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La difesa europea non può fare a meno delle eccellenze extra-Ue. Il giusto mix secondo Craxi


Il voto imminente del Consiglio europeo sul pacchetto Safe da 150 miliardi accende il dibattito su produzione interna, cooperazione strategica e indipendenza industriale in Europa, tra chi sostiene la linea del buy European e chi vorrebbe ampliare la platea dei beneficiari anche ad aziende extra-Ue. Intervistata da Airpress, Stefania Craxi analizza opportunità e criticità di queste diverse impostazioni, tra vincoli normativi e scelte di prospettiva

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23/05/2025

Il prossimo 27 maggio il Consiglio europeo si esprimerà sul pacchetto Safe (parte del piano ReArm/Readiness 2030), lo strumento da 150 miliardi di euro in prestiti garantiti dalla Commissione destinato a potenziare le capacità industriali europee nell’ambito della Difesa. Mentre il voto incombe, a Bruxelles rimane il nodo sulle clausole del cosiddetto “buy European”, secondo cui i fondi di Safe non potrebbero essere utilizzati per acquistare materiali che non siano stati realizzati almeno al 65% all’interno dell’Unione. Su questo tema, nonché sulle più ampie implicazioni per l’Italia, l’Europa e l’Alleanza Atlantica, Airpress ha parlato con Stefania Craxi, presidente della commissione Affari esteri e Difesa del Senato.

Il prossimo martedì il Consiglio europeo voterà le regole per l’utilizzo del fondo Safe. L’accordo preliminare prevede che i prodotti provenienti da Paesi extra-Ue non possano superare il 35% del totale. Questo accordo soddisfa, a suo avviso, le esigenze del nostro Paese? 

Il meglio è sempre nemico del bene. Per questo credo che dobbiamo vedere il bicchiere mezzo pieno, anche perché la firma degli ambasciatori dei Paesi membri dell’Ue di mercoledì scorso (21 maggio, ndr) è giunta dopo trattative complesse, all’interno delle quali sono state recepite e accolte anche alcune importanti osservazioni avanzate dal nostro Paese. Spetterà ora al Consiglio affari generali, con una procedura legislativa semplificata che evita il voto del Parlamento europeo — a mio avviso una scelta non proprio opportuna — adottare formalmente il tutto. Ma nel complesso dobbiamo registrare un cambio di paradigma nella politica industriale della difesa. Incentivare una produzione maggiormente europea, stabilendo una chiara preferenza per le forniture interne e riducendo la dipendenza da partner esterni è di certo positivo, specie in previsione di investimenti importanti. Ma al contempo, dobbiamo porci il tema di come sostenere con più incisività l’intero comparto, implementato la ricerca e sostenendo la capacità produttiva delle nostre aziende. E, soprattutto, dobbiamo sapere che una Difesa europea ha bisogno di una politica estera europea e di un bilancio comune. Temi tutti politici, che non si potranno eludere ancora a lungo.

Nell’ambito della spesa per la difesa europea, ci sono correnti che spingono per il buy European e correnti che, viceversa, sarebbero favorevoli all’inserimento di altre industrie, tra cui quella britannica e statunitense. Cosa significherebbe, a suo avviso, escludere questi mercati? 

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Dobbiamo essere tanto lungimiranti quanto pragmatici senza cadere in retoriche, anche opposte, che rischiano di fuorviarci. Londra, e non parlo solo per l’evidente interesse italiano, visto che con la Gran Bretagna abbiamo importanti collaborazioni – pensiamo al Gcap – è la maggiore potenza militare d’Europa. L’Unione ha pertanto tutto l’interesse a collaborare e a sviluppare una comune capacità difensiva del Vecchio continente e quindi ben venga quindi l’accesso per le imprese britanniche al fondo Ue da 150 miliardi di euro. Del resto, questo spirito di cooperazione e questo reciproco interesse costituisce una delle basi dell’accordo di partnership strategica siglato pochi giorni fa a Londra tra von der Leyen e Starmer. Quanto agli Stati Uniti, è evidente che, specie in questo frangente e nonostante alcuni guastatori nostrani, sia interesse di tutti stringere ancor più i nostri rapporti e non allentarli. Adduco in primis questa ragione politica, perché nel comparto dell’industria della difesa è così evidente il primato tecnologico statunitense che nessun Paese comunitario può davvero pensare di farne a meno, almeno nel medio periodo. Collaborare con realtà all’avanguardia nella ricerca e sviluppo, tra cui la cibernetica, l’intelligenza artificiale e la robotica, e acquisire senza grandi problemi produttivi sistemi d’arma di elevata tecnologia è giusto e, aggiungo, doveroso. Serve il giusto mix tra lo sviluppo del settore nei confini comunitari e la collaborazione con le eccellenze extra-Ue. Per l’industria italiana questo aspetto è fondamentale.

A ridosso della votazione ufficiale sul pacchetto Safe, secondo la sua opinione, potrebbe cambiare l’approccio del nostro Paese all’utilizzo di questi fondi (che, ricordiamolo, sarebbero prestiti), visto che, per il momento, il governo ha anticipato che non ne farà uso?

Non c’è stata una chiusura totale sui prestiti, ma si vuole giustamente fare una valutazione complessiva al momento opportuno anche perché, sia chiaro a tutti, parliamo comunque di ulteriore debito. Safe raccoglie risorse sui mercati dei capitali che poi eroga sotto forma di prestiti diretti agli Stati membri, che a loro volta ne faranno richiesta sulla base di piani nazionali e che prevede comunque solo due categorie molto dettagliate di prodotti ammissibili. Va fatta quindi una duplice valutazione: la prima riguarda l’effettiva convenienza di questi prestiti; la seconda e se ciò in cui deve davvero investire il nostro Paese rientra nelle categorie prescritte, e io credo che in parte sia così. Ma, per esempio, ciò non riguarderebbe la spesa del personale militare. Eppure, le recenti stime che il capo di Stato maggiore dell’Esercito ha condiviso in Parlamento ci indicano la necessità di incrementare le dotazioni organiche fra le 40 e le 45mila unità rispetto alle previsioni normative vigenti. È quindi evidente che, anche accedendo al Safe, resta il tema di come finanziare esigenze vitali per il comparto.

Alla luce dei grandi movimenti europei intorno alla difesa, non crede che l’Italia potrebbe rischiare di rimanere indietro qualora non beneficiasse né degli strumenti messi a disposizione dall’Ue, né delle opportunità derivanti da un maggior coinvolgimento dei capitali privati (fondi, venture capital e singoli investitori)?

Assolutamente no. L’Italia non resterà indietro. Piuttosto sono convinta, come accennavo in premessa, che ci sia un tema più complessivo, politico, che riguarda l’intera Unione che, questa sì rischia di restare indietro. Se vogliamo diventare come Europa un attore globale, un soggetto in grado di assicurare in maniera autonoma la nostra difesa, dobbiamo saper predisporre altri strumenti rispetto a quelli fino ad ora immaginati, intervenendo anche sui Trattati. Quanto al coinvolgimento di capitali nel settore della difesa, sia a livello nazionale che europeo, è un tema complesso con diverse sfaccettature che non si esaurisce con il Libro bianco sulla difesa europea, poiché la rigidità nel settore limita l’efficacia degli investimenti europei.



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