per deliberare eventuali atti societari come richieste di nuovi finanziamenti garantiti da patrimonio sociale). I creditori nella composizione negoziata partecipano volontariamente ai tavoli convocati: non votano nulla, semplicemente trattano condizioni con l’impresa, assistiti dall’esperto. In tutti i casi, un ruolo fondamentale è quello del tribunale, che nel concordato e accordi omologati è il garante della legalità (approva o rigetta le proposte, vigila tramite il giudice delegato e decide sulle controversie), mentre nella composizione negoziata interviene solo se richiesto per misure protettive o per omologare eventuali accordi successivi. Infine, il Ministero pubblico ha il compito di vigilare sull’interesse pubblico: in concordato può intervenire se ravvisa irregolarità gravi o frodi; in composizione negoziata prende atto dell’esito e può attivarsi se serve un fallimento (ad esempio se l’imprenditore sta dissipando beni senza prospettiva di soluzione, il PM può comunque chiedere il fallimento anche durante la CNC, benché i giudici tendano ad aspettare l’esito).

D6: Una società cooperativa in difficoltà deve seguire queste regole o ha un regime diverso?
R: Le società cooperative, quando svolgono attività d’impresa (commerciale), rientrano come soggetti negli strumenti di cui abbiamo parlato: possono certamente accedere ad accordi di ristrutturazione, piani attestati e anche al concordato preventivo, se hanno i requisiti dimensionali. Tuttavia, per le cooperative la legge prevede in caso di insolvenza la liquidazione coatta amministrativa (LCA) piuttosto che la liquidazione giudiziale ordinaria. Il CCII conferma che restano valide le norme speciali sulle cooperative (art. 294 CCII rinvia alle leggi speciali). In pratica: una cooperativa può tentare la ristrutturazione con concordato o accordo; se però ciò fallisce e si arriva a doverla “far fallire”, l’autorità competente (Ministero delle Imprese, già MiSE) ne dichiara lo scioglimento e nomina un commissario liquidatore in LCA, invece di far intervenire un tribunale fallimentare. La LCA delle co-op è simile a un fallimento, ma gestita amministrativamente. Ci sono stati casi di cooperative che hanno fatto concordati preventivi omologati (es. cooperative edilizie in crisi che hanno proposto concordati per completare immobiliari). Quindi in fase di crisi, le cooperative usano gli stessi strumenti concorsuali; in fase di insolvenza terminale, di solito la procedura è la LCA. Da notare che la composizione negoziata è aperta anche alle cooperative (ve ne sono state alcune in elenco). In conclusione: cooperative -> sì a ristrutturazioni negoziali o concorsuali come le società di capitali, ma l’uscita liquidatoria è diversa (LCA). Il vantaggio percepito della LCA per le coop è talvolta una maggiore tutela dei soci/utenti, ma ai fini dei creditori chirografari cambia poco.

D7: Cosa si intende per concordato in continuità diretta e indiretta?
R: Sono sottocategorie del concordato preventivo in continuità aziendale. La continuità diretta si ha quando l’impresa debitrice continua essa stessa la gestione della propria azienda durante e dopo il concordato. Ad esempio, Alfa S.p.A. presenta un piano in cui prosegue la sua produzione per soddisfare i creditori col ricavato futuro: questo è concordato in continuità diretta (l’identità giuridica dell’esercente l’attività rimane la stessa società in concordato). La continuità indiretta invece avviene quando la prosecuzione dell’attività d’impresa è assicurata da un soggetto diverso, tipicamente attraverso la cessione o affitto dell’azienda a un terzo nell’ambito del piano. Ad esempio, Beta S.r.l. propone ai creditori un concordato in cui vende (o affitta) l’intera azienda a un investitore Gamma S.r.l., il quale la terrà in esercizio garantendo posti di lavoro e pagando un corrispettivo che servirà a soddisfare i creditori di Beta. In questo caso Beta non continua direttamente l’attività (infatti spesso Beta poi si liquida dopo aver incassato il prezzo), ma l’azienda non viene spezzettata, continua operativa in mano a Gamma: si parla di continuità indiretta. Entrambe le forme sono preferite dal legislatore rispetto a una liquidazione atomistica, perché preservano l’avviamento. Normativamente, la distinzione rileva perché certe agevolazioni (come la falcidia dell’IVA o la deroga di pagare subito i privilegiati) si applicano sia alla continuità diretta che a quella indiretta, purché l’azienda resti in esercizio senza soluzione di continuità (anche se con un nuovo proprietario). Anche in continuità indiretta, nel decreto di omologa il tribunale di solito autorizza e “spinge” l’esecuzione immediata del trasferimento d’azienda al terzo. Spesso la continuità indiretta si vede nei concordati cosiddetti “misti”, dove c’è un soggetto che rileva l’attività e la vecchia società liquida il resto dei cespiti. Ad ogni modo, per i creditori non privilegia ti la differenza può essere minima: l’importante è che c’è un soggetto che continua a generare cassa con quel business. Per i dipendenti, la continuità indiretta è fondamentale perché spesso il terzo acquirente subentra nei rapporti di lavoro (in forza dell’art. 2112 c.c.), assicurando continuità occupazionale.

D8: Un socio di minoranza di una S.r.l. può opporsi a un concordato che prevede un aumento di capitale che lo diluisce?
R: Sì, il socio ha alcuni spazi di tutela, ma limitati. Con le nuove norme, se il piano di concordato incide sui diritti dei soci (per esempio un aumento di capitale con esclusione del diritto di opzione, o la conversione di crediti in quote che riduce la percentuale dei vecchi soci), i soci vanno classati e possono esprimere voto come una classe di creditori. Tuttavia, se essi votano contro ma tutte (o tutte meno una) classi di creditori approvano il concordato, il tribunale può omologarlo lo stesso applicando la ristrutturazione trasversale, a condizione che ai creditori dissenzienti non sia riservato un trattamento peggiore di quello dei soci. In particolare, l’art. 120-quater CCII stabilisce che se i soci conservano un valore (quote) nel concordato, per ottenere l’omologa nonostante i creditori dissenzienti, occorre che “il valore riservato ai soci” sia inferiore a quello riservato alla classe dissenziente. Tradotto: i soci potranno essere diluiti o azzerati se i creditori non sono soddisfatti al 100%. Un socio di minoranza che subisca, ad esempio, l’azzeramento delle sue quote per perdite e un aumento di capitale sottoscritto da nuovi investitori, potrà opporre all’omologa il pregiudizio, ma il tribunale gli darà ragione solo se quell’operazione gli dà meno di quanto avrebbe in liquidazione. In genere, se l’impresa è insolvente, le quote sociali hanno valore nullo in uno scenario di liquidazione: quindi i soci in realtà non hanno diritto a conservare alcun valore a scapito dei creditori. Pertanto, il tribunale può verosimilmente confermare un concordato nonostante l’opposizione di soci, se il piano offre ai creditori il massimo possibile. Il socio può tuttavia partecipare alla procedura presentando proposte alternative (se almeno 10% capitale) o offrendo egli stesso apporti per migliorare il piano (ad esempio, potrebbe dire: “invece di farmi diluire a zero, immetto io capitale fresco così i creditori prendono di più”). Se non lo fa, la sua opposizione difficilmente fermerà il concordato, salvo violazioni di legge. In definitiva: il socio di minoranza può votare no e può opporsi, ma la sua opposizione sarà accolta solo se il concordato lo danneggia oltre il dovuto rispetto alla legge (ad esempio, se il piano regalasse quote ai nuovi soci senza motivo e i creditori prendessero meno del 100% pur lasciando valore ai vecchi soci, ecco, quello sarebbe ingiusto e non omologabile). Ma se la diluizione è conseguenza naturale della necessità di salvare l’impresa, il suo dissenso non potrà bloccare un piano fattibile.

D9: Quanto dura una procedura di concordato preventivo rispetto a un accordo di ristrutturazione?
R: I tempi possono variare molto a seconda del tribunale e della complessità, ma mediamente:

  • Un concordato preventivo dalla presentazione alla omologa richiede solitamente tra 6 mesi e 1,5 anni. Dati informali indicano una durata media intorno ai 12-18 mesi, specie se ci sono opposizioni. Se il concordato è con riserva, c’è la fase di 2-4 mesi iniziali per depositare il piano; poi l’ammissione e altri 4-6 mesi per arrivare al voto; poi l’omologa e possibili reclami d’appello (che possono allungare di ulteriori mesi). Insomma, è un percorso non breve. Va detto però che durante gran parte di esso l’azienda è protetta e può operare.
  • Un accordo di ristrutturazione può essere più rapido: la fase chiave è quella negoziale privata che può durare pochi mesi (talora accordi trovati in 2-3 mesi). La fase giudiziale di omologa è spesso più breve del concordato, poiché non c’è adunanza né voto generale: spesso in 2-3 mesi dal deposito si ottiene l’omologa se non ci sono opposizioni significative. Quindi un accordo completo potrebbe concludersi in 4-6 mesi totali. In certe situazioni (accordi con poche banche) si è visto omologhe in 2-3 mesi. In media forse 6-8 mesi. Dunque di norma l’accordo risulta più rapido.
  • Un piano attestato è il più veloce, dipende solo dalla rapidità di convincere i creditori e fare l’attestazione. Può risolversi in 1-3 mesi se c’è intesa (ad esempio, una banca e qualche fornitore d’accordo).
  • La composizione negoziata ha un termine standard 6 mesi prorogabili: molte si chiudono entro 4-8 mesi (dati: media 250 giorni, cioè ~8,3 mesi). Se poi si sfocia in un concordato, si aggiunge il tempo di quello.

In un concordato, il maggior “collo di bottiglia” è la fase del voto e attesa dei termini legali (convocazione, etc.), più eventuali contenziosi su ammissione di crediti al voto. Negli accordi questi passaggi non ci sono. Quindi se la velocità è essenziale, l’accordo è preferibile. In situazioni di emergenza estrema, a volte le imprese tentano un accordo rapido; se salta, ripiegano sul concordato. Inversamente, se si prevede che convincere 60% creditori sarà impossibile se non con tempi biblici, tanto vale andare diretti in concordato.

D10: Quali costi principali comporta una ristrutturazione del debito?
R: I costi variano con lo strumento:

  • Nel concordato preventivo: i costi includono il compenso del commissario giudiziale (stabilito a fine procedura dal tribunale in percentuale sul passivo/attivo, spesso qualche punto percentuale), le spese di giustizia (marche, contributo unificato), il compenso dell’attestatore del piano (professionista indipendente che redige la relazione ex art. 87), e naturalmente le parcelle di avvocati e consulenti che assistono l’azienda nella predisposizione del piano e gestione della procedura. Inoltre, eventuali organi aggiuntivi: in caso di concordato liquidatorio c’è un liquidatore giudiziale con suo compenso. Complessivamente, per PMI i costi concorsuali possono essere decine di migliaia di euro, per grandi imprese anche centinaia di migliaia. L’azienda deve prevederli come crediti prededucibili nel piano (vengono pagati prima di tutti gli altri crediti).
  • Nell’accordo di ristrutturazione: non c’è commissario né liquidatore, quindi si risparmia quella parte. Ci sono però i costi dell’attestatore (relazione ex art. 56) e i costi legali per la negoziazione e l’omologa. Talvolta i creditori finanziari chiedono al debitore di coprire anche i loro costi legali (accordi prevedono che la società paghi le spese di consulenza delle banche per l’operazione). Quindi, benché più snello, comunque i costi professionali possono essere rilevanti, ma in linea di massima minori rispetto a un concordato di pari dimensione, perché la procedura giudiziaria è minima. Ad es., nessuna spesa per convocare migliaia di creditori o simili.
  • Nel piano attestato: formalmente non c’è alcun costo procedurale, solo i compensi del professionista attestatore e dei consulenti che elaborano il piano e negoziano con i creditori. È quindi la via meno costosa in termini di esborsi estranei all’azienda. Il grosso può essere l’attestatore, soprattutto se è un advisor di fama (ma per PMI piccoli si trovano professionisti a costi accessibili).
  • Nella composizione negoziata: l’esperto ha diritto a un compenso secondo parametri ministeriali, di solito moderato (ad esempio per PMI può essere qualche migliaio di euro al mese di lavoro, spesso con tetti massimi; inoltre vi sono incentivi pubblici, come la Camera di Commercio può supportare costi). Poi l’azienda avrà i suoi consulenti (commercialisti, avvocati) per condurre le trattative e predisporre documenti, ma non ci sono spese di giustizia né organi ufficiali. Quindi la CNC è pensata per non scoraggiare per costi. Addirittura, per microimprese sotto certi limiti, lo Stato ha previsto contributi per remunerare l’esperto (fondi camerali).

In tutti i casi, va considerato anche il “costo opportunità”: una procedura concorsuale lunga può generare perdita di crediti, di clientela, etc. Ad esempio, se un concordato fa perdere un contratto importante perché il cliente rescinde (lecitamente per clausole), quello è un costo indiretto. Strumenti come la CNC o il piano attestato riducono questi costi indiretti mantenendo rapporti più normali con i partner. Un dato di confronto a volte citato: concordato = costi alti ma esdebitazione rilevante; accordo = costi medi; piano = costi bassi. Ad ogni modo, la convenienza va valutata caso per caso: per un’azienda molto indebitata, pagare 100k di costi per un concordato che le abbatte milioni di debiti può essere un ottimo affare; per una crisi piccola, potrebbe essere eccessivo.

D11: Dopo la ristrutturazione, l’azienda può ottenere nuovi finanziamenti o sarà “marchiata a vita”?
R: Molto dipende dal tipo di ristrutturazione e dal mercato di riferimento. Se un’azienda esce da un concordato preventivo omologato, sicuramente la cosa è pubblica e registrata, e molte banche o fornitori lo sapranno. Ciò può comportare inizialmente difficoltà ad ottenere fiducia (un’azienda “post concordato” è vista come ex insolvente). Tuttavia, la legge prevede che i nuovi finanziamenti concessi in esecuzione di concordato o accordo siano prededucibili, proprio per incentivare qualcuno a darle credito. In pratica, se Tizio finanzia Caio S.p.A. appena omologato un concordato, quel credito, se Caio rifallisce, verrà pagato prima degli altri (quindi ha una garanzia di priorità). Questo aiuta ma non elimina la prudenza delle banche. Molto dipende dalla comunicazione: se l’impresa riesce a far capire al mercato che il concordato ha ripulito i bilanci e ora ha prospettive solide, può tornare affidabile in qualche anno. L’esperienza di molti casi (es. aziende che hanno fatto concordato e poi sono tornate attive) mostra che è possibile ricostruire credito, specie se c’è discontinuità (nuova proprietà, management nuovo, etc.). Nel caso di accordo di ristrutturazione, l’impatto reputazionale è minore, specie se l’accordo non diviene di dominio pubblico. Un accordo omologato si iscrive al RI, ma molti attori di mercato potrebbero non farci caso. Un certo stigma rimane, ma è più sfumato. I finanziatori potrebbero apprezzare che l’impresa ha ristrutturato in modo consensuale e non traumatico. Nel piano attestato, essendo confidenziale, addirittura molti partner potrebbero non sapere nulla, a parte quelli coinvolti: se il piano riesce, l’azienda appare aver semplicemente superato un momento difficile magari con un aumento di capitale o con supporto di banche (cose che capitano e non rovinano per sempre la reputazione). Quindi la “lettera scarlatta” è decisamente più lieve. Per di più, la recente normativa spinge a considerare la ristrutturazione come un percorso fisiologico: la Direttiva UE parlava di non penalizzare le imprese risanate. Le centrali rischi e credit scoring comunque registrano eventi concorsuali, quindi per un po’ il rating sarà basso. In conclusione: non è una marchiatura a vita – molte imprese risanate continuano e rifioriscono – ma di certo nel breve termine dopo una ristrutturazione formale, ottenere credito richiede di ricostruire fiducia (spesso aiutandosi con garanzie pubbliche, ad es. le imprese post concordato possono accedere al Fondo Centrale di Garanzia con copertura speciale). A livello legale, post-concordato l’impresa è “libera” e i nuovi contratti sono normali; alcuni vincoli restano: per 5 anni non può ottenere un altro concordato salvo pagare almeno il 40% debiti (regola anti recidiva). Ma se ha successo, l’azienda ristrutturata può assolutamente tornare competitiva e finanziabile.

Bibliografia e Riferimenti Normativi e Giurisprudenziali

  • Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza – D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14, in vigore dal 15 luglio 2022, come modificato da D.Lgs. 17 giugno 2022 n. 83 (attuazione Direttiva UE 2019/1023), D.Lgs. 13 ottobre 2022 n. 149 (primo correttivo) e D.Lgs. 13 settembre 2024 n. 136 (terzo correttivo). In particolare: art. 2 (definizioni di “crisi” e “insolvenza”); art. 12-25-quinquies (Composizione negoziata della crisi); art. 25-sexies (Concordato semplificato); art. 56 (Piano attestato di risanamento); art. 57-64 (Accordi di ristrutturazione dei debiti e varianti); art. 84-120 (Concordato preventivo e disposizioni su classi, omologazione, diritti dei soci); art. 120-bis/ter/quater (strumenti di regolazione nelle società: decisione degli amministratori, classi di soci, omologa con distribuzioni ai soci); art. 121-270 (Liquidazione giudiziale); art. 294 (Liquidazione coatta amministrativa e rinvio a norme speciali per coop).
  • Relazione Illustrativa al D.Lgs. 83/2022 – Chiarisce le finalità dell’introduzione del Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO) e delle modifiche al concordato preventivo (classi obbligatorie per soci, regole di priorità flessibili).
  • Legge Fallimentare previgente – Regio Decreto 16 marzo 1942 n. 267 (abrogato dal CCII dal 15/7/2022). Utile per confrontare istituti come art. 67 l.fall. (revocatoria e piani attestati), art. 160-186 l.fall. (concordato preventivo), art. 182-bis/ter/septies l.fall. (accordi ristrutturazione e transazione fiscale), art. 91 e 101 l.fall. (esdebitazione). Rimane in vigore per procedure pregresse.
  • D.L. 118/2021 convertito in L. 147/2021 – Normativa istitutiva della Composizione negoziata della crisi, poi confluita nel CCII. Introduce anche il concordato semplificato. Importante per i criteri di nomina esperto e condizioni di accesso anticipate (es. indicatori settoriali di allerta).
  • D.M. 28 settembre 2021 n. 202 – Decreto dirigenziale MISE sui requisiti di iscrizione degli esperti nella composizione negoziata.
  • Cassazione Civile, sez. I, 25 marzo 2022 n. 9743 – (In osservatorio-insolvenza.it, 19 aprile 2022) Ordinanza sulla revocabilità degli atti esecutivi di un piano attestato: stabilisce che il giudice deve valutare l’idoneità del piano ex ante per confermare l’esenzione da revocatoria.
  • Cassazione Civile, sez. I, 29 dicembre 2024 n. 34840 – Pronuncia sul regime di impugnazione dei decreti di omologa degli accordi di ristrutturazione: conferma il reclamo in Corte d’Appello ex art. 50 CCII (fonte: Unijuris, 29/12/2024).
  • Corte d’Appello di Milano, decreto 8 novembre 2024 – (Pres. Distrettano, rel. Vullo, in dirittodellacrisi.it) Massima: sull’omologazione di concordato in continuità con classi dissenzienti, interpreta “parità di trattamento tra creditori dello stesso grado” e limite alle differenze di trattamento tra classi chirografarie.
  • Tribunale di Milano, decreto 31 dicembre 2024 – (Pres. Vasile, rel. Pipicelli, in ilCaso.it/RistrutturazioniAziendali) Riconosce la necessità di valutare la convenienza del concordato ex ante considerando gli effetti negativi del venir meno della continuità (prededuzioni, perdita di nuovi apporti).
  • Tribunale di Cagliari, sentenza 8 novembre 2024 – (in Diritto del Risparmio, 19/11/2024) Applica l’art. 63 CCII: omologa forzosamente un accordo ex art. 57 nonostante il diniego dell’Erario, evidenziando come la tutela dell’attività aziendale e dell’occupazione possa prevalere su una rigida pretesa fiscale, se il piano conviene di più al Fisco.
  • Tribunale di Vasto, sentenza 11 dicembre 2024 – (nota in Advisora) Altro caso di cram-down fiscale in accordo ex art. 57, conferma l’orientamento di Cagliari.
  • Tribunale di Verona, decreto 24 aprile 2023 – (in GinevraRGA Studio, 2023) Nega alcune misure cautelari nella composizione negoziata (sospensione pagamenti rate mutui e inibitoria segnalazioni in Centrale Rischi) ritenendole non strumentali e eccedenti la legge.
  • Tribunale di Lodi, ordinanza 30 maggio 2024 – (richiamata in GinevraRGA) Concede misure cautelari innovative in CNC: sospensione quota capitale mutui e divieto di segnalazione a Centrale Rischi, ritenendole necessarie a evitare il fallimento durante le trattative.
  • Unioncamere – Osservatorio Composizione NegoziataReport dati aggiornati al 15 maggio 2024: statistiche ufficiali sui numeri e gli esiti delle composizioni negoziate: 1450 istanze presentate, tasso di successo ~21%, durata media 250 giorni; settori e distribuzione geografica.

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🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in crisi d’impresa e ristrutturazioni aziendali
✔️ Gestore della Crisi – iscritto al Ministero della Giustizia
✔️ Fiduciario di Organismi di Composizione della Crisi (OCC)
✔️ Specializzato in tutela patrimoniale e continuità aziendale

Conclusione

La crisi non è la fine. È l’occasione per ripartire, se agisci in tempo.
Con la ristrutturazione del debito puoi salvare la tua azienda, difenderti dai creditori e riprendere il controllo.

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Una nuova gestione, una nuova strategia, una nuova occasione.



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