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Romania elezioni presidenziali: analisi e conseguenze


Romania rurale | © Andrei Turca

Elezioni presidenziali in Romania: l’analisi a partire dall’annullamento del primo turno, nel novembre 2024. La vittoria del candidato filoeuropeo non esonera dall’analizzare le ragioni della risonanza suscitata dai messaggi nazionalisti e antioccidentali. Le preoccupazioni reali, le disuguaglianze e la pesante eredità del regime di Ceaușescu. I richiami alla Rivoluzione del 1989 e il ruolo della propaganda.

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Le elezioni presidenziali in Romania hanno portato alla vittoria un candidato che non muterà il corso europeo del Paese. Il candidato filorusso è stato sconfitto. Questa circostanza non esonera dal guardare alle ragioni per le quali candidati con profili ostili all’Occidente hanno raccolto tanti voti da sfiorare le più alte cariche dello Stato. Ha senso parlarne qui, poiché queste considerazioni non aiutano solo l’analisi delle elezioni presidenziali in Romania, valgono ormai per quasi tutti gli Stati europei. Nascono ovunque dalle stesse osservazioni: >le ragioni che spingono al successo i candidati detti «sovranisti;» la diffusa >disinformazione; le argomentazioni sulla >tutela della democrazia e del diritto di voto.

Sono stato in Romania per la prima volta nel 2005. Quindici anni dopo la caduta di Nicolae Ceaușescu, Bucarest portava ancora tutti i segni del suo regime, per tacere di ciò che si vedeva appena si usciva fuori città. Andai in aeroporto su un vecchio taxi Dacia che sbandava paurosamente e si fermò a metà percorso, con il motore fumante, costringendomi a cambiare mezzo.

Sono ritornato a più riprese, tra Timișoara e altri luoghi, fra il 2009 e il 2011; sono ripassato ancora anni dopo, tra Suceava e Iași, rientrando da un viaggio in Ucraina (ne parlo nel mio libro >Gli imperi non vogliono morire). Ogni volta ho registrato i visibili progressi della ricostruzione postcomunista, dovuti in larga parte all’adesione della Romania all’Unione europea, all’apertura degli scambi commerciali con il resto d’Europa e ai fondi erogati dall’Unione.

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ROMANIA: DISEGUAGLIANZE E RICORDI DEL PASSATO

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Vediamo allora perché due candidati che proponevano di riallacciare la Romania alla Russia, di compromettere le istituzioni democratiche nate dopo la rivoluzione del 1989 e distaccare il Paese dall’Europa hanno suscitato tanto consenso presso gli elettori.

Si tratta di Călin Georgescu, arrivato in testa al primo turno del novembre 2024 – poi annullato per manifeste irregolarità – e di George Simion, presentatosi in sua vece, uscito vincitore alla ripetizione del primo turno e sconfitto il 18 maggio al secondo turno da Nicușor Dan, candidato filo-occidentale.

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La campagna dei candidati «sovranisti» in Romania ha cavalcato due argomenti: il disagio economico e il nazionalismo. A differenza di quanto accade in Occidente, i partiti «sovranisti» dell’Est Europa utilizzano il tema della migrazione solo in modo indiretto. Data la scarsa presenza di migranti in quei Paesi, vi si riferiscono citando i problemi di identità sociale e ordine pubblico sollevati in Occidente dalle migrazioni incontrollate.

Altro tema ricorrente è la difesa di valori familiari tradizionali, opposto al diffondersi del riconoscimento del matrimonio omosessuale e di modelli familiari atipici. Su alcuni di questi temi i partiti «sovranisti» romeni agganciano malumori reali della popolazione.

Romania elezioni presidenziali e sviluppo territoriale diseguale

Uno dei peggiori fallimenti dei regimi comunisti è stata l’incapacità di ridurre la disparità di sviluppo economico e culturale tra le città e le campagne. Oggi, a più di trent’anni dalla fine del comunismo, alcuni Stati sono riusciti a ridurre questa divergenza. In Romania, la situazione di molte zone rurali è ancora difficile. In questi giorni, durante un dibattito televisivo, il professor Marian Preda, rettore dell’Università di Bucarest, in un’analisi delle elezioni presidenziali ricordava che la Romania rurale non è solo quella in cui sono arrivati i fondi europei e si sono sviluppate stazioni turistiche. Vi sono villaggi contadini nei quali le infrastrutture e i servizi sono tuttora fermi al momento della caduta del regime di Ceaușescu.

La causa è anche l’inefficienza dei governi che si sono succeduti dopo il 1989. Immaturità politica, corruzione e malaffare hanno impedito uno sviluppo ordinato del Paese e spinto gli elettori verso candidati cosiddetti antisistema. Da notare che anche il filo-europeo vincitore, Nicușor Dan, è un politico indipendente: nessun candidato proposto dai partiti tradizionali ha superato il primo turno elettorale. Su questa base di diseguaglianze sociali e territoriali, i candidati e partiti «sovranisti» hanno avuto gioco facile, nello squalificare l’opera dei governi finora operanti e il loro legame con l’Unione europea, incontrando la diffusa delusione della popolazione.

Il nazionalismo: l’eco del passato nei messaggi «sovranisti»

Sotto questo profilo, impressiona dirlo, i candidati «sovranisti» si sono fatti largo proponendo argomentazioni che ricordavano, mutatis mutandis, proprio i discorsi sgrammaticati e dalla pronuncia slabbrata di Ceaușescu. All’interno del blocco orientale, il leader comunista romeno si era ricavato con astuzia una posizione critica verso Mosca, proponendosi agli occidentali come mediatore tra i due blocchi.

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Ceaușescu, in realtà puntava, a ottenere favori e denari dall’Occidente. Li ottenne infatti, senza per questo rinunciare agli appoggi che Mosca elargiva ai suoi consociati. I candidati «sovranisti» di oggi hanno proposto ai loro elettori la stessa Romania «ponte» fra Mosca e Occidente che emergeva dai discorsi di Ceaușescu, persino con le medesime svergolature del linguaggio e la stessa retorica sulla centralità del popolo urlata a suo tempo da Ceaușescu dai suoi balconi.

Romania elezioni presidenziali: la retorica internazionalista

Se la retorica dei regimi comunisti si costruiva sull’internazionalismo («proletari di tutto il mondo, unitevi!»), l’orizzonte concreto di quei regimi era ben più ristretto. Nel 1985, poco più che ventenne, passai un agosto in Ungheria per un seminario. Vigevano ancora i regimi comunisti, i cui cittadini, come noto, non erano liberi di viaggiare fuori dal loro Paese, se non altri Stati dello stesso regime. Avevo un compagno di corso romeno poco più grande di me. Gli chiesi se non si sentiva limitato dall’impossibilità di viaggiare con libertà. Io, occidentale, potevo frequentare corsi ovunque volessi; lui, no.

Mi rispose quasi indignato: «Perché dovrei viaggiare fuori dalla Romania?! Ho tutto, è il mio mondo, cosa me ne faccio del resto?» Evitai di ricordargli che stavamo frequentando entrambi un corso in Ungheria, cioè fuori dalla Romania, dove, per giunta, lui era potuto arrivare solo perché anche l’Ungheria era a regime comunista, allora. Dalla sua reazione capii però qual era la radice della sua formazione e della sua visione del mondo: la dimensione nazionale, mentre da noi, in Occidente, qualunque giovane di vent’anni sognava di viaggiare e studiare all’estero.

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Il vero orizzonte dei regimi comunisti

Venticinque anni anni dopo, in una biblioteca di Timișoara chiesi vari titoli per una ricerca. Sbagliai, perché mi arrivarono dei manuali scolastici di educazione civica dei tempi di Ceaușescu. L’errore fu provvidenziale: leggendoli, vi trovai argomentazioni analoghe a quelle di qualunque dittatura nazionalista, dal fascismo italiano ai regimi dei generali sudamericani. Mi tornò in mente, allora, quel compagno di corso e la sua visione del mondo, inconcepibile per un giovane educato in Occidente.

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Già Stalin si era accorto che l’orizzonte internazionalista era troppo vago, per realizzare il comunismo. In attesa di unire i proletari di tutto il mondo, la costruzione richiedeva un orizzonte più concreto, anche per banali ragioni di gestione economica. Lo Stato nazionale, così, cacciato attraverso la porta dai rivoluzionari della lotta di classe, rientrava dalla finestra come limite necessario. Si ascoltino tutti i discorsi dei leader comunisti di allora: appena si gratta sotto la crosta della retorica internazionalista, compare il vero spazio della loro azione, quello nazionale, anzi nazionalista.  

Romania elezioni presidenziali, analisi: la visione

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I candidati «sovranisti» romeni hanno puntato di nuovo su quella visione. Non hanno vinto, ma hanno fatto man bassa di voti replicando i toni nazionalisti di Ceaușescu. L’imporsi di questi candidati con tali argomenti rimanda a due figure monumentali del pensiero politico moderno, Hannah Arendt e Karl Popper. Nelle loro opere hanno rivelato come le dittature si ritrovino sempre nelle stesse costrizioni ai diritti fondamentali. Non importa che le une, quelle comuniste, partano dalla difesa delle classi svantaggiate e le altre, quelle fasciste e naziste, dalla prevaricazione di una razza o di un despota.

La vicenda delle elezioni presidenziali romene ci insegna che il totalitarismo, di qualunque marca, ritorna sempre sulle stesse trame. «Poporul, Ceaușescu, România!» – Il popolo, Ceaușescu, la Romania! – cantava una delle canzoni propagandiste più note del regime romeno. I politici «sovranisti» di oggi potrebbero sfruttare lo stesso ritornello, solo sostituendo il loro nome a quello del conducator comunista.

Durante la rivoluzione del 1989 i dimostranti sventolavano bandiere romene con un buco al centro, per rimuovere lo stemma della repubblica socialista. E’ significativo che queste bandiere bucate siano ricomparse in piazza domenica sera, durante i festeggiamenti per la vittoria del candidato filo-europeo Nicușor Dan. Il suo successo non è solo elettorale: frena il ritorno ai disvalori contro i quali i romeni combatterono per mettere fine al regime di Ceaușescu.

Il voto dei romeni all’estero: la diaspora tra est e ovest

I molti romeni emigrati hanno votato a favore del candidato filorusso, George Simion. Secondo diversi osservatori, questa scelta è dovuta all’insoddisfazione degli emigrati per il carente sviluppo del loro Paese d’origine. Molti hanno lasciato la Romania subito dopo la caduta del regime comunista, per necessità di sopravvivenza. Oggi vorrebbero rientrare nel loro Paese, ma questo non offre ancora le opportunità necessarie, soprattutto nelle zone discoste, dalle quali molti emigranti provengono.

Se si guarda da vicino il voto dei romeni all’estero, si nota però che gli emigrati nei Paesi occidentali hanno votato con decisione a favore del candidato filorusso, mentre quelli emigrati in altri Paesi dell’Europa dell’Est hanno preferito con altrettanta forza il candidato filo-europeo. Il confine tra i due gruppi corre proprio sulla linea che separava l’Europa occidentale da quella orientale, durante la Guerra fredda, la cosiddetta «Cortina di ferro.»

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Se ne desume che i romeni all’estero non sono stati insensibili al contesto culturale in cui vivono. Gli emigrati nei Paesi dell’Europa orientale conoscono i pericoli di una ricaduta della Romania sotto l’ombrello russo, anche perché vivono in società altrettanto consapevoli. I romeni che vivono in Occidente sono esposti al clima culturale occidentale, che tende a sminuire la minaccia rappresentata dalla Russia, per impreparazione e per la massiccia propaganda filorussa che infesta i media dell’intero Occidente.

ROMANIA ELEZIONI PRESIDENZIALI, ANALISI: LA PROPAGANDA

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La propaganda diffusa dalla Russia è stata protagonista delle elezioni presidenziali in Romania e va inclusa nell’analisi. Leggere i documenti pubblicati dalle autorità romene dopo l’annullamento del primo turno elettorale, a novembre 2024, fa riconoscere l’articolazione della campagna di disinformazione orchestrata per spingere il candidato «sovranista.»

Una rete impressionante di espedienti e connessioni internazionali per aggirare i sistemi di protezione delle piattaforme Internet, generare profili e gruppi falsificati, occultare gli indirizzi di provenienza dei messaggi. Prima del voto, gli autori delle manipolazioni hanno condotto sondaggi in Romania, allo scopo di individuare gli argomenti più efficaci per pilotare le scelte degli elettori.

L’Istituto romeno per l’investigazione dei crimini del comunismo ha individuato e chiesto la chiusura di migliaia e migliaia di profili Internet che diffondevano false informazioni volte a >rafforzare la nostalgia per il regime comunista, un sentimento ancora presente in alcuni strati di popolazione dell’Europa orientale.

Vi è ancora chi pensa con nostalgia ai regimi di allora. I cittadini avevano poco e spesso nulla, ma erano liberi dal peso della responsabilità individuale. La vita era grigia ma prevedibile e, se vi erano dei mali, se ne poteva incolpare il regime. La democrazia, al contrario, produce una realtà mutevole, non sempre prevedibile; obbliga a prendere atto che se qualcosa non funziona il cittadino è corresponsabile. Una società libera senza assunzione di responsabilità individuale non è possibile.

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Che la propaganda abbia cavalcato l’argomento della nostalgia per il regime comunista dimostra che l’obiettivo non era posizionare il risultato elettorale a destra o a sinistra dell’arena parlamentare, ma cogliere ogni pretesto per dirigerlo verso un sistema autoritario. Un’altra dimostrazione che il segno politico di un regime non è determinante; lo è, invece, la negazione dei diritti fondamentali, non importa con quali argomenti.

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La Chiesa e la politica a Est dopo la caduta del comunismo

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Altra protagonista della disinformazione è la Chiesa, in Romania e in tutta l’Europa dell’Est. Le Chiese dell’Est hanno vissuto in clandestinità o semiclandestinità, sin dalla fine della Seconda guerra mondiale (in Russia ed ex Unione sovietica anche più a lungo). Le Chiese occidentali, in particolare dagli anni Settanta in poi, hanno dovuto adeguarsi al pluralismo e alla laicità dello Stato, sebbene non li abbiano mai accettati del tutto. Di fronte al conflitto in Ucraina, Papa Francesco non ha esitato ad allineare la Chiesa cattolica alla Russia di Putin (>qui), senza perdere occasione per mostrare le sue inclinazioni verso i regimi autoritari.

Le Chiese orientali, rifugiatesi nei seminterrati durante il comunismo, non hanno dovuto confrontarsi con la modernizzazione della società. Tornate libere alla fine del regime, hanno ripreso la loro azione come se fossero ancora negli anni Quaranta. Non esitano a sostenere politici nazionalisti, antieuropei e antisemiti, perché vedono nel loro conservatorismo la difesa dei valori tradizionali della famiglia, della centralità sociale della Chiesa e di una certa allure autoritaria che non dispiace alle gerarchie ecclesiastiche. Intanto, il sostegno ai «sovranisti» permette alle Chiese di porsi contro l’Unione europea, vista come baluardo della laicità dello Stato e della modernizzazione dei costumi sociali.

Durante il comunismo, le Chiese erano rifugio per molti fedeli che trovavano nella loro pastorale clandestina un sollievo dalla retorica del regime, in un clima sociale reso difficile da privazioni e diffidenze. I fedeli riconoscevano nei riti della Chiesa un legame con le tradizioni locali e nazionali: anche in questo, la Chiesa offre oggi ai «sovranisti» elettori ideali, pronti a fermare i loro sguardi ai confini nazionali, intesi anche come orizzonte di fede.

Romania elezioni presidenziali, l’analisi: analfabetismo funzionale

Connesso alla propaganda è un tema che è emerso più volte, nei dibattiti elettorali romeni: la diffusione dell’analfabetismo funzionale. Il problema affligge la Romania in modo molto grave. Un’indagine dell’Istituto di scienze dell’educazione ha messo in evidenza che il tasso di analfabetismo funzionale è cresciuto tra il 400 e il 500%, negli ultimi trent’anni. In Romania tocca oggi il 40-50% tra gli allievi che terminano il liceo (>qui).

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Durante un dibattito elettorale, il candidato vincitore Nicușor Dan ha caratterizzato questo dato con una osservazione che merita annotare: l’analfabetismo funzionale, ha detto, è una questione di sicurezza nazionale. Ha ragione, perché una popolazione affetta da questa disfunzione è sì in grado di leggere e scrivere, ma non di analizzare i contenuti ai quali è esposta e trarne conseguenze pratiche. Diventa così la vittima ideale delle manipolazioni attuate dalla propaganda.

STATO E DEMOCRAZIA: QUANDO INTERVENGONO I GIUDICI

L’intervento dei giudici romeni per annullare il primo turno delle elezioni presidenziali ha suscitato reazioni negative, come la poco successiva condanna in primo grado di Marine Le Pen, in Francia, per malversazioni nella gestione di denari europei. Vi è chi ha visto in questi provvedimenti la volontà degli organi di giustizia francesi e romeni di incidere sul voto, per evitare la vittoria di candidati non graditi.

Il quadro di falsificazioni che emerge dai documenti pubblicati in Romania sullo svolgimento della campagna elettorale del primo turno, a novembre, è tale che le autorità non avrebbero potuto non intervenire, poiché i segni delle irregolarità erano manifesti. Dopo l’annullamento, poi, si sono succeduti quasi ogni giorno arresti di biechi personaggi pronti alla rivolta armata. Per quanto concerne la condanna di Marine Le Pen: il procedimento deve ancora percorrere due gradi di giudizio, ma i fatti sono noti da tempo e neppure i protagonisti li hanno contestati, in giudizio.

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Se, in questi casi e altri simili, di fronte all’evidenza dei fatti, le autorità non fossero intervenute, si sarebbero esposte a rimproveri ancor peggiori, di omissione d’atti d’ufficio e di ingerenza impropria nei processi elettorali. Certo: l’intervento di un giudice per annullare una votazione o condannare un candidato presidente è un fatto estremo, ma la questione va vista da un’altra prospettiva.

Gli elettori dovrebbero intervenire prima

Di fronte a candidati che dimostrano di non possedere i necessari requisiti di esemplarità per accedere alle più alte cariche dello Stato; di fronte a candidati i cui proclami si fondano su propositi anticostituzionali e si presentano con campagne elettorali scorrette, all’insegna del complottismo e delle notizie falsificate, sono gli elettori che devono impedire che tali candidati giungano vittoriosi alle elezioni. Se, invece, i cittadini li spingono al successo con il voto, l’intervento dei giudici diventa inevitabile.

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Gli elettori devono esercitare il diritto di voto con responsabilità, anche quando desiderano esprimere una protesta. Un voto dato a persone non degne della carica, pronte a sovvertire le radici dell’ordinamento dello Stato e la sua collocazione internazionale, non è un legittimo voto di protesta, è un voto eversivo. In questo caso, che le autorità preposte a garantire l’ordine costituzionale intervengano, facendo recedere quei candidati, non è segno di malfunzionamento della democrazia, semmai il contrario.

ROMANIA ELEZIONI PRESIDENZIALI: ANALISI E CONCLUSIONI

La campagna elettorale presidenziale in Romania, soprattutto dopo l’annullamento del primo turno, si è svolta intorno a un argomento: la scelta non era fra due uomini destinati a salire al soglio presidenziale, ma tra due opposte idee di futuro del Paese. Da una parte, la permanenza nelle istituzioni occidentali, che garantisce la preservazione dei valori della Rivoluzione che nel 1989 rovesciò il regime di Ceaușescu; dall’altra, il riallineamento della Romania alla Russia e la ricaduta in un regime autoritario.

Una grande mobilitazione di elettori al secondo turno, soprattutto dei giovani, insieme alla vigilanza delle istituzioni, ha sconfitto il ritorno al passato e ha saldato la Romania al futuro europeo.

Nessuno Stato d’Europa ha alternative concrete, oggi, a maggior ragione dinanzi allo sbandamento degli Stati uniti e alle sfide di sicurezza che attendono il nostro continente. In questa vicenda, la Romania ha dato una lezione della quale prendere nota anche in altri Paesi.



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