Per Israel Kirzner, economista austriaco dedicatosi particolarmente allo studio delle determinanti dell’imprenditorialità “l’imprenditore è l’agente dell’allerta che coglie le opportunità precedentemente ignorate per ottenere profitti”, gli fa eco Peter Drucker, il padre della disciplina del management, secondo cui “l’imprenditorialità consiste nella ricerca sistematica del cambiamento, e nella risposta a esso come opportunità”.
Cambiamento, scoperta, capacità di cogliere le opportunità, magari già esistenti ma ignorate, sono doti che caratterizzano l’essere imprenditore.
Recentemente è stato presentato il Rapporto del Global Entrepreneurship Monitor (GEM), un progetto internazionale che monitora da molti anni i tassi di imprenditorialità in 51 economie del mondo per chi intende avviare un’impresa, consentendo di fare riflessioni comparative tra la nostra economia e quella di altri paesi: la prima è che siamo al 31esimo posto sui 51 paesi analizzati, per nascita di imprenditorialità. Fatto 100 il numero delle imprese nate nel 2010, nell’ultimo biennio le nuove iscrizioni sono state circa il 25% più basse.
In un Paese che negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso era considerato la culla dell’imprenditorialità oggi sperimentiamo la continua riduzione della propensione imprenditoriale, cioè della percentuale di popolazione che si attiva per l’avvio (iscrizioni) di nuove imprese.
Insomma sembra (almeno) sopito lo spirito imprenditoriale del passato. Al contempo c’è una forte discrepanza tra quanti intenderebbero avviare una nuova attività (27%) e quanti effettivamente lo fanno (13%): ci sono aspetti legati proprio alla capacità di cogliere nuove opportunità, all’ambiente economico, ma un aspetto particolare è l’alta paura di fallire nel proprio progetto (circa 50%, superiore al dato medio europeo). Perciò l’attività d’impresa è considerata sempre più rischiosa, anche se in diversi casi remunerativa.
E qui si apre una considerazione di ordine valoriale e anche di modelli di comportamento. Quando parliamo di valori non intendiamo chiaramente il mito stantio dello shareholder value, il valore per gli azionisti alla base della trita narrativa neoliberista di stampo americano, ma dei valori etici e di sostenibilità, cioè il complesso di quegli elementi che rappresentano la base morale del capitalismo di cui le imprese (anche quelle nuove) sono parte essenziale. In altri termini facciamo riferimento alle imprese costituite per dare le gambe a un progetto di vita.
Recentemente IPSOS ha pubblicato il Rapporto 2025 sull’Italia-Flair 2025 dal quale emerge il senso di inquietudine della nostra società e soprattutto la perdita di fiducia anche interpersonale, base per un progetto di lungo termine, che sotto molti versi diviene irrealizzabile quando il 66% dei giovani intervistati si sente escluso e afferma di vivere in uno stato di stress e precarietà esistenziale.
Può sembrare paradossale che in un Paese dove aumenta la quota di imprese (già esistenti) caratterizzate per aspetti di coesività (negli ultimi cinque anni da 42 mila a 55 mila), che significa maggiore condivisione dei processi produttivi, maggiore relazionalità all’interno e all’esterno, rapporti di lavoro più fluidi e partecipati, c’è invece una contrazione di quanti vogliono mettersi in proprio per scommettere daccapo sul futuro.
Sembra inaridito il flusso di alimentazione tra chi è già sul mercato, e trova in un approccio di maggiore sostenibilità economico-sociale anche un vantaggio competitivo, e chi invece vorrebbe fare una nuova scommessa, ma invece ha timore di fallire perché non ha un adeguato orizzonte fiduciario e vede erosi anche diversi valori etici di riferimento.
Occorre riattivare questa osmosi tra l’esistente e il nuovo e per farlo occorre lavorare di più al quadro dei processi fiduciari a livello locale, rilanciando un’etica dei luoghi.
I valori di coesione e di partecipazione e l’intreccio comunità-istituzioni hanno rappresentato la matrice del nostro capitalismo familiare, quello dei distretti evolutisi nel “quarto capitalismo” delle medie imprese, che sembrava messo in crisi dalla globalizzazione trionfante e che invece ritorna come un ancoraggio in un’epoca in cui le certezze della globalizzazione si trasformano in timori e si è alla ricerca di più solidi riferimenti non solo per una nuova relazionalità, ma anche per una rinnovata fiducia nella capacità di iniziativa, propria e degli altri. Che poi significa ricostruire proprio “l’ingrediente” che può generare il processo di allerta e di continua ricerca di opportunità innovative alla base della scoperta imprenditoriale.
Che il tema sia quello di un ritorno alla matrice dei territori ce lo dice una recente analisi svolta insieme a Damiano Angotzi dell’Istituto Tagliacarne, secondo cui le realtà territoriali dove c’è una maggiore coesione e un maggior livello di “ben vivere” e benessere sono anche quelle dove c’è più alta correlazione con la spinta di nuove imprese.
C’è quindi un mutuo effetto tra luoghi dove si vive meglio e natalità d’impresa.
Ma allora il rilancio dei valori della nuova imprenditorialità, e l’abbassamento delle soglie di rischio percepito per le nuove iniziative, passa per una nuova centralità delle “politiche dei luoghi” e richiede una nuova e diversa attenzione, rispetto a quella prestata nel recente passato, da parte dei soggetti istituzionali e dei corpi intermedi, per rilanciare una società in cui l’imprenditorialità sia un valore non solo economico ma anche di sviluppo umano ed esistenziale.
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