Investimenti congelati e rischio insolvenze: le imprese italiane strette nella morsa dei dazi Usa
Il “Liberation Day”, il giorno dei dazi di Trump, ha segnato un vero e proprio spartiacque. Da quel momento, è cambiato il clima tra le imprese che lavorano con l’estero: meno ottimismo, più incertezze. Lo conferma il nuovo Global Survey 2025 di Allianz Trade, intitolato “Trade war, trade deals and their impacts on companies”, che mette nero su bianco un dato ormai più che evidente: la fiducia cala, le vendite rallentano e le previsioni di fatturato si rivedono al ribasso. Insomma, l’umore delle aziende è cambiato, e non in meglio. Ma quanto pesa davvero questa stretta sulle imprese italiane? Per capire chi paga il prezzo più alto, chi si sta adattando e chi invece, sorprendentemente, potrebbe uscirne rafforzato, Affaritaliani.it ha intervistato Maddalena Martini, economista di Allianz Trade per l’Italia.
Dopo l’annuncio di Trump sui nuovi dazi, molte aziende hanno rivisto le loro aspettative. È solo paura del momento o sta davvero cambiando lo scenario del commercio globale?
Diciamo che quanto emerso dal nostro sondaggio condotto prima del Liberation Day era abbastanza in linea con ciò che osservavamo già lo scorso anno. Tuttavia, nel 2025, dopo il Liberation Day, abbiamo registrato un impatto molto più marcato sulla fiducia delle imprese, che si è riflesso direttamente nelle decisioni di investimento: parliamo di un blocco degli investimenti e di strategie mirate ad aggirare l’aumento dei dazi. È emerso chiaramente che le aziende stanno rivedendo le proprie strategie; molte lo avevano già fatto in via precauzionale.
Per esempio, un terzo delle imprese aveva già identificato nuovi mercati, sia per quanto riguarda gli sbocchi commerciali sia per quanto riguarda la catena di approvvigionamento. Oggi, invece, due terzi delle aziende pianificano di farlo. Quindi assistiamo a un’accelerazione di trend già in atto, ma anche a una nuova urgenza di diversificare, di riorganizzare le rotte commerciali e di individuare nuovi partner, ad esempio in Asia piuttosto che in Europa, per prendere le distanze dagli Stati Uniti.
Perchè le aziende italiane sono particolarmente preoccupate per i ritardi nei pagamenti e per il rischio di insolvenza?
Per quanto riguarda il fatturato, vediamo che il 42% delle aziende italiane si aspetta un calo tra il 2% e il 10%. Basti pensare che, prima del Liberation Day, solo il 5% si aspettava un calo simile. Questo calo generale della fiducia si riflette anche nei termini di pagamento: il 66% degli esportatori italiani è oggi preoccupato per l’allungamento dei tempi di pagamento, un dato in netto aumento rispetto a meno del 90% che si dichiarava preoccupato prima del Liberation Day. Anche il rischio di mancati pagamenti è in crescita, e oggi interessa quasi il 60% delle imprese italiane, segnando un incremento di circa il 15%. I settori più colpiti sono in particolare il commercio all’ingrosso e al dettaglio.
In generale, le aziende stanno attivando meccanismi di adattamento, come il reindirizzamento dei beni verso nuovi mercati. Inoltre, dai risultati del primo trimestre è emerso che molte imprese hanno anticipato le spedizioni (frontloading), sia in termini di export sia lungo tutta la catena del valore, cercando di precedere l’introduzione dei dazi. Un altro aspetto emerso è che le imprese italiane fanno fatica ad assorbire l’aumento dei costi attraverso i margini: solo il 16% dichiara di volerli sostenere direttamente. La maggior parte preferisce trasferirli al cliente, aumentando i prezzi, oppure cerca di negoziare con i fornitori affinché siano loro a farsi carico di parte del costo. Le aziende stanno anche diversificando i mercati di sbocco, e da questo scenario di guerra commerciale potrebbero emergere nuovi “vincitori” come alcuni Paesi dell’America Latina o altri mercati asiatici.
Scaricare i costi sui fornitori o sui clienti è un metodo efficiente che può davvero funzionare, oppure è semplicemente un modo per “scaricare il barile”?
La strategia di trasferire i nuovi costi era già in atto anche prima del Liberation Day, ma ora si è accentuata. Tuttavia, oggi è più difficile attuarla perché c’è una compressione dei margini. Durante il periodo dell’inflazione, le aziende sono riuscite a mantenere margini più alti, riuscendo quindi ad assorbire i maggiori costi. Anche nel periodo immediatamente successivo alla crisi energetica, i margini si sono mantenuti su livelli buoni. Oggi, però, ci troviamo in un contesto diverso: la domanda è più debole e questo rende più complicato assorbire i costi. Di conseguenza, le aziende si trovano costrette a trasferirli, sia sui clienti (aumentando i prezzi), sia sui fornitori (negoziando condizioni migliori). Non è tanto una strategia per “scaricare il barile”, quanto una necessità, date le condizioni attuali del mercato.
Dal sondaggio emerge che l’Italia è uno dei Paesi in cui si prevede un maggior taglio degli investimenti nel 2025. Questo adattamento al rischio non rischia di trasformarsi in immobilismo, bloccando la crescita delle imprese?
Sì, è un rischio concreto. Il taglio degli investimenti è principalmente una reazione al forte clima di incertezza. L’Italia, nel nostro campione, è il Paese con la percentuale più alta di aziende che dichiarano di voler ridurre gli investimenti: parliamo del 23%. Lo vediamo anche dai dati sul credito alle imprese: nonostante i tassi d’interesse stiano iniziando a scendere, molte aziende restano in una fase di attesa, un atteggiamento di “wait and see”. Il problema è che se questa fase di attesa si prolunga troppo, il rischio è che si trasformi in immobilismo vero e proprio. Un lungo periodo di incertezza porta inevitabilmente a un rallentamento degli investimenti, e questo può avere conseguenze strutturali sul medio-lungo termine. Ci auguriamo, quindi, che nella seconda parte dell’anno, con una maggiore chiarezza sulle politiche commerciali e un possibile assestamento delle tensioni globali, possa tornare un clima di fiducia, così che le imprese ricomincino a investire.
Che cosa succederà dopo questa tregua? Oramai quella con la Cina sembra solo di facciata, visti gli ultimi sviluppi, ma l’UE? Potrebbe cedere al “ricatto” del 10% oppure scegliere di rispondere, magari rilanciando?
L’Europa è particolarmente esposta ai rischi geopolitici. Anche guardando al disavanzo commerciale che gli Stati Uniti registrano con l’Europa, è evidente come quest’ultima rimanga uno dei principali bersagli delle politiche tariffarie di Trump. Abbiamo visto, nelle scorse settimane, l’accordo commerciale con la Cina. Ora resta da capire cosa accadrà dopo il 12 agosto, quando terminerà questa pausa: ci si chiede se si tornerà a un livello di tensione più alto, cosa che noi riteniamo probabile, oppure se ci sarà una stabilizzazione, che coinvolgerà anche il Regno Unito e i Paesi del Medio Oriente.
In questo scenario, l’Europa appare ancora piuttosto immobile. Non c’è, al momento, una leadership forte né una posizione comune. Le elezioni in Germania hanno contribuito a una maggiore stabilità politica, ma ancora manca una risposta coordinata. Questo rende più difficile trovare una strategia condivisa e aumenta la probabilità che si debba giungere, ancora una volta, a compromessi con Trump.
Trump sembra ottenere risultati e accordi usando una politica commerciale fatta di minacce e pressioni. Ma è davvero un successo, o solo un modo per mascherare un cedimento di fronte alle reazioni dei mercati e alle pressioni dell’industria americana?
Il Liberation Day ha messo in discussione diversi equilibri, a partire dalla tenuta del dollaro. C’è stato un forte sell-off sui titoli di Stato americani, e questo ha generato conseguenze negative che, forse, nemmeno Trump si aspettava. La tenuta delle economie, Stati Uniti, Cina, Europa, nel primo trimestre è stata sorprendentemente buona, ma in gran parte è frutto del front loading delle tariffe: le aziende hanno anticipato ordini e scambi per evitare i dazi successivi al Liberation Day. Quindi i dati appaiono più solidi di quanto non siano realmente.
A lungo termine, non crediamo che questa politica possa portare benefici strutturali. Sicuramente ci sarà un ridisegno degli equilibri geopolitici e nuovi accordi commerciali: i Paesi sono spinti a cercare nuovi partner. Ma, anche se l’economia americana crescerà nel 2025, lo farà a un ritmo più debole rispetto alle previsioni precedenti. Inoltre, si prevede un picco inflazionistico entro l’estate, e la Fed rimane ancora incerta su come reagire.
Se dovessi individuare un possibile punto di svolta nei prossimi mesi, economico o politico, quale sarebbe? Cosa potrebbe davvero rimettere in moto la fiducia delle imprese e del commercio globale?
Ci vorrebbe una sfera di cristallo! Detto ciò, questa situazione può rappresentare un’opportunità per alcuni Paesi, che potrebbero fungere da esempio trainante per altri. Anche se l’Europa, in particolare Paesi come la Germania, l’Italia o l’Islanda che hanno un’elevata esposizione commerciale verso gli Stati Uniti subirà inevitabilmente delle penalizzazioni, una risposta coordinata potrebbe aprire nuovi scenari, ad esempio attraverso accordi con altre economie emergenti. Come già osservato, molte aziende cinesi con catene produttive negli Stati Uniti stanno cercando di rilocalizzarsi in altri Paesi asiatici, ma anche in alcune aree dell’Europa occidentale, che iniziano a diventare alternative interessanti. Certi legami, come quello tra Cina e Stati Uniti, sono troppo profondi per un completo decoupling, a causa delle loro interdipendenze strategiche. Tuttavia, l’incertezza e i rischi geopolitici continueranno a farsi sentire anche dopo la fine della pausa di 90 giorni.
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