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dialogo tra Giaccardi, Giovannini, Urbinati e Zuppi


In un contesto segnato dall’ascesa dei nazionalismi, dalla crescente polarizzazione del dibattito pubblico e da un uso distorto dell’informazione a fini politici, il legame tra democrazia, etica e sostenibilità appare sempre più fragile. Le tensioni geopolitiche e l’impasse delle istituzioni, sia nazionali sia internazionali, nel rispondere alle istanze dei cittadini alimentano un senso diffuso di sfiducia. Intanto, concetti fondamentali come libertà, rispetto e responsabilità vengono messi in discussione da una narrazione che esalta soluzioni semplicistiche e tecnologie salvifiche, slegate da ogni riferimento ai valori fondanti del vivere civile.

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L’Italia, l’Europa e il mondo intero sono chiamati a interrogarsi sul destino di quei principi che nel 2015 hanno dato vita all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, oggi osteggiata apertamente da alcune superpotenze. Come ricostruire, allora, un’etica condivisa che rimetta al centro il bene comune e restituisca senso alla democrazia e alla sostenibilità?

Queste le domande al centro del dibattito del 14 maggio all’Auditorium Mast, nell’ambito della tappa di Bologna del Festival dello Sviluppo Sostenibile, che ha visto il confronto tra Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’ASviS, la sociologa Chiara Giaccardi, la politologa Nadia Urbinati e il Cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana. A moderare l’incontro Agnese Pini, direttrice di Qn, Resto del carlino, la Nazione, il Giorno e Luce!.

Davamo per scontati certi valori, ma adesso ci accorgiamo che non sono più così condivisi. In un mondo che cambia, la Chiesa cattolica quanto può incidere?

Zuppi: Tutti ricordiamo l’immagine di Papa Francesco che prega da solo in una Piazza San Pietro deserta durante la pandemia: un gesto potente, in cui si è fatto carico delle angosce dell’intera umanità. Oggi, il “prima io” deve lasciare spazio al “prima noi”: la crisi climatica e le altre sfide globali ci dimostrano che senza unità non possiamo affrontare i problemi del Pianeta, proprio quelli al centro di questo Festival. La dottrina sociale della Chiesa parte spesso in svantaggio, anche solo a livello semantico. Eppure molte parole di Papa Francesco sono ormai entrate nel linguaggio comune. L’insegnamento sociale della Chiesa, la sua visione e il suo impegno concreto nella società sono fondamentali. Personalmente, sono convinto che chi non è in grado di fare un discorso sociale non riesca nemmeno a fare un autentico discorso spirituale.

Chiesa e Agenda 2030: quale il loro ruolo? E il multilateralismo è in crisi?

Giovannini: La dottrina sociale della Chiesa da decenni cerca di parlare al mondo, offrendo una lettura profonda della complessità contemporanea. Non c’è dubbio che l’istituzione ecclesiastica sia stata capace di cogliere in anticipo molte delle tendenze globali, anche sul piano ambientale e sociale. Un esempio emblematico è l’enciclica Laudato Si’, accolta con grande rilevanza soprattutto all’estero, più che in Italia. Con il tempo il messaggio “siamo tutti sulla stessa barca” ha subito un attacco diretto, in particolare da parte degli Stati Uniti, che hanno annunciato l’intenzione di ritirarsi dall’Agenda 2030. Questa presa di posizione ha provocato una forte reazione internazionale, ma è bene ricordare che anche in Europa si sono registrate scelte preoccupanti, come il taglio ai fondi destinati alla cooperazione internazionale. L’obiettivo implicito sembra essere quello di ricondurre tali agenzie a un ruolo esclusivamente economico, svuotandole della loro dimensione solidale e trasformativa. Eppure la pandemia da Covid-19 sembrava rappresentare un punto di svolta, l’occasione per immaginare un’alternativa al modello dell’antagonismo. Ma il mondo non ha colto quell’opportunità. Al contrario, abbiamo assistito a un rafforzamento dei nazionalismi, alimentati dalla paura, che si pongono in contrasto con la visione di un futuro condiviso. C’è però anche una buona notizia: con la riforma degli articoli 9 e 41 della Costituzione, fortemente voluta dall’ASviS, l’Italia ha stabilito che lo sviluppo economico deve conciliarsi con la tutela dell’ambiente, della salute e dei diritti delle generazioni future. Questo principio è oggi rafforzato dal disegno di legge 1192 sulla semplificazione normativa, approvato dal Senato l’8 maggio e ora all’esame della Camera. L’articolo 4 introduce la valutazione d’impatto generazionale: tutte le leggi – ad eccezione dei decreti-legge – dovranno indicare gli effetti non solo nel presente ma anche nel futuro. Si tratta di uno strumento cruciale per dare piena attuazione alla riforma costituzionale e per orientare le politiche pubbliche verso la sostenibilità intergenerazionale.

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Viviamo una crisi delle democrazie, che va avanti da tempo. Ma la democrazia è ormai obsoleta?

Urbinati: La politica oggi non è più in grado di offrire una visione del futuro. È da questo dato di realtà che dobbiamo partire. E va detto con chiarezza: anche il presente non è davvero democratico. Basta leggere gli articoli di chi ha rapporti stretti con gli Stati Uniti per accorgersi del crescente disprezzo verso parole come “uguaglianza” e “democrazia”. Non si tratta di casi isolati, ma di un movimento sistemico, determinato ad avanzare e a smantellare progressivamente le norme che hanno plasmato il nostro vivere civile. In questo contesto, ritengo che il nuovo Pontefice stia dimostrando una visione lungimirante, soprattutto quando parla di mondo digitale. Il tecnocapitalismo, o come lo si voglia definire, rappresenta oggi una forza senza legittimazione politica che, tuttavia, ambisce a conquistare lo spazio politico. L’intelligenza artificiale è una delle sue manifestazioni più potenti. Questa è la vera sfida che abbiamo davanti: non solo una crisi della democrazia, ma un tentativo di cambiare radicalmente il regime politico. La democrazia, in fondo, resta la forma di governo più adatta a gestire le crisi. Ma oggi ciò che stiamo affrontando va oltre: è un attacco profondo ai principi stessi su cui essa si fonda.


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Non abbiamo ancora a disposizione la parola esatta ma “tecnocapitalismo” fa capire bene la questione. C’è spazio per invertire la rotta? Per creare una nuova etica?

Giaccardi: Siamo di fronte a un bivio storico. L’inerzia del presente ci sta spingendo verso direzioni già analizzate con lucidità da Nadia Urbinati: sovranismo, individualismo e rifiuto del legame sociale. Questa deriva rappresenta oggi il contesto in cui si ridefinisce anche il concetto di libertà, spesso ridotto a una licenza d’azione sganciata da ogni responsabilità verso la collettività e l’ambiente. Già Hannah Arendt, riflettendo sulle radici del totalitarismo, metteva in guardia contro il rischio che il conflitto tra sovranismi conducesse inevitabilmente alla guerra. Eppure, ricordava, la libertà autentica si fonda sulla pluralità, non sull’isolamento. La libertà, cioè, non è dominio, ma coesistenza. Un altro aspetto critico del tecnocapitalismo contemporaneo è il cosiddetto dataismo, ideologia che riduce ogni esperienza umana a dati, rendendoli definibili e controllabili. Anche l’intelligenza artificiale parte da questo presupposto: che tutto possa essere tradotto in un codice binario. Ma non tutto è misurabile. Come si può quantificare l’amore per le persone? Come si può trasformare in dati la passione per la giustizia, per la cura, per il bene comune? L’alternativa è chiara: dobbiamo ripensare il significato stesso della libertà, non più come affermazione di una sovranità individuale assoluta, ma come condizione relazionale. Siamo individui non in quanto isole, ma in quanto parte di relazioni che ci costituiscono. È un pensiero controcorrente, certo. Ma continuare a seguire la corrente vediamo dove ci sta portando.

Al centro c’è sempre l’umano, come ci orientiamo dentro il grande caos in cui siamo immersi?

Zuppi: Ho l’impressione che oggi ci orientiamo molto poco. Abbiamo perso i punti cardinali. L’etica, spesso percepita come qualcosa di antico, quasi un’imposizione, sembra in contrasto con l’onnipotenza dell’io contemporaneo. Eppure, è proprio l’etica che deve tornare al centro del nostro tempo. Deve tornare “di moda”. Il mondo digitale ha amplificato l’io, ha esaltato l’essere slegati da ogni rete, da ogni identità condivisa. Ma questa illusione di autonomia assoluta genera confusione. Rischiamo di non sapere più chi siamo. In questo vuoto, dobbiamo riscoprire il senso della bellezza, della relazione. L’individualismo, che viene spesso presentato come forma di emancipazione, in realtà ferisce l’individuo stesso: lo isola, lo indebolisce. Papa Francesco, nell’enciclica Fratelli Tutti, ha osservato con lucidità che, in questo 21esimo secolo, gli Stati nazionali hanno perso potere anche perché lo hanno ceduto ai grandi soggetti economici globali. In un contesto di crescente frammentazione, la Chiesa ha oggi un ruolo cruciale: difendere l’umano, tenere insieme identità e dialogo, promuovere quella visione di fraternità universale che lega la Fratelli Tutti alla Laudato Si’. Un percorso che ha come obiettivo la ricerca di ciò che ci unisce, non di ciò che ci divide. In un mondo che assiste al ritorno del riarmo, senza una visione condivisa di unione e cooperazione, rischiamo di lasciare alle future generazioni un’eredità peggiore di quella che abbiamo ricevuto. La vera sfida è costruire una civiltà capace di custodire, non di distruggere.

 

Ma c’è spazio per una visione alternativa? E gli Stati Uniti hanno ancora gli anticorpi per resistere?

Urbinati: Nel 1931, in uno dei momenti più drammatici della storia europea, quando il continente si stava avviando verso il disastro dei totalitarismi, Papa Pio 11esimo pubblicò un’enciclica fondamentale. In quel contesto lacerato, comparve per la prima volta in modo sistematico un termine destinato a diventare cruciale: sussidiarietà. Un concetto rivoluzionario, che suggeriva agli Stati l’idea di autolimitarsi per lasciare spazio alle comunità, alle persone. Una proposta di organizzazione sociale e politica totalmente controcorrente rispetto all’epoca. Oggi, in un altro tempo di crisi, forse dovremmo agire tutti “come se”: come se un altro pensiero fosse possibile. Pensare in termini universali, difendere le istituzioni internazionali, è già un gesto politico potente. È un “come se” contro chi conosce solo l’“essere” e si rifiuta di immaginare alternative. Ed è anche un invito a liberarci di tutti quegli “ismi” che, pur sembrando dalla nostra parte, finiscono per essere un nemico. Riguardo agli Stati Uniti, c’è un dato positivo: la Costituzione americana è ancora lì, a fare da argine. Anche il mercato, in alcuni casi, sta opponendo resistenza alle derive autoritarie, così come le università, nonostante i tagli e le pressioni politiche. Donald Trump si comporta come un moderno re Mida: tutto ciò che tocca vuole trasformarlo in denaro. Ma, come ci insegna il mito, non è detto che alla fine non finisca col morire di fame.

Individualismo: siamo ancora capaci di relazionarci?

 Giaccardi: Dobbiamo fare riferimento al concetto che ruota intorno alla relazione liberante, quella dove cerco di portare un contributo grazie al quale altri saranno in grado di liberarsi. L’individualismo spinto oggi ci lascia spenti, disillusi, incapaci di vedere alternative. Ma le alternative esistono sempre. L’interdipendenza non è una minaccia, è una possibilità. Ci dice che esiste una libertà nel legame: una libertà contributiva, capace di cambiare il corso delle cose. È quella libertà che nasce dal riconoscersi parte di una comunità di destino, dove le scelte individuali hanno senso solo se inserite in un orizzonte comune. Questa comunità la costruiamo riscoprendo una dimensione spirituale, che non è proprietà di nessuno, ma patrimonio condiviso. Una spiritualità che ci invita a rifiutare le semplificazioni, ad accogliere la complessità come chiave per comprendere il mondo e il nostro posto in esso. Una complessità che ci ricorda che siamo tutti legati, e che solo dentro questo legame possiamo esercitare una libertà piena e responsabile. La sfida più grande che abbiamo davanti è educativa: trasmettere questa visione alle nuove generazioni. Insegnare loro che essere liberi non significa essere soli, ma parte di una rete viva di relazioni, dove ciascuno è chiamato a dare il meglio di sé per il bene di tutti.

In conclusione, cosa emerge da questo dibattito?

Giovannini: Colgo quattro messaggi. Primo: il mondo è difficile, e continuerà a esserlo. Secondo: il riduzionismo che vediamo intorno a noi è un disastro. Lo è perché abbiamo già visto dove ci porta e perché chi lo sostiene non chiarisce quali problemi intende risolvere. L’etica richiede un impegno, una scelta forte, per chi ha fede e per chi è laico. E nel nostro Paese il nostro credo comune è la Costituzione. Terzo: la libertà di scegliere. Ricordiamoci che, anche nei periodi più bui, ci sono sempre state persone che si mettevano insieme per capire come ricostruire dopo il disastro. Quarto: la sostenibilità. Con l’ASviS abbiamo scelto l’Agenda 2030 non perché sia perfetta ma perché, nel 2015, ha rappresentato il punto più alto della storia umana. In questo senso, oggi siamo chiamati a fare una scelta: da che parte stiamo?

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