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tre milioni in meno nel 2035


L’Italia si trova davanti a una sfida demografica di proporzioni storiche: nei prossimi dieci anni, il Paese vedrà un ingente calo dei lavoratori, con una perdita di tre milioni di persone in età lavorativa. A lanciare l’allarme è uno studio della CGIA di Mestre, basato sulle previsioni dell’Istat, che dipinge un futuro segnato da squilibri occupazionali, declino produttivo e tensioni nei conti pubblici. Con l’invecchiamento della popolazione e una natalità costantemente in calo, l’intero sistema economico rischia di subire contraccolpi profondi. Dal Nord al Sud, nessuna provincia sarà risparmiata, e a risentirne maggiormente saranno i settori più fragili e le imprese di dimensioni ridotte. Di fronte al calo dei lavoratori in Italia, le strategie adottate oggi saranno decisive per il domani dell’intero Paese.

Il Mezzogiorno in prima linea nel calo dei lavoratori in Italia

A pagare il prezzo più alto del calo dei lavoratori sarà soprattutto il Sud Italia. Secondo l’elaborazione condotta dalla CGIA di Mestre sui dati Istat, metà dei quasi 3 milioni di lavoratori persi nei prossimi dieci anni riguarderà le regioni meridionali. La Sardegna si trova in cima a questa drammatica classifica, con una contrazione del 15,1%, pari a circa 148mila persone. Subito dopo compaiono la Basilicata (-14,8%), la Puglia (-12,7%), la Calabria (-12,1%) e il Molise (-11,9%).

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A livello provinciale, Nuoro potrebbe perdere quasi il 18% della sua forza lavoro, seguita da Sud Sardegna, Caltanissetta, Enna e Potenza. In termini assoluti, è Napoli la provincia più colpita, con oltre 236mila persone in meno nella fascia attiva. Le regioni settentrionali, invece, sembrano reggere meglio l’urto: in Trentino Alto Adige, Lombardia ed Emilia-Romagna la diminuzione sarà contenuta tra il 2,8% e il 3,1%. Tra le province meno a rischio si distinguono Bologna, Prato e Parma, con cali inferiori all’1,5%.

Il mercato del lavoro si svuota

Nei prossimi dieci anni, l’Italia perderà quasi 3 milioni di persone nella fascia di età compresa tra i 15 e i 64 anni. Questa riduzione, stimata in un -7,8%, rappresenta una seria minaccia per il sistema produttivo nazionale. Dai 37,3 milioni di individui registrati a inizio 2025, si passerà a 34,4 milioni nel 2035, evidenziando una contrazione costante e strutturale della forza lavoro.

Alla base di questo trend c’è il progressivo invecchiamento della popolazione: sempre meno giovani entrano nel mondo del lavoro, mentre i baby boomer escono per raggiunti limiti d’età. Un fenomeno che, secondo la CGIA, non risparmierà nessuna delle 107 province italiane, confermando l’estensione nazionale del problema. Nessun territorio potrà dirsi immune.

PIL in frenata e crescita compromessa

Le conseguenze economiche di questa emorragia demografica sono molteplici e interconnesse. Meno lavoratori significano meno produzione, meno consumi e minori entrate fiscali. Il calo dei lavoratori, unito a fattori globali come la transizione energetica, la digitalizzazione e le tensioni geopolitiche, porterà inevitabilmente a un rallentamento del PIL. Un destino già scritto, secondo la CGIA, a meno di interventi drastici e tempestivi.

Neanche il contributo della manodopera straniera, spesso invocato come soluzione, non potrà colmare completamente il vuoto. Il tempo richiesto per integrare efficacemente nuovi flussi migratori nei processi produttivi è troppo lungo per fronteggiare un fenomeno che già bussa con insistenza alla porta.

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Un vantaggio, seppur relativo, per le grandi aziende

Le imprese più strutturate potrebbero reggere meglio l’urto della crisi. Le medie e grandi realtà produttive, grazie alla loro capacità di offrire stipendi più alti, pacchetti di welfare aziendale e condizioni di lavoro più flessibili, avranno maggiori chance di attrarre i pochi giovani disponibili sul mercato. Al contrario, le piccole e microimprese, cuore pulsante del tessuto economico italiano, faticheranno a sostenere la concorrenza, con il rischio concreto di ridurre organici o cessare l’attività.

Nel frattempo, alcuni comparti potrebbero essere parzialmente “salvati” dalla riserva ancora disponibile di disoccupati nel Sud e nelle Isole, in particolare nei settori del turismo e dell’agroalimentare. Tuttavia, si tratterà al massimo di un’attenuazione temporanea del problema, non di una soluzione.

Impatto sul welfare e pressione sulla spesa pubblica

L’invecchiamento della popolazione avrà anche un forte impatto sui conti pubblici. Con sempre più cittadini over 65 e sempre meno contribuenti in età lavorativa, lo squilibrio tra entrate fiscali e uscite per pensioni, sanità e assistenza diventerà insostenibile. Il rischio è di dover affrontare tagli o riforme impopolari pur di mantenere in equilibrio il sistema.

Un altro aspetto critico è la riduzione della propensione alla spesa. Le persone anziane tendono a risparmiare di più e a consumare meno, colpendo settori cruciali come il commercio, il turismo, i trasporti e l’edilizia. L’intero sistema economico potrebbe trovarsi in una fase di stagnazione cronica.

In questo scenario cupo, un comparto potrebbe però trarne vantaggio: quello bancario. L’elevata propensione al risparmio tipica della popolazione anziana potrebbe far aumentare i depositi, dando nuova linfa alle istituzioni finanziarie. Tuttavia, questo “vantaggio” è un’eccezione in un panorama generale dominato da squilibri e criticità.

Le prospettive non sono incoraggianti, ma rendono evidente l’urgenza di politiche pubbliche mirate. Servono incentivi alla natalità, piani di formazione professionale, riforme strutturali per favorire l’occupazione giovanile e una gestione intelligente dell’immigrazione. Solo così si potrà evitare che il declino demografico si trasformi in una recessione economica e sociale irreversibile.

Lucrezia Agliani



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