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perché l’Italia potrebbe essere più al sicuro di altri


L’Italia corre rischi per l’esposizione finanziaria legata al suo debito pubblico o c’è qualcosa che sfugge alle narrazioni comuni? Per anni, il dibattito sull’emergenza debito pubblico in Europa si è concentrato su Paesi ritenuti “non virtuosi”, con l’Italia in prima linea. Il vecchio Patto di Stabilità e Crescita europeo fissava un rapporto debito/PIL al 60% ma l’Italia ha raggiunto livelli ben superiori, attestandosi al 135,3% nel 2024, il secondo più alto al mondo dopo il Giappone, eppure, guardando oltre i numeri, emergono aspetti sorprendenti che meritano attenzione.

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Facciamo un passo indietro per definire cos’è il debito pubblico. È l’insieme delle risorse prese in prestito da uno Stato per finanziare la spesa pubblica che si può distinguere in debito “buono”, che finanzia investimenti produttivi come infrastrutture, energia o telecomunicazioni, e in debito “cattivo”, usato per coprire spese correnti che superano le entrate fiscali: il primo genera crescita economica e può ripagarsi nel tempo; il secondo, invece, è improduttivo e rischia di appesantire i conti pubblici senza ritorno.

Negli ultimi anni, una serie di crisi economiche globali ha complicato la produzione di ricchezza, spingendo molti Paesi a incrementare il debito per finanziare sussidi a sostegno di redditi e imprese. Secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), il debito pubblico globale si avvicinerà al 95% del PIL mondiale entro quest’anno con la prospettiva di raggiungere il 117% in uno scenario critico entro il 2027. In questo contesto, il 135,3% dell’Italia nel 2024 non appare così anomalo ma il nostro Paese ha un problema strutturale di debito da quasi mezzo secolo, accentuato da misure come il Superbonus, che ha generato un impatto fiscale significativo, stimato in 122,2 miliardi di euro di crediti d’imposta tra il 2020 e il 2023, un costo che ha sollevato interrogativi sulla sua sostenibilità tra diversi osservatori.

Un aspetto cruciale è che, nonostante l’alto debito, le agenzie di rating hanno migliorato i loro giudizi sull’Italia. L’11 aprile 2025, S&P ha alzato il rating a BBB+ con outlook stabile, mentre Moody’s ha confermato Baa3 con outlook positivo il 23 maggio 2025, suggerendo una possibile promozione futura. La stabilità politica del governo Meloni e la credibilità internazionale del ministro dell’Economia Giorgetti contribuiscono a questa fiducia. Ma come si concilia questo ottimismo con le narrazioni pessimiste di alcune forze politiche e sindacali, e con una crescita economica che, sebbene positiva, rimane modesta (0,7% nel 2024, prevista a 1,2% nel 2025)?

L’economia italiana mostra una vitalità sorprendente, nonostante la bassa produttività delle PMI. Secondo i dati del World Trade Organization (WTO) per il 2023, l’Italia è il settimo esportatore mondiale, ma sale al quinto posto escludendo i Paesi Bassi, dove le esportazioni sono gonfiate dal transito portuale, e al quarto escludendo il settore automobilistico, superando il Giappone. Le circa 9.000 imprese medio-grandi (50-2.000 dipendenti) vantano indici di produttività elevati, ad esempio nel settore manifatturiero, dove, secondo ISTAT, superano del 10-15% la media tedesca in termini di valore aggiunto per addetto. Le grandi imprese, invece, sono in linea con le medie mondiali. Questi segmenti generano oltre il 90% dell’export, che rappresenta il 32% del PIL italiano, smentendo la retorica pessimista.

Per sfruttare questo potenziale, servono politiche mirate. Aggregazioni aziendali, crescita dimensionale e consorzi produttivi possono creare economie di scala, riducendo i costi, spesso elevati nelle piccole e micro imprese. Queste misure favorirebbero una maggiore redditività, stimolando investimenti e innescando un ciclo virtuoso di crescita. Un esempio è il sostegno governativo ai consorzi di filiera nel settore agroalimentare, che ha già incrementato l’export di prodotti italiani del 5% nel 2024, secondo il Ministero delle Imprese e del Made in Italy.

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Un altro elemento chiave è il Total Debt to GDP Ratio, ovvero il rapporto tra il debito totale (pubblico e privato) e il PIL. Perché il debito privato è rilevante? Un’insolvenza diffusa tra famiglie e imprese ridurrebbe il gettito fiscale e destabilizzerebbe il settore finanziario, con effetti a cascata sull’economia, rendendo difficoltoso il rimborso degli interessi sul debito pubblico e, potenzialmente, del capitale stesso agli investitori.

Nel 2024, l’Italia registra un Total Debt to GDP Ratio di circa 256%, tra i più alti al mondo, ma inferiore a quello di Paesi come Giappone (670%), Svizzera (300%), Cina (295%), Hong Kong (280%) e Regno Unito (~270%). La qualità del debito privato italiano, prevalentemente legato a mutui immobiliari garantiti, è superiore rispetto a Paesi come Stati Uniti e Regno Unito, dove il debito privato è composto in larga parte da credito al consumo non garantito, come carte di credito e prestiti personali. Questo fattore, unito alla stabilità politica e alla resilienza del mercato obbligazionario, spiega il mantenimento dell’investment grade e il miglioramento dei rating.

In questo scenario si inserisce l’azione del governo, che sta lavorando per mettere in sicurezza i conti pubblici sfruttando le nuove regole del Patto di Stabilità, riformate nel 2024 per consentire percorsi di riduzione del debito più flessibili, adeguando la strategia fiscale per rispettare i target europei senza soffocare la crescita. Il Documento di Economia e Finanza (DEF) 2025, ad esempio, prevede una revisione di oltre 50 miliardi di euro in agevolazioni fiscali entro il 2028, con l’obiettivo di ridurre il deficit al 2,8% del PIL e il debito/PIL al 130% entro il 2030; questo approccio ha ricevuto l’approvazione dell’Unione Europea e degli operatori finanziari internazionali, rafforzando la credibilità dell’Italia sui mercati.

In conclusione, il debito pubblico italiano, pur elevato, è considerato sostenibile grazie a una struttura del debito favorevole, con una vita residua media di 7,7 anni, una politica economica credibile e un’economia che mostra importanti segnali di ripresa. Parafrasando una celebre battuta di Ronald Reagan, “il debito pubblico [italiano] è abbastanza grande da badare a sé stesso”, ma solo se accompagnato da politiche economiche lungimiranti che sfruttino il potenziale di crescita del Paese.



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