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Cinque sì ai referendum. Così milioni di lavoratori saranno più forti, e ci sarà più fiducia nel futuro


Uno strumento per migliore la vita a circa 15 milioni di donne e uomini, dare loro più diritti e tutele. Un’occasione per invertire la tendenza ventennale del nostro Paese ad una via bassa allo sviluppo, con salari fermi, poca formazione, scarsi investimenti in innovazione e qualità. Questo è il merito politico e concreto che pongono i 5 quesiti referendari che voteremo il prossimo 8 e 9 giugno.

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Questa l’occasione che imprenditori seri, lavoratori, disoccupati, professionisti e pensionati hanno per dare un segnale chiaro al legislatore. Questa l’occasione, per tutte le forze politiche, per rianimare una connessione tra popolo e istituzioni, dopo decenni di delusioni, rabbia, preoccupazione per un futuro dove sembra che la politica e i Parlamenti nazionali non ce la fanno più ad incidere sulle questioni sociali, a prendere almeno un po’ il toro per le corna.

I due errori di chi invoca l’astensione

L’invito al non voto, soprattutto se viene da importanti cariche istituzionali o da importanti esponenti di partito, è un errore, anzi due. Un errore perché i quesiti – sia quelli sui temi del lavoro che sulla cittadinanza – parlano a bisogni e concezioni della società più trasversali di quanto si possa pensare. Un errore perché quando una forza politica alimenta l’astensionismo contribuisce a segare il ramo su cui è seduta, trasformando il confronto politico in una gara solo a chi più mobilita i propri (quindi esasperando i toni) e non anche a convincere l’altro.

Del resto, il primo quesito (quello sul ripristino del diritto alla reintegra come regola in caso di licenziamento illegittimo e il risarcimento come eccezione) parla almeno a 3,5 milioni di lavoratori. Lavoratori che ancora oggi – questa delle sentenze costituzionali che hanno già smontato tutto il jobs act è in gran parte una fake news – se sono licenziati individualmente per motivi economici o organizzativi non hanno più il diritto al repêchage. Cioè all’obbligo prima di licenziare una persona di vedere se ci sono altri lavori che può fare in azienda (se passasse il Sì in questo caso ci sarebbe la reintegra e non qualche mensilità di risarcimento se non venisse attuato il repêchage).

Basta a licenziamenti selettivi

Così come, se passasse il Sì, si potrebbe essere licenziati per motivi disciplinari solo nei casi individuati espressamente dai Ccnl che prevedono il licenziamento (caso tipico è il furto) e non nei casi in cui è prevista una sanzione diversa (per esempio in caso di ritardo con una multa). Se passasse il Sì ci sarebbe la reintegra (che oggi non c’è) in caso di licenziamenti collettivi che non hanno seguito i criteri di legge (per la legge 223/91 in caso di licenziamenti collettivi si deve partire dai più giovani, da quelli che hanno meno carichi di famiglia ecc.).

Non sono pochi i casi in cui licenziando più di 5 lavoratori questi vengono scelti per nome e cognome (magari quelli iscritti al sindacato o che vogliono dire la loro o che hanno protestato per motivi di sicurezza, ecc.) sapendo che si pagherà una certa cifra e festa finita. Con tutto l’effetto che questo rischio produce anche se non agito poi in concreti. E potrei continuare.

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Così come il secondo quesito (quello sulle tutele nelle imprese con meno di 15 dipendenti) che riguarda oltre 3,7 milioni di lavoratrici e lavoratori, che oggi in caso di licenziamento illegittimo hanno diritto massimo a 6 mensilità di risarcimento. Togliendo il tetto finalmente il giudice potrebbe imporre risarcimenti più elevati, in base alla gravità del fatto, ma anche all’anzianità del lavoratore, dei suoi carichi di famiglia, delle sue difficoltà a ricollocarsi ecc. Sapendo bene che questo riguarda soprattutto i piccoli imprenditori furbetti, quelli che magari aprono e chiudono in pochi mesi, che stanno nella zona grigia, perché i piccoli imprenditori seri non se li fanno scappare i lavoratori bravi, quelli con esperienza. Anche loro, i tanti bravi e preparati artigiani italiani per esempio, dovrebbero votare sì, per mettere un freno ai troppi furbetti.

Tutele per i contratti a termine

E poi c’è il terzo quesito, quello che finalmente sanerebbe la ferita aperta dal Governo Berlusconi nel 2001 (e non mitigata dal decreto dignità) per cui oggi si può assumere per i primi 12 mesi (e poi se serve lasciare a casa) un lavoratore con contratto a termine senza nessuna causale. Quando invece la regola dovrebbe essere l’assunzione a tempo indeterminato e poi la possibilità di assumere con contratti temporanei per motivi veri e oggettivi (che nessuno nega sia chiaro): per sostituzione di lavoratori in maternità, malattia, infortunio, per picchi produttivi o commesse particolari, per attività limitate nel tempo e non ripetibili, per attività stagionali, ecc.

Insomma, si tratta di mettere un freno a quelle norme che hanno trasformato un abuso in una regola, condannando circa 2 milioni e mezzo di lavoratori (tanti sono i contratti a termine) a vivere uno stato di perenne ricatto (“sto buono se no non mi rinnovano il contratto”, “faccio tutto purché mi confermino, anche un lavoro per cui non sono stato formato o anche per 12 ore’, ecc.).

La responsabilità degli appaltatori

Il quarto quesito è poi quello forse più facile da spiegare. Riguarda gli appalti, riguarda 3/4 milioni di lavoratori, riguarda la salute e sicurezza sul lavoro, lungo la catena degli appalti e subappalti. Oggi il committente è responsabile in solido se l’azienda a cui ha affidato un appalto non paga stipendi o contributi ai suoi dipendenti , ma non lo è se qualcuno si fa male a seguito dei c.d. “rischi specifici”. Tradotto dal sindacalese: il committente non risponde di eventuali infortuni legati all’uso di sostanze chimiche impiegate nel processo, o se macchinari e attrezzature sono vecchie, se i lavoratori dell’appalto hanno fatto o meno la formazione prevista, ecc. Eppure, lavorano di fatto per lui, sicuramente per il suo guadagno e profitto…

Se passassero i sì i committenti risponderebbero anche di questo in caso di infortunio e – come ci dimostra l’esperienza dove il 70% degli incidenti avviene negli appalti e subappalti, in cantiere, nelle manutenzioni, nei magazzini, nella logistica, ecc. – magari selezionerebbe le imprese più serie e strutturate, verificherebbe la qualità dei mezzi e materiali, le cinte del camion o la qualità delle impalcature, la vetustà del muletto o del trattore, e la formazione ricevuta dai lavoratori. Così l’appalto tornerebbe ad essere quello che per cui fu pensata originariamente la norma: un’attività specialistica che affido a chi è più bravo di me, ha le competenze ed i mezzi per fare meglio e non uno strumento solo per risparmiare sui costi del lavoro e sulla pelle dei lavoratori, una leva per aumentare profitti e un modello di concorrenza basata sul principio del “massimo ribasso” a prescindere.

Il diritto alla cittadinanza

Ed infine c’è il quinto referendum che, modificando la legge del 1992, darebbe a 2,5 milioni di lavoratori e lavoratrici straniere, dipendenti, imprenditori, professionisti – che da anni risiedono in modo stabile e legale, con redditi certi e continuativi, ecc. – il diritto a poter richiedere la cittadinanza dopo 5 anni e non 10, riconoscendo anche ai loro figli poi, una volta riconosciuti italiani i genitori, di avere anche loro in automatico la cittadinanza italiana.

Del resto, sono questi milioni di donne e uomini che stanno da anni contribuendo alla nostra ricchezza, al nostro welfare, alle nostre pensioni. Solo loro che fanno anche lavori che spesso non vogliamo più fare eppure ci servono. E i loro figli parlano l’italiano, per non dire i nostri dialetti, accanto ai nostri figli e nipoti, sono più tifosi della nostra nazionale di tanti italiani snob…

Cinque Sì per un’altra idea di sviluppo e di futuro

Ed ecco allora le ragioni di merito che devono vivere in questo ultimo, decisivo mese di campagna elettore. Strada per strada, casa per casa, luogo di lavoro per luogo di lavoro. Tenendo insieme infine il merito con il metodo: il ricorso al protagonismo democratico del Paese, dei lavoratori certo, ma anche di imprenditori e professionisti, studenti e pensionati.

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Occasione per le stesse forze politiche democratiche e progressiste, ma anche liberali e moderate, per rimettere al centro un’altra idea di sviluppo e di crescita, perché non giriamoci intorno: un lavoro povero, un lavoro precario, un lavoro insicuro non solo genera bassi salari, ma anche una cultura di impresa chiusa e poco propensa all’innovazione, una scarsa voglia di investire su sé stessi, sui propri saperi, sulla propria crescita. E quindi minore domanda interna, minore propensione al cambiamento, minore mobilità sociale.

La vittoria dei Sì non risolverà tutti i problemi, ma traccerà una rotta nella direzione più giusta. Renderà più forti qualche milione di lavoratori e più coeso il paese, generando un clima di maggiore fiducia verso il futuro. E anche solo per questo bisognerebbe andare l’8 e 9 giugno prossimo a votare.



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