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Un’agenda in cinque punti per uscire dall’emergenza salari


Nel loro recente libro Andrea Garnero e Roberto Mania espongono con precisione cause e conseguenze della “Questione salariale” che avvolge l’Italia (Egea, 2025).

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per le imprese

 

In una estrema sintesi (che fa torto alla ricchezza degli approfondimenti di un testo molto largo e articolato) si potrebbe dire che l’Italia da alcuni decenni soffre di un male cronico che ci pone in situazione di debolezza rispetto ad altri Paesi europei (e dell’Ocse). La produttività e i salari sono fermi e calanti in termini reali, la stragrande maggioranza delle imprese sono troppo piccole per competere su un mercato globale produttivo e finanziario. L’occupazione cresce ma le retribuzioni no. Il Pil e la produttività media sono in stagnazione. Il 10% di coloro che lavorano vivono in povertà ma cresce il benessere di alcuni strati sociali aumentando le diseguaglianze. Sono scarsi gli investimenti in innovazione tecnologica e al di sotto della domanda le competenze del lavoro. Il numero di laureati tra i giovani è da anni tra i più bassi d’Europa. Chi ha maggiori capacità emigra in altri Paesi alla ricerca di lavori più adeguati e gratificanti. Cresce l’inflazione indotta dai conflitti e dalle deliranti politiche neo-protezionistiche degli USA, si riduce il potere d’acquisto e con esso i consumi.

Di fronte a tutto questo gli autori parlano giustamente di una “emergenza” economica, sociale e anche politica, poiché i ceti medi impoveriti (anche dalla pressione fiscale), in assenza di interventi efficaci, si rivolgono al pensiero populista di destra. Gli altri Paesi europei hanno superato le emergenze economico-finanziarie del 2008, del 2012 e del Covid, noi no. Noi blocchiamo l’immigrazione di nuova forza lavoro di cui avremmo forte bisogno, di fronte a dinamiche demografiche negative che squilibrano i fondamenti del sistema di Welfare, a partire dalla sanità e dalle pensioni.

Lasciando agli autori il compito di definire le responsabilità di queste crisi e del perché i governi e le parti sociali non muovano azioni concrete per superarle, proviamo qui a buttar giù un’agenda ragionevole di cosa si dovrebbe iniziare a fare per contrastare le tendenze ormai purtroppo croniche, se non “storiche” che abbiamo richiamato.

Il titolo di questa “Agenda” potrebbe essere: “Dal Patto per la fabbrica a un Patto per il Paese”. A partire dalla necessità di rimettere in movimento le parti sociali e i corpi intermedi per concordare un rilancio delle pratiche di contrattazione e concertazione dopo una (troppo) lunga stagione fatta di lobbismo politico da un lato e di rivendicazione di più larghi diritti attraverso percorsi legislativi di scarso effetto, dall’altro.

L’agenda dovrebbe poggiare su 5 pilastri fondamentali, 5 indirizzi da adottare nei propri comportamenti (imprese e sindacati) e da rivendicare coerentemente nei confronti delle politiche di governo (nazionali, regionali e locali). Gli indirizzi potrebbero essere:

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  1. La crescita della produttività e dell’efficienza delle imprese e del lavoro;
  2. La crescita delle retribuzioni;
  3. Una maggiore partecipazione dei lavoratori e dei sindacati all’organizzazione

più efficiente (e più retribuita) del lavoro e dell’impresa;

  1. Un rafforzamento del Welfare universale (riducendo la supplenza concorrente del welfare aziendale che aumenta le diseguaglianze invece che ridurle);
  2. La crescita delle competenze attraverso percorsi scolastici e formativi che diventino, se non una norma obbligatoria per tutti, un “canale” diffuso di ingresso al lavoro.

Questa Agenda dovrebbe avere, secondo le migliori esperienze degli ultimi 30 anni,  3 diversi momenti di attuazione: un accordo imprese sindacati a livello “interconfederale” che concorda obbiettivi e indirizzi, la sperimentazione di una contrattazione di secondo livello più coerente e diffusa, un confronto impegnativo con i governi per la realizzazione di politiche di estensione e rafforzamento delle buone esperienze contrattuali realizzate. Difficile immaginare un percorso di direzione inversa: dal Governo (o dal Parlamento con le sue leggi) al luogo di lavoro.

Una sola accortezza che spesso sfugge non alle analisi ma alle politiche da realizzare. Il settore manifatturiero che guidava, per il proprio peso specifico, la quantità e la qualità della contrattazione, da tempo non è il settore che pesa di più in termini di occupati e di dinamiche retributive. Ciò comporta la necessità che la sperimentazione contrattuale e concertativa di cui sopra coinvolga direttamente i settori dei servizi (privati e pubblici). Questo è certamente un problema, anche culturale, per le parti sociali di questi settori.  Ma più che un vincolo, rappresenta una opportunità, perché le dinamiche demografiche della popolazione necessitano di servizi alla persona più estesi, più qualificati e più “regolari”. Così anche i servizi di cura di un territorio che, se privato di manutenzione, produce il moltiplicarsi delle emergenze e dei relativi danni.

Un progetto di sviluppo di 2 Welfare universali (delle persone e del territorio), potrebbe diventare l’asse portante di un percorso di crescita economica e occupazionale e di riduzione delle diseguaglianze territoriali e sociali del Paese.

Gaetano Sateriale



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