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CONFRONTO TRA L’IRI E LA MODERNA CDP –


Il 19 dicembre 2024, la CDP (Cassa deposito e prestiti) ha approvato il piano strategico 2025-2027, che pone l’obiettivo di impegnare risorse per 81 miliardi che mediante l’attrazione di capitali di terzi, potranno sostenere investimenti del valore complessivo di 170 miliardi, in crescita rispetto all’obiettivo di 128 miliardi del precedente Piano. Le manovre messi in atto quest’anno e le azioni future sono davvero nevralgiche per il nostro sistema economico?

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Nascita ed origini dell’istituto

La storia di Cassa depositi e prestiti è radicalmente intrecciata con lo sviluppo economico e sociale dell’Italia dall’unificazione ad oggi. E’ stata istituita dal Parlamento del Regno di Sardegna il 18 Novembre 1850, con l’obiettivo di mobilizzare capitali per le opere di pubblica utilità attraverso depositi erogati da enti locali e amministrazioni dello Stato. La sua funzione nel periodo pre-900’ si può sintetizzare con la gestione degli enti previdenziali, in particolare per gli impiegati dello stato. Dopo la prima guerra mondiale da strumento di finanziamento per le infrastrutture promosse dagli enti locali, diviene la maggiore finanziatrice dell’indebitamento pubblico, locale e nazionale.

Durante il periodo fascista la CDP sottoscriveva il capitale azionario di istituti di credito pubblico, come ad esempio ICIPU (Istituto di credito per le imprese di pubblica utilità). In quel periodo si imponeva il dirigismo economico, vi era, quindi, una saturazione dell’iniziativa economica privata a vantaggio del dominio dell’economia pubblica. Gli anni post guerra vedono la CDP impegnata nella ricostruzione del paese e nella ripresa economica, svolse un ruolo strumentale per finanziare la costruzione delle nuove reti (elettriche, stradali, ferroviarie, telefoniche).[1]

Nel 1972 la riforma del sistema tributario italiano accentrò significativamente il prelievo fiscale a livello statale e gli enti locali erano indebitati oltre misura e dipendevano da finanziamenti statali. Per circa un secolo la CDP è stata una direzione generale del Ministero del tesoro, nonostante tenesse una contabilità e bilancio separati da quello dello Stato. Con la L. del 1983 n. 197 la CDP diviene un’azienda autonoma speciale con una propria organizzazione, un proprio patrimonio e un bilancio separato da quello dello stato, sebbene mantenesse un legame con il ministero del tesoro. Nel 1993 è stata riconosciuta alla CDP la personalità giuridica di diritto pubblico.

La CDP ha avuto una storia di fusioni e incorporazioni, fino al 2003, momento in cui con D.L 196/2003 che ha disposto la trasformazione della CDP in una SPA, assume così la natura giuridica di organismo di diritto pubblico[2].

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Attualmente si può sintetizzare che la CDP abbia due aree distinti di azioni:

  1. gestione separata prosegue l’attività tradizionale della CDP, Cura la concessioni di finanziamenti agli enti pubblici, utilizzando il risparmio postale garantito dallo stato e i fondi provenienti da emissioni di titoli e altre operazioni, spettano al MEF poteri di indirizzo e di definizione del criteri di svolgimento dell’attività;
  2. gestione ordinaria ha la funzione di concedere finanziamenti relativi alle reti e agli impianti destinati alla fornitura dei servizi pubblici, non è garantita dallo stato.

Nel 2012 CDP assume il controllo di SACE e SIMEST, nasce il gruppo CDP che si articola in: CDP Spa, CDP Reti, CDP Equity, FSI Investimenti, Fintecna.

Con la legge di stabilità del 2016, CDP assume il ruolo di Istituto Nazionale di Promozione (INP).

Parallelismo con l’IRI

CDP è la moderna IRI? La CDP condivide alcune caratteristiche con l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), ma presenta anche differenze:

Per quanto riguarda le somiglianze con l’IRI:

  • Ruolo di Stato-imprenditore → CDP, come l’IRI, investe in aziende strategiche per il Paese (es. ENI, TIM, Fincantieri, Snam, ecc.),
  • Sostegno allo sviluppo economico → Finanzia infrastrutture e settori chiave (energia, trasporti, telecomunicazioni),
  • Intervento in crisi industriali → CDP è spesso coinvolta nel salvataggio di aziende strategiche in difficoltà (es. TIM, Ilva).

Differenze principali:

  • Modello operativo → L’IRI possedeva e gestiva direttamente le aziende, mentre CDP investe e partecipa senza amministrare direttamente;
  • Natura finanziaria → CDP è una banca d’investimento e non un holding industriale come l’IRI;
  • Autonomia di bilancio → A differenza dell’IRI, che pesava direttamente sullo Stato, CDP raccoglie fondi autonomamente e non grava formalmente sul bilancio pubblico un esempio è il Cdp Mc Dec 29 euro.

La CDP può essere vista come una “IRI moderna” per il suo ruolo di investitore pubblico, ma opera con logiche di mercato più simili a quelle di una banca d’investimenti, evitando la gestione diretta delle aziende, nonostante non possa essere denominata come una Banca, è stata classificata dalla Banca D’Italia come “istituzione finanziaria monetaria”, soggetta agli obblighi informativi verso la BCE.

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Il piano strategico 2025-2027 e le attuali manovre finanziarie

Quanto influisce il parere dello Stato sulle scelte strategiche di CDP?

CDP è formalmente autonoma, ma il governo ha un’influenza significativa sulle sue strategie.

1.Controllo azionario → Il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) possiede l’83% di CDP, quindi ha il potere di orientarne la governance.

2.Nomina del management → Il presidente e l’amministratore delegato di CDP vengono scelti con il consenso del governo.

3.Interventi su settori strategici → Lo Stato spesso indirizza CDP a intervenire su dossier industriali rilevanti (es. il progetto di rete unica TIM, il supporto a ITA Airways).

4.Vincoli normativi ed europei → CDP deve rispettare le regole del mercato e non può operare con logiche di puro assistenzialismo, a differenza dell’IRI.

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La CDP, pur avendo una funzione diversa, rappresenta oggi uno strumento chiave per il finanziamento di progetti infrastrutturali e per il sostegno alle imprese italiane. Nel 2024, ad esempio, la CDP ha registrato un utile netto record di 3,3 miliardi di euro e ha sostenuto investimenti per oltre 68 miliardi di euro, dimostrando la sua capacità di influenzare l’economia.

La Teoria Keynesiana e i Fallimenti dello Stato “Non Imprenditore”

Il processo di dismissione, culminato con l’attribuzione alla Direzione Generale del Tesoro della regia delle privatizzazioni (art. 12, Legge n. 474/1994), pur focalizzandosi sulla gestione finanziaria, sulla rappresentanza assembleare e sull’istruttoria delle operazioni di vendita, non implicò una contestuale e strutturale rinuncia alla capacità di incidere sulla gestione delle ex partecipate. Come evidenziato dal Servizio studi della Camera dei deputati all’epoca, il Ministro del Tesoro acquisì, in alcuni casi, un potere di influenza persino maggiore rispetto a quello esercitato dal soppresso Ministero delle Partecipazioni Statali.

La successiva liquidazione dell’IRI, determinò un cambiamento, Il Tesoro divenne azionista diretto, abbandonando il ruolo di filtro e indirizzo esercitato dall’IRI, ma mantenendo una partecipazione azionaria che, in determinate circostanze, poteva ancora tradursi in capacità di orientamento strategico e decisionale.

L’esempio di Alitalia costituisce un caso studio delle potenziali conseguenze negative di una gestione azionaria statale percepita come “inadeguata”, successiva alla liquidazione dell’IRI. L’accumularsi della maggior parte delle perdite nel periodo post-2000, unitamente alla difficoltà di realizzare una privatizzazione sostenibile a causa della mancata attenzione al risanamento industriale, suggerisce una correlazione tra la mutata forma di presenza statale e l’inefficienza gestionale. La confusione di ruoli emersa tra il decisore politico (il Primo Ministro), l’organo amministrativo (il DG del Tesoro) e il management aziendale (l’AD) nel tentativo di definire strategie di alleanza evidenzia una potenziale disfunzione nei meccanismi di governance pubblica delle partecipate.

In questo contesto, è pertinente richiamare la teoria di John Maynard Keynes sui “fallimenti dello Stato” intesi non come incapacità intrinseca dell’intervento pubblico, ma come potenziali esiti subottimali derivanti da specifiche modalità di azione o dalla sua assenza in settori strategici. Keynes, pur sostenendo l’importanza del settore privato, riconosceva la necessità dell’intervento statale per correggere le inefficienze del mercato, stimolare la domanda aggregata e perseguire obiettivi di interesse pubblico che il mercato da solo non è in grado di garantire.

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Nel caso delle privatizzazioni italiane, la rinuncia ad un ruolo attivo di indirizzo e monitoraggio, in assenza di un robusto quadro regolatorio e di meccanismi di governance efficaci per le ex partecipate, potrebbe essere interpretata, in ottica keynesiana, come una forma di “fallimento dello Stato per omissione”. La mancata prosecuzione di una visione strategica industriale e la potenziale sottovalutazione degli aspetti di risanamento aziendale propedeutici a privatizzazioni di successo potrebbero aver generato esternalità negative per l’economia nel suo complesso, come illustrato dal caso Alitalia.

La tesi secondo cui lo Stato, divenuto azionista diretto ma rinunciando al suo ruolo di “imprenditore” nel senso di guida strategica e controllo industriale, cessi di essere tale, necessita di una precisazione. Lo Stato non cessa di essere un attore economico rilevante per il solo fatto di non gestire direttamente le aziende, la sua efficacia nel perseguire obiettivi pubblici attraverso la partecipazione azionaria dipende dalla definizione di strategie chiare, da meccanismi di controllo efficienti e dalla capacità di esercitare un’influenza costruttiva sulle dinamiche aziendali.

Conclusioni

Nonostante la significativa ondata di privatizzazioni avviata negli anni Novanta, l’idea di una completa ritirata dello Stato dalla sua funzione imprenditoriale in Italia appare, ad un’analisi più approfondita, discutibile. Sebbene la liquidazione di enti come l’IRI nel 2000 abbia formalmente trasferito la proprietà di numerose partecipazioni statali al settore privato, la persistenza di una significativa influenza pubblica, seppur mutata nelle sue modalità operative, suggerisce una trasformazione piuttosto che una definitiva cessazione del ruolo dello Stato come attore economico di rilievo e come già descritto in precedenza questa funzione rimane fortemente incisiva nella figura della CDP.


[1] L 2 luglio 1949 n. 408 e L. 3 agosto 1949 n. 58 la CDP interveniva nel finanziamento dell’edilizia residenziale pubblica e delle opere pubbliche.

[2] Con la privatizzazione è stata disposta la cessione al gruppo CDP di molteplici partecipazioni azionarie tra cui ENI S.p.a(25,96%), Poste Italiane S.p.a (35%), telecom Italia S.p.a (9,81%)

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